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Tifare Khabib

La UFC ha il suo Ivan Drago. Bisogna odiarlo per forza?

Gianmarco Pacione

6 settembre 2019

Dustin Poirier si presenta in pompa magna al combattimento più importante della sua carriera: tutta America lo venera, gran parte del mondo della MMA lo sostiene a spada tratta. A parlare per lui è la sua storia, classica scalata strappalacrime, stereotipato sogno a stelle e strisce eternamente efficace: un viaggio verticale dalle mille difficoltà dei sobborghi di Lafayette, Louisiana, alle bollenti scazzottate nei ring del profondo sud USA, per arrivare sorprendentemente alla cintura di campione ad interim dei leggeri UFC. Un ragazzo per bene, un uomo retto, che si fa spesso ritrarre con la moglie sorridente e la giovane figlia in braccio. Un filantropo, attivo per la sua comunità e fondatore di un ente operante nella città d’origine. Un underdog, un eterno sottovalutato che deve essere sostenuto senza esitazioni nello scontro con Khabib, l’oscuro dio della guerra russo. È troppo facile però stare dalla parte dell’americano.

Tifare Khabib Nurmagomedov significa sostenere il male, significa essere all’angolo di un robot delle arti marziali miste. Il suo metodo di combattimento è un manifesto alla semplicità, alla solidità: nell’ottagono non c’è mai spazio per inutili fronzoli, non ci sono tempi morti, l’assedio all’avversario è un costante logorio visivo e sensoriale. Parteggiare per l’Aquila del Caucaso significa accettare i suoi allenamenti in giovane età, a mani nude contro cuccioli di orso, condividere la scelta di entrare nell’ottagono con un papakha peloso sul capo (simbolo delle alte gerarchie militari sovietiche prima, russe poi), aprirsi ad una cultura e ad una religione che in questo momento creano inquietudine e sgomento.

Khabib è musulmano credente e praticante, Khabib è stato forgiato da un universo socio-geografico parallelo e da un padre maniacale, sperduto nel profondo Daghestan, arida terra di nessuno. Solo il suo nome mette ormai a disagio, soprattutto dopo le scene di lucida follia al termine del match dello scorso ottobre con Conor McGregor: un incontro iscritto a pieno titolo nell’epica UFC per il salto nel vuoto, dopo la vittoria, dell’atleta russo. Un balzo improvviso, felino, alla ricerca degli amici dello showman irlandese, a caccia della giugulare emotiva di quel rivale che tanto lo aveva aggredito nei mesi precedenti. “Send me location” aveva detto, a poche settimane dal match, stuzzicato dall’ennesimo affronto di McGregor. La location non era mai arrivata, almeno fino a quella sera.

Tifare Khabib significa accettare i nove mesi di squalifica per quel gesto di violenza surreale, significa comprenderne i motivi e riflettere su un uomo che mai si era scomposto caratterialmente prima di quel momento. Un fighter messo in croce e annichilito dalla frustrata stampa americana, aizzata dal suo rifiuto a partecipare, come oratore, ad un programma di sensibilizzazione riguardo il problema del bullismo: perché il bullo in quella faida, in fondo, non era stato lui.

È difficile mandare al diavolo la retorica del Rocky contro Ivan Drago, è difficile rifugiarsi nell’ombra quando tutti gli altri ad Abu Dhabi cercheranno il sole, è difficile prendersi la responsabilità di scollarsi dalla massa e osservare frementi l’angolo sbagliato. Khabib Nurmagomedov-Dustin Poirier, UFC 242, titolo dei leggeri in palio.

Tifare Khabib è difficile, certo, ma non impossibile.

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