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Un ‘Ciclone’ di nome Sandro Mazzinghi

Il rispettoso saluto ad un re del pugilato italiano

Sandro Mazzinghi aveva le mani pesanti e l’orgoglio dei leoni. Aveva un desiderio interiore raro, forgiato da fame e ristrettezze economiche, accresciuto dal dolore intenso del lutto e della pena.

Non doveva essere una vita facile, quella del guerriero di Pontedera, almeno così aveva stabilito il fato. Nato in tempi di guerra, per anni dovette fare a meno di tanto, di tutto. “In casa nostra non avevamo niente”, rammentava in diverse occasioni.

Un niente che, pronunciato da Mazzinghi, assumeva la forma della fierezza, dell’orgoglio, di un enorme vuoto materiale.

Raccontò di mangiare un singolo tozzo di pane a pasto, il grande Sandro, osservando la madre allontanarsi silenziosamente dal tavolo.

Per il cibo combatté, nel vero senso della parola.

Seguendo l’esempio di suo fratello Guido, bronzo olimpico ad Helsinki 1952, il 15enne Mazzinghi oltrepassò le corde alla ricerca di soldi e di una vita distante dalla povertà.

I rapidi ko gli consegnarono inizialmente piatti di pasta, bistecche e bicchieri di vino. Poi, quei pugni impazziti e vorticosi, potenti come un ‘Ciclone’, lo portarono sul tetto del mondo.

Aveva appena 25 anni, Mazzinghi, quando detronizzò l’australiano Dupas, facendo dei superwelter il proprio regno.

Temuto, rispettato. Sui ring Mazzinghi portava una giungla di combinazioni serrate, ferine; danzava su note antiche, tipiche di un re della guerra senza paura, senza rimorsi.

Si batteva così, Sandro. Sempre all’attacco, mai un passo indietro. Un picchiatore puro, come amava definirsi, un uomo spinto da una forza di volontà unica nel suo genere.

Una forza di volontà che lo aiutò a risollevarsi dal periodo più buio della vita: quando dal paradiso del titolo si trovò catapultato negli inferi delle lamiere fumanti.

Bastò un attimo, un tratto d’asfalto eccessivamente bagnato, a cambiare la vita al guerriero toscano.

Il volante impazzito, lo schianto contro un tronco d’albero, il corpo sbalzato fuori dall’abitacolo e la giovane moglie, Vera, vittima inerme dell’impatto. Fu un incubo, fu una tragedia.

“Alla boxe devo tutto”, ripeteva  comunque il ‘Ciclone’ pontederese. E nella nobile arte trovò un luogo di pace dopo l’oblio personale.

Tornò a combattere presto, forse troppo: lo fece forse per dimenticare, sicuramente per non rendere vacante la cintura. Fu allora che trovò sulla sua strada il grande Nino giunto dall’Istria.

In quegli affascinanti anni ’60 Sandro e Nino furono Gino e Fausto, furono un Paese diviso a metà dal rombo di montanti e diretti, furono radio accese e stadi gremiti.

Eroi popolari, duellanti dal sangue blu pugilistico.

Si odiarono in un modo tutto loro, si odiarono come solo i grandi sanno fare. Un odio dal forte sentore di rispetto e ammirazione.

A spuntarla fu l’esule Benvenuti, al termine di due palpitanti incontri: capitoli di una faida intensa, spettacolare e controversa, seguita da fiumi d’inchiostro che paralizzarono l’Italia sportiva.

In molti gridarono allo scandalo, reclamando la corona sulla testa di  Mazzinghi. Lui stesso non accettò la decisione dei giudici.  

Poteva essere la fine, così non fu. Si scrollò di dosso tutto, l’infinito Sandro, si  rialzò ancora una volta dalle macerie della propria vita e andò a riprendersi quello che aveva perso.

Davanti a un San Siro estasiato, Mazzinghi tornò sul tetto del mondo. Vinse ai punti, dopo  un’interminabile e sanguinosa guerra con il coreano Ki-Soo Kim.

Fu l’apice di una carriera superba, di una vita destinata alla grandezza. Fu l’istantanea di un essere umano capace di vincere non solo sul ring.

Redazione

24 agosto 2020

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