Un toro scatenato sul ring, Jake LaMotta

Il pugile che non conosceva il dolore. L’uomo che ispirò Scorsese e De Niro
“Per cui datemi un’Arena,
Jake il Toro si scatena,
perché oltre al pugilato,
sono attore raffinato”
Che interprete, fu Jake LaMotta. Un attore di sé stesso, regista e protagonista di una vita dedita tanto all’ingovernabile irrazionalità, quanto alla nobile arte, tanto alla scatenata aggressività, quanto alla lucida autorialità.
Che interprete, fu il Raging Bull del Bronx. La roccia del ring, il bufalo dal mento granitico e inviolabile, il toro dalle membra insensibili al dolore, l’uomo che conobbe sempre e solo una direzione, l’andare avanti. Tra sangue e mafia, tra eccessi e cinture.

MESSINA, IL BRONX, IL RIFORMATORIO, LA SOPRAVVIVENZA
“La paura non è necessaria”
Un semplice ragionamento, una semplice filosofia. La paura, un termine che nella New York degli anni ’30 era ben più che tangibile. La paura, un’idea che nel girone infernale del Bronx, palude di malavita e calcestruzzo, lambiva e sporcava presto i sogni di qualsiasi bambino, oscurandone sogni e spensieratezza.
Bisognava disfarsene, di quella paura. Lo sapeva bene Giuseppe LaMotta, immigrato italiano salpato dalla povera Messina verso la terra promessa americana. Non trovò denaro, Giuseppe, non trovò fortuna. Trovò invece l’America più dura, il Paese messo in ginocchio da Grande Depressione e disoccupazione, da infiltrazione mafiosa e disperazione.
“Combattere è tutto ciò che ho sempre saputo. Ho iniziato a 7 anni, nelle strade, per racimolare qualche soldo con cui pagare l’affitto a mio padre. Combatti per ottenere ciò che vuoi”
Nacque sul ring, Jake LaMotta, un ring privo di corde, un ring d’asfalto e sigarette, d’accenti italiani e occhi da evitare.
Suo padre lo iniziò all’arte del duello, o meglio, dell’autoconservazione, ancora in periodo infantile. Dopo un’aggressione subita, Jake si vide recapitare uno spaccaghiaccio come arma per potersi difendere. Utilizzò quell’oggetto più volte, sentendosi inviolabile, poi, un giorno, lo dimenticò sul comodino e gli toccò rimpiazzarlo con le sole mani serrate.
Nel wild west chiamato Bronx i suoi pugni fecero subito scalpore, la folta comunità italoamericana iniziò a lanciare spiccioli per veder scambiare rudimentali pugni a quel bambino dal viso già segnato da fierezza e aggressività.
Finì in riformatorio, Jake, seguendo il naturale corso della vita. Venne accusato di rapina. Nel carcere di Upstate scoprì la vera noble art, quella affrescata da sacchi e guantoni, da sacrificio e corde. Un’arte che l’avrebbe reso mito.


IL MENTO CHE NON SAPEVA CEDERE, NEMMENO ALLO ‘ZUCCHERO’
“Fui in grado di convincere il mio corpo che nessuno potesse farmi male. Potevo tagliarmi, potevo avere dei punti sopra l’occhio, un naso rotto, una mano rotta… Ma non mi sono mai fatto veramente male”
A 19 anni Jake LaMotta combatté il suo primo match da professionista. A 20 anni incrociò per la prima volta i guantoni con il ballerino del ring, il pugile fatto di zucchero, ‘Sugar’ Ray Robinson.
Fu l’introduzione di un romanzo diviso in sei, estasianti, capitoli: una faida meravigliosa, una sfida tra pesi medi antitetici, distanti tanto morfologicamente, quanto tecnicamente.
Da una parte le gambe di quercia di LaMotta, radici semovibili, la sua indomita capacità di muoversi passo dopo passo, colpo dopo colpo, spalla dopo spalla, i suoi jab e diretti, treni in movimento di cui era possibile conoscere la partenza, mai l’arrivo.
Dall’altra l’estetica, estatica elusività del più completo pugile della storia (definizione suffragata dallo stesso LaMotta), i piedi mossi vorticosamente, le braccia talmente veloci da risultare invisibili, la bellezza unita all’efficacia del serial killer.
LaMotta fu il primo pugile a sconfiggere Robinson. Ci riuscì a 21 anni, nel territorio ostile di Detroit, la ‘Motor City’ dove Sugar era cresciuto lustrando scarpe e ballando per strada.
In quel match del febbraio ’43, il Toro del Bronx interruppe la striscia perfetta di 40-0 del suo avversario, spedendolo addirittura fuori dal ring durante l’ottavo round, in uno dei momenti più iconici della storia pugilistica.
“Ho combattuto così tante volte contro ‘Sugar’… É un miracolo che non abbia il diabete”
Pronunciò queste parole LaMotta dopo il sesto e ultimo match contro il GOAT di ‘Black Bottom’.
Erano passati nove anni da quel 1942, nel frattempo l’italoamericano era riuscito a raggiungere il titolo mondiale dei pesi medi, regolando il bellissimo e maledetto francese Marcel Cerdan e difendendo la cintura, tra gli altri, con l’angelo di Trieste Tiberio Mitri, infliggendo al friulano una punizione che gli avrebbe cambiato carriera e vita.
Quel 14 febbraio 1951 del Chicago Stadium, epilogo della rivalità più affascinante della storia pugilistica, passò alla storia come il ‘Il Massacro di San Valentino’.
Un singolo match, anzi, una singola sconfitta bastò a definire l’approccio ai guantoni del Toro del Bronx. Sul ring dell’Illinois andò in scena un autentico massacro perpetrato da Robinson ai danni di un barcollante LaMotta. 13 round che parvero un’esecuzione, più che un combattimento. 13 round in cui LaMotta, nonostante un numero di colpi subiti inauditi, non toccò mai a terra.
“Bisogna saper accogliere i pugni. L’idea non è quella di una punizione non necessaria, l’idea è il non farsi mandare ko… E io non sono mai andato ko. Vi faccio una metafora con il baseball: se vuoi prendere una palla con il guantone, accogli la palla muovendo la mano all’indietro. Quel piccolo gesto, fatto all’ultimo secondo, ti permette di non subire un colpo forte. Se fai la stessa cosa con un pugno, ti arriverà al 50% della sua forza. Il segreto è muoversi con il pugno”
Il ‘Massacro di San Valentino’ tolse a LaMotta il titolo middleweight e, di fatto, pose fine alla sua carriera: una parabola segnata non solo dalle migliaia di colpi assorbiti volontariamente, ma anche da un morboso e pericoloso rapporto con l’alcol e con il gentil sesso.

JAKE IL TORO, ATTORE RAFFINATO
“Mia moglie non ha mai saputo quanto mi ubriacassi. Aspettavo notti intere prima di rientrare a casa e mostrarmi sobrio, poi un giorno ho aspettato troppo poco…”
L’epopea di Jake LaMotta non può limitarsi alla vita sul ring. Lo riconobbe Martin Scorsese, firmando la pellicola sportiva più celebre della storia sportiva, ‘Raging Bull’. Un’epopea costellata di incandescenti liti familiari, di vizi e violenze sregolate, ma anche di uno spiccato senso artistico.
Abbandonato il ring, difatti, LaMotta rilevò un bar a Miami Beach, dove cominciò una seconda carriera da imprenditore e stand-up comedian. Comparve anche in numerosi film e, soprattutto, allenò Robert De Niro, preparando l’attore di Manhattan ad una delle più grandi performance in carriera: con ‘Raging Bull’, non a caso, De Niro vinse il Premio Oscar come miglior attore.
Fino al 2017, anno della sua morte, LaMotta continuò ad essere cercato da piccolo e grande schermo, da documentartisti, biografi e semplici appassionati.
“Io sono il toro che corre a testa bassa. Anche se sono ferito, anche se sono colpito, vado avanti sempre a testa bassa”
Che interprete, fu Jake LaMotta. Semplicemente il miglior intereprete di sé stesso.

Gianmarco Pacione
Sources & Credits
Photos sources:
https://www.wetheitalians.com/from-usa/giacobbe-jake-lamotta-nicknamed-bronx-bull-or-raging-bullhttps://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.thesun.co.uk%2Fsport%2F4510186%2Fjake-lamotta-boxing-raging-bull%2F&psig=AOvVaw1DMhgx4g1XNZy654afutrZ&ust=1636189456835000&source=images&cd=vfe&ved=0CAsQjRxqFwoTCPD1ufHugPQCFQAAAAAdAAAAABAJhttps://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DMmTHYnWq_qs&psig=AOvVaw1DMhgx4g1XNZy654afutrZ&ust=1636189456835000&source=images&cd=vfe&ved=0CAsQjRxqFwoTCPD1ufHugPQCFQAAAAAdAAAAABAPhttps://www.ringtv.com/article/518146/https://eu.usatoday.com/picture-gallery/sports/boxing/2017/09/20/raging-bull-boxing-champ-jake-lamotta-through-the-years/105813968/https://www.theguardian.com/sport/2017/sep/20/jake-lamotta-obituary
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