Sugar Ray Robinson, lo zucchero nei guantoni

Un solo pugile fu il più grande di tutti, anche per Muhammad Ali. Lo chiamavano ‘Zucchero’, la sua boxe era ritmo e dolcezza, potenza e intelligenza
“Quell’uomo era incredibile. Tempismo, velocità, riflessi, ritmo, il suo corpo… Tutto era perfetto. Dico sempre di essere il più grande peso massimo di tutti i tempi, ma Sugar Ray Robinson è stato pound per pound il più grande di tutti i tempi. Era il re, il maestro, il mio idolo”
Non aveva dubbi, Muhammad Ali, quando parlava di Sugar Ray Robinson, l’uomo dai guantoni zuccherati. È francamente difficile confutare l’opinione del mito di Louisville, è francamente difficile anche solo metterla in dubbio.
Perché Sugar Ray Robinson per la boxe è stato una forma d’arte, un genio fortunatamente compreso, un ballerino letale.
Nessuno, come lui, è riuscito ad estrapolare da un rituale sportivo così violento e ancestrale, il tanto teorizzato concetto di nobiltà; nessuno, come lui, è riuscito a farlo con tale costanza, combattendo anche a cadenza settimanale, e svariando in così tante categorie di peso, cinque per l’esattezza.
“L’unica analogia che posso fare è quella con Shakespeare”, dichiarò Woody Allen, “Perché è vero, Charlie Parker arrivò e rivoluzionò il jazz, ma dopo di lui tutti suonarono il sassofono allo stesso modo. Con Robinson e Shakespeare, invece, si parla di un tipo d’ispirazione diversa, al di sopra di tutto e di tutti”.

BLACK BOTTOM. UN’INFANZIA DA LUSTRASCARPE, UN’INFANZIA DA WALKER SMITH
Sugar Ray nacque Walker Smith Jr il 3 maggio 1921 ad Ailey, in Georgia. Ben presto si trasferì negli angusti meandri della Detroit popolare. “A Detroit vivevamo nel quartiere chiamato Black Bottom. Black perché eravamo tutti neri, Bottom perché eravamo in fondo a tutto, più basso di così non si poteva andare… Mio padre lavorava contemporaneamente come miscelatore di cemento e manutentore di fognature, si doveva alzare alle sei del mattino e ritornava a casa verso mezzanotte. Sei giorni su sette. L’unico giorno in cui potevo veramente vederlo era la domenica…”.
Nella città dei motori Walker iniziò a boxare, incrociando i suoi occhi con quelli di un allora minorenne, ma già quotatissimo, Joe Louis. Per il futuro ‘Campione della gente’ il piccolo Walker funse sostanzialmente da portaborse, trascorrendo ore ed ore della propria infanzia a bordo ring, osservando da vicino la costruzione di uno dei pugili più popolari e influenti della storia americana.
L’apprendistato visivo durò poco, interrotto da un nuovo trasferimento verso la Grande Mela, questa volta in compagnia della sola madre. “Mia madre guadagnava all’incirca 10 dollari al giorno, decise di andare a New York per provare a guadagnarne 15”.
Sui marciapiedi newyorchesi l’adolescente Walker iniziò a lustrare scarpe per racimolare qualche centesimo. Non si limitò a quello. Affidandosi ai piedi rapidi e coordinati, diede vita a spettacoli di ballo davanti a sparuti gruppi di persone, allenando inconsciamente quella che sarebbe diventata una delle sue più grandi qualità sul ring.
Legatosi ad una palestra cittadina, il suo esordio nel circuito amatoriale coincise con la creazione del suo secondo nome, quello che l’avrebbe definito per il resto della vita. Non avendo ancora compiuto l’età consentita per entrare nel quadrato, l’allenatore-accompagnatore decise d’iscriverlo ad un incontro usando le generalità di Ray Robinson, suo compagno di allenamenti. Walker, o meglio, il finto Robinson, superò brillantemente il battesimo di fuoco e vinse anche nei match successivi, diventando ufficialmente l’astro nascente Ray Robinson.
Osservando le grezze, ma già celestiali combinazioni di quel ragazzo magro e ammaliante, segnato dagli stenti della New York sottoproletaria e da un così dolce talento innato, il futuro manager George Gainford compose una rapida associazione metaforica, aggiungendo il pezzo mancante di uno pseudonimo destinato alla leggenda.
“Your boxing is sugar”, confidò al camuffato Walker Smith. Mai pensiero fu più efficace e veritiero.

UN DOLCE URAGANO DI KO E VITTORIE
“Sugar è stato il migliore di tutti perché non aveva paura. Poteva contare su uno dei menti più inscalfibili della storia, non ha mai perso per ko in 25 anni di carriera… Era speciale anche nel rialzarsi da terra e vincere. Sapeva essere all’altezza di ogni occasione”, affermava il giornalista Jack Newfield.
Con la sua boxe virilmente raffinata, l’uragano Sugar Ray si abbatté prima sul mondo dilettantistico, con due Golden Gloves vinti da peso gallo e peso leggero, poi sul mondo professionistico, mietendo vittime con una facilità disarmante anche nel mondo dei grandi.
85 vittorie consecutive tra i dilettanti, di cui 69 per ko, funsero da surreale trampolino di lancio per il primo passo nella boxe retribuita. Un esordio che arrivò nel più dorato dei palcoscenici, il Madison Square Garden, durante la notte del 4 ottobre 1940. Nella Mecca newyorchese, Joe Echevarria divenne inconsapevolmente il primo nome di una lunga lista d’inermi caduti per mano del killer più dolce al mondo.
Uscito praticamente illeso dai primi match nella categoria dei pesi leggeri, compresi quelli con i rinomati Tommy Angott e Marty Servo, Sugar fu costretto a salire di categoria di peso per affrontare avversari che potessero replicare con maggiore consistenza ai propri poetici fendenti.
Le prove si fecero subito più complesse. L’ex ballerino da marciapiede archiviò con qualche difficoltà un ostico scontro con Fritzie Zivic, croato-americano uscito sconfitto prima del tempo solo quattro volte su oltre duecento incontri. Sugar Ray fu il secondo ad obbligare alla resa anticipata il duro rigurgitato dal Ninth Ward di Lawrenceville, luogo infernale ben descritto dalle aspre parole di Zivic stesso: “Dovevi decidere se stare chiuso dentro casa o se uscire e combattere. Io e i miei fratelli decidemmo di uscire”.
L’angolo di Zivic, in quella sera del 16 gennaio 1942, arrivò inconcepibilmente a protestare davanti alla decisione arbitrale di porre fine alla sofferenza del proprio assistito: uno stop che parve sacrosanto, quasi salvifico, giunto dopo dieci round di autentico massacro. Scrisse a riguardo il New York Times: “(L’angolo) stava criticando un atto di solidarietà umana. La battaglia è stata più che altro una macellazione, se vogliamo utilizzare una parola delicata”.
Battaglie, anzi, massacri condivisi, furono quelli che videro Sugar Ray danzare il valzer della sopravvivenza con il ‘Toro Scatenato del Bronx’, Jake LaMotta. L’italoamericano dalla turbolenta vita, consegnato alla storia dalla magica interpretazione cinematografica di Robert De Niro e dall’estro artistico di Martin Scorsese, rappresentò nel periodo a cavallo della Seconda Guerra Mondiale la nemesi perfetta per Sugar.
Uno elegante e cerebrale, leggero e musicale, l’altro solido e coriaceo, pronto a scambiare a viso aperto senza remore o timori di sorta, un monolite insensibile al dolore. “Ho incontrato Sugar Ray talmente tante volte, che è un miracolo che non sia diventato diabetico”, avrebbe detto il figlio del Bronx al termine del sesto e ultimo duello con Robinson.
Fu proprio il figlio del migrante messinese che ogni 25 dicembre era solito sparare verso il cielo per annunciare la morte di Babbo Natale, a sporcare il record di 40-0 modellato da Sugar nel mondo professionistico. Dopo una prima sconfitta ai punti, LaMotta nella rivincita fece pesare i quasi 7 chili di differenza in suo favore, mandando ko Robinson al settimo round (addirittura spedendolo fuori dal ring dell’Olympia Stadium di Detroit) e vincendo poi per decisione unanime.
LA GUERRA, L’ESERCITO E UNA DUBBIA AMNESIA
Il 22enne Robinson, poco dopo aver vinto un terzo match contro LaMotta, nel febbraio ’43 venne chiamato alle armi. In divisa, Robinson venne integrato nel battaglione diretto da Joe Louis, uno speciale reparto formato da soli pugili professionisti: volti di spicco del quadrato, spinti ad esibirsi davanti a folle oceaniche di militari, con il solo obiettivo di risollevarne il morale.
Inizialmente organizzato sul solo suolo americano, il tour pugilistico di Robinson e colleghi si trasformò in crociata razziale una volta raggiunti gli Stati dell’America meridionale. Fu proprio Robinson in prima persona a rifiutarsi di combattere in una base del Mississipi: un diniego frutto della completa assenza di militari afroamericani a bordo ring. Al termine di una lunga trattativa con i vertici governativi, vennero, almeno per qualche ora, abbattute barriere segregazioniste e azzerate distinzioni di colore.
Dopo mesi di boxe itinerante in patria, Louis e soci videro evolvere la missione a loro affidata. La US Army richiese ai pugili di attraversare l’Atlantico e d’inscenare la nobile arte davanti agli occhi sempre più spenti e alle menti sempre più spaesate dei connazionali di stanza oltreoceano. L’unico a non partire fu Sugar Ray Robinson.
Fu un mistero quello che vide coinvolto il pugile di origini georgiane. Un mistero che cominciò nel pomeriggio del 29 marzo 1944, quando Robinson scomparve dal suo alloggio nella base di Fort Hamilton. L’astro della boxe americana venne ritrovato cinque giorni dopo in stato di semi incoscienza, disteso sul lettino di un ospedale militare. Robinson affermò, nell’incredulità generale, di ricordare solamente una brutta caduta dalle scale e di aver vagato per ore e ore senza meta, vittima di amnesia, fino all’incontro di uno sconosciuto benefattore che lo riconobbe e lo accompagnò in un altro centro d’assistenza dell’esercito.
Un lucido stratagemma o un insolito incidente, il dubbio non venne mai sciolto. Sta di fatto che Robinson non salì sulla nave insieme ai suoi commilitoni, restando ricoverato per qualche tempo e vedendosi congedato con onore dopo vari esami clinici. Una vicenda che non venne mai completamente chiarita e che fece gridare allo scandalo la stampa americana.

LA GIOIA DEL PRIMO TITOLO, IL DOLORE DI UNA PRIMA VITTIMA
Ripresosi dal trauma, o presunto tale, e superato da spettatore esterno l’epilogo della Seconda Guerra Mondiale, Robinson tornò a calcare i ring.
Dopo aver inanellato un record di 73-1-1 e aver sbaragliato tutti i contendenti per il titolo mondiale dei pesi welter, finalmente Sugar potè fregiarsi della prima cintura iridata, superando Tommy Bell il 20 dicembre 1946: un match che i giornali descrissero come una “guerra”, vinta ai punti da un Robinson capace di riprendersi da un ko apparentemente definitivo e di far propria la contesa sulla lunga distanza.
Una gioia intensa e fugace, presto annullata da quello che Robinson descrisse come l’evento più oscuro della sua vita. Nella notte precedente alla prima difesa del titolo, Robinson sognò di uccidere Jimmy Doyle, il creolo che avrebbe dovuto affrontare la sera successiva. Influenzato dal sogno premonitore, Sugar comunicò agli organizzatori dell’evento di non voler combattere. Dopo una lunga chiacchierata con alcuni uomini di chiesa, Robinson decise di salire comunque sul ring e, durante l’ottavo round, con un fulminante gancio destro interruppe la vita del suo avversario.
Cadde in depressione, Sugar, “Pensai seriamente di smettere”, ammise a distanza di anni. Venuto a conoscenza del desiderio di Doyle di comprare una casa alla madre, Robinson decise di commemorare il defunto collega compiendo l’azione in prima persona: gesto che sedò solo parzialmente i demoni liberati da un omicidio tanto involontario, quanto irrazionalmente previsto.
Dopo aver regolato Kid Gávilan e Charles Fusari, Robinson affrontò George Costner, l’uomo che osò definirsi “il vero Sugar”. Mai dichiarazione fu più sbagliata.
“Sarà meglio se ci tocchiamo i guantoni ora, perché questo sarà l’unico round”, disse Robinson al suo alter ego sullo scoccare della prima campana, “Ora torna là fuori e conquistati un tuo nome”, aggiunse dopo appena 2 minuti e 49 secondi, con Costner steso a terra da un fulmineo ko.
QUANDO SAN VALENTINO DIVENNE UN MASSACRO
Nel 1950 Robinson decise di scalare un ulteriore gradino di peso, aprendosi la strada dei pesi medi. Superati Robert Villemain, Bob Olson e Jose Basora, quest’ultimo con uno scioccante ko arrivato dopo 50 secondi (record di rapidità destinato a durare per quasi quarant’anni), Sugar si ritrovò ad osservare negli occhi l’ormai fratello di ring Jake LaMotta, provando a strappare la cintura iridata alla roccia italoamericana.
Il 14 febbraio 1951 non fu un San Valentino all’insegna dell’amore. Il Chicago Stadium dovette assistere ad un “massacro”, come lo definì la stampa a stelle e strisce, una punizione brutale, orrorifica, inflitta dal ballerino del quadrato ad un ‘Toro del Bronx’ che per una sera apparve impotente, matato e vessato da infinite serie di combinazioni che obbligarono l’arbitro a fermare l’incontro anzitempo. Fu il secondo ko tecnico nella vita di LaMotta, il primo reale, considerando che nella prima occasione l’incontro con Billy Fox venne dichiarato combinato.
“Se l’arbitro avesse lasciato correre per altri 30 secondi, Sugar sarebbe collassato per la quantità di colpi che mi stava assestando”, commentò LaMotta al termine di quell’ultimo brutale capitolo di una saga durata quasi un decennio. “LaMotta è l’uomo più duro contro cui abbia combattuto, non ho mai visto uno più aggressivo e duro di lui”, avrebbe ricordato a distanza di tempo Robinson stesso, con quel serio e vicendevole rispetto che solo i giganti sanno riservarsi.

IL PRINCIPE DIVENUTO RE, TRA STRAVAGANZE E LATI OSCURI
121-1-2. Il record del neocampione dei pesi medi rappresentò molto più di una semplice statistica sportiva, entrò sotto pelle nell’intera cultura popolare.
L’incantevole re middleweight decise di salpare verso il Vecchio Continente, spinto dal luccichio di borse esorbitanti e dalla consapevolezza di potersi battere davanti a popoli nuovi: folle di adoranti adepti in trepidante attesa di poter ammirare il più grande pugile del ventesimo secolo.
A colpire l’immaginario collettivo europeo furono sì, gli invisibili uppercut e diretti di Robinson, ma anche le sue insolite usanze. Il nuovo nobile della boxe sbarcò in Francia con un entourage di 13 persone e 20 bagagli personali. Tra i vari accompagnatori trovarono posto un maestro di golf, un barbiere, un autista e, addirittura, un nano ‘da compagnia’.
“Robinson era un artista vero, e come tutti gli artisti poteva attingere da un vasto menu di tic, fobie ed eccentricità”, commentava, in parte sconfessando la propria indole, Woody Allen.
Un listino di manie e strane usanze, quello di Robinson, un menu decisamente ampio: per esempio Sugar guidò a lungo una Cadillac rosa, unico esemplare in tutti gli States, non salì mai su un ascensore, non utilizzò mai il nome proprio per chiamare parenti e amici, ma solo soprannomi (mogli comprese), e ancora, bevve un bicchiere colmo di sangue prima dell’ultimo incontro con LaMotta, offrendone un po’ al disgustato italoamericano.
Aneddotica e realtà si accavallarono a lungo, rendendo Robinson una vera e propria celebrità, un personaggio destinato inevitabilmente a venire risucchiato dal jet set artistico statunitense. Sugar venne ricercato morbosamente da attori e musicisti, personalità del calibro di Frank Sinatra, Jackie Gleason, Nat King Cole e Lena Horne: ospiti fissi nel suo locale notturno di Harlem.
Soprattutto, Sugar e il suo inebriante charme divennero nettare per un numero inusitato di rappresentati del gentil sesso. Tanto affascinante, quanto infedele, Sugar non rispettò mai il vincolo matrimoniale, affittando camere d’albergo in ogni angolo del mondo e adibendole a zone franche per il proprio culto edonista: usanza che ebbe un impatto devastante negli equilibri familiari e nel rapporto con i figli avuti da vari matrimoni.
Inaffidabile nel mondo esterno, eppure integro all’interno del ring, Robinson resistette lungo tutta la carriera alle sirene della mafia italoamericana: mano nera allungata su una grossa fetta dell’universo pugilistico a stelle e strisce.
Sugar più volte venne contattato direttamente da Frankie Carbone, figura prominente, quasi mitologica, della malavita a sfondo tricolore, ma mai si piegò a proposte economiche per sistemare i propri incontri. Carbone e soci, abbagliati dalla grandezza dell’atleta georgiano, sorprendentemente evitarono ritorsioni di sorta, limitandosi ad una silenziosa accettazione d’impotenza.
Altrettanto impotente, o meglio, inaffidabile fu lo stesso Robinson nella gestione delle proprie finanze. Unico padrone della propria immagine, riconosciuto da tutti come uno dei migliori negoziatori della storia sportiva, Sugar Ray strinse accordi milionari con i vari organizzatori di eventi, sfruttando appieno la fase di transizione dei vari media e chiedendo cospicue percentuali per apparizioni televisive e radiofoniche. Investì tutto in night club e attività gestite sbadatamente, finendo per ritrovarsi ciclicamente sul lastrico.

IL DECLINO DEL BALLERINO CON I GUANTONI
Robinson tornò dall’Europa con molti ricordi erotici in più e con un titolo di campione mondiale dei pesi medi in meno.
Nell’ultima tappa del tour oltreoceanico, Sugar Ray venne inaspettatamente sconfitto dal britannico Randolph Turpin, salvo poi riconquistare il titolo davanti ai 60mila del Polo Grounds di New York City, tenendo fede ad una straordinaria statistica: Sugar non lasciò mai allo stesso avversario due match consecutivi, da tutte le sconfitte patite (saranno solo 19 a fine carriera) si riprese sempre con una vittoria nel rispettivo rematch.
Superato un altro avversario altamente evocativo come Rocky Graziano, l’uomo dalla boxe zuccherata decise di sfidare il campione del mondo dei pesi leggeri, Joey Maxim. Nel clima tropicale dello Yankee Stadium, Robinson dominò l’incontro, dimostrando ancora una volta l’enormità della propria classe e l’apparente facilità nel governare ogni categoria di peso immaginabile. Sugar Ray, avanti su tutti i cartellini, dovette arrendersi al 13esimo round per il devastante effetto che i 39 gradi centigradi stavano avendo sul suo corpo.
“In quell’incontro svenne per primo l’arbitro, che dovette essere sostituito”, ricordò il primogenito di Ray Robinson Jr, “Poi le gambe di mio padre iniziarono a tremare sempre più, round dopo round. Alla fine decise di non continuare. In quell’inferno perse svariati chili, gli trovammo il corpo pieno di vesciche, per giorni delirò e non riuscì a bere o mangiare. Dopo quell’incontro decise di lasciare la boxe”.
Il 25 giugno 1952 Robinson si ritirò per la prima volta, decidendo di dedicarsi anima e corpo al sogno di diventare una celebrità televisiva. Per tre anni Sugar Ray provò la metamorfosi in ballerino di tip tap e cantante: un folle desiderio che, oltre ogni più rosea aspettativa, lo vide meravigliare il grande pubblico americano in un’inedita (e assolutamente credibile) veste di mattatore da piccolo schermo.
Poi, vessato da pesanti debiti con il fisco, Robinson si vide costretto ad abbandonare il buen ritiro artistico e a risalire sul ring. Problemi economici che il boxeur non nascose e non dissimulò: “Sono tornato perché ho bisogno di soldi? Sì, tutti hanno bisogno di soldi… In fondo non mi è mai piaciuto veramente boxare, è sempre stato un business per me, uno strumento per fuggire dalla povertà”.
Nonostante il lungo periodo d’inattività, dopo un primo passo falso con Tiger Jones, l’infinito talento di Robinson lo attirò magneticamente ancora sul tetto del mondo. Sugar riconquistò il titolo dei pesi medi contro Bob Olson nel 1955. Titolo che Robinson perse alla prima difesa contro Gene Fullmer l’anno seguente, salvo poi risalire velocemente la china grazie ad un gancio sinistro al mento assestato al ‘Ciclone dello Utah’ durante il quinto round del rematch.
L’ultima grande faida di un Robinson ormai sulla soglia dei 40 anni prese forma, per uno strano scherzo del destino, con un altro italoamericano: Carmen Basilio. L’ex coltivatore di cipolle riuscì a strappare il titolo a Robinson dopo 15 durissimi round combattuti in un suggestivo Yankee Stadium, riempito da 38mila appassionati. Robinson riuscì per la quinta, ed ultima volta, a riappropriarsi della cintura di campione del mondo dei pesi medi al termine di un leggendario rematch, che vide Basilio segnato pesantemente in volto già dalle prime riprese, con un occhio sinistro completamente ostruito da un enorme rigonfiamento.
La vittoria con Basilio fu l’ultimo grande ballo del dolce Sugar. Nel 1960 iniziò l’inesorabile e fisiologico crollo del gigante dai guantoni di zucchero, con una doppia sconfitta patita da Paul Pender e l’annesso commiato dal titolo iridato.
Sugar Ray continuò a combattere fino al 1965, trascinandosi ben oltre il limite consentito dal proprio corpo. La vittoria con il futuro campione mondiale Denny Moyer e le sconfitte con Joey Girardello e Joey Archer furono gli ultimi momenti significativi di una carriera che, di significativo, aveva avuto anche troppo.
Fu il Madison Square Garden a riservare l’ultimo saluto al più grande di tutti, con una cerimonia organizzata il 10 dicembre 1965. Robinson durante il definitivo addio al ring venne omaggiato di un enorme trofeo, “Quella sera sono tornato a casa con questo trofeo gigantesco, c’era però un problema. Non mi era rimasto un singolo mobile dove potessi appoggiarlo. Avevo perso tutto”, avrebbe poi svelato in un passaggio della sua autobiografia.
Già, perché degli oltre 4 milioni di dollari incassati grazie ai suoi pugni, Robinson sperperò fino all’ultimo centesimo ancora prima di cominciare la vita fuori dal quadrato. Ma Sugar Ray non sprofondò, si arrangiò con comparsate televisive e cinematografiche, riuscendo anche a fondare la Sugar Ray Robinson Youth Foundation: lascito umanitario alle nuove generazioni di afroamericani.
Presto Robinson cominciò a combattere i primi sintomi dell’Alzheimer, cedendo loro il passo a soli 67 anni. Sugar morì al fianco della sua terza moglie Millie Wiggins, nella casa di Los Angeles dove si era trasferito da un paio di decenni. Fu un giorno di lutto per la boxe e per lo sport tutto, quel 12 aprile 1989, il giorno in cui per l’ultima volta apriva i propri pugni zuccherati il miglior pugile del XX secolo e, probabilmente, di ogni epoca.
Definire unico il lascito di Robinson al mondo pugilistico è assolutamente riduttivo. Da Muhammad Ali a Roberto Durán, da Mike Tyson a, manco a dirlo, Sugar Ray Leonard, ancora oggi non esiste giovane praticante della nobile arte che eviti di attingere dall’infinito campionario stilistico, tecnico e tattico del ballerino di tip tap georgiano.
Un utopico punto di riferimento, una divinità pagana da onorare e ricordare, un campione che, anche all’interno dell’International Boxing Hall of Fame, riesce a brillare più di tutti gli altri mostri sacri della violenza codificata.

Gianmarco Pacione
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https://www.youtube.com/watch?v=ODDdNiUv8ek
25 marzo 2021
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