Sara Gama, il calcio ha trovato me

Rivendicazioni, conquiste, evoluzioni. Intervista alla capitana di Juventus e Nazionale, alla voce di un calcio impegnato, teso verso il futuro
“Il calcio ha trovato me”. È una frase manifesto, quella che Sara Gama ci pronuncia con estrema leggerezza e lucidità. Una frase che racchiude anni di lotte dentro le aree di rigore, di battaglie verbali nelle tortuose torri d’avorio federali e nei complessi organi mediatici nazionali, d’intere stagioni trascorse tra efficaci duelli aerei e lucidi interventi pubblici.
Il calcio ha trovato Sara Gama: difficile pensare che l’abbia fatto involontariamente, difficile pensare che quel primo pallone impattato non volesse riservare alla futura capitana Azzurra un futuro di rivendicazioni, conquiste, evoluzioni.
Un incontro avvenuto ben prima di quello con Paris Saint-Germain, Brescia e Juventus, ben prima di quello con il Presidente Mattarella, l’Associazione Italiana Calciatori e i Mondiali francesi: un’infatuazione coltivata nella città-frontiera Trieste, là dove la bora insegna da secoli a governare sfere e riflessioni.
“Da piccola ho sempre giocato, lo facevo con i miei amici del quartiere. Quel calcio di strada significava gioia, era solo una piccola parte della galassia di giochi che occupava i nostri pomeriggi. Tutto era scoperta, tutto era divertimento, tutto era naturale, come dovrebbe sempre essere. A 7 anni uno di loro mi ha chiesto di provare nella sua squadra e ho iniziato così il mio viaggio calcistico. A casa non si sono posti problemi, hanno subito appoggiato la mia passione senza esaltarla, evitando qualsiasi tipo di pressione, di esasperazione: un tratto familiare interessante, che mi ha segnato indelebilmente a livello caratteriale. Dell’adolescenza ricordo i pomeriggi trascorsi a Barcola, noto punto di ritrovo balneare e calcistico cittadino, a giocare in mezzo ai ragazzi. Eravamo io e un’amica, in pratica due mosche bianche. A 12 anni mi sono unita ad una squadra femminile della Polisportiva San Marco: un’oretta di viaggio per ogni allenamento, il bus, i passaggi dati da un papà-dirigente o dall’allenatore… Facevo sacrifici, ma non li ho mai percepiti come tali, anche quando sono passata al Tavagnacco, squadra di Udine geograficamente più distante. Era il periodo liceale e ricordo che tornando dagli allenamenti serali mi ritrovavo a studiare col lumino in macchina. Se a posteriori dovessi analizzare quegli anni, non potrei che apprezzare la dimensione di un calcio ‘dilettantistico’ nel miglior senso del termine: un calcio supportato unicamente dalla passione della gente”

ph by Andrea Bastoni
Anni formativi da un punto di vista calcistico e umano. Anni che all’acerba Gama hanno permesso di calcare i primi campi della massima serie, di assaporare scarni palcoscenici che avrebbe impreziosito in seguito, con lo scorrere del tempo e delle scelte personali.
Per riuscirci le sarebbe servita un’indomita resilienza, una giustificata fiducia in sé stessa, nel suo vissuto sportivo, un costante desiderio di crescita, non solo come atleta di alto livello. Soprattutto le sarebbe servita la militanza attiva: l’impegnato attivismo di una generazione illuminnata, mossa dalla volontà d’infrangere le sorde, retrograde barriere di un movimento stagnante e destinato allo sgretolamento, alla silenziosa implosione.
“All’interno della mia quotidianità lavorativa, già verso i 20 anni, hanno cominciato ad evidenziarsi cose che non andavano bene. Con le mie esperienze all’estero tra Los Angeles (Pali Blues ndr) e Parigi mi sono resa conto di cosa volesse dire essere realmente professioniste. Durante il processo cognitivo e di confronto con queste realtà, ho aperto gli occhi su cos’avremmo dovuto cambiare in Italia: queste esperienze sportive hanno instillato dentro di me concetti e certezze che prima non avevo, mi hanno insegnato qualcosa di nuovo, sono state altamente formative. Per indole, poi, tendo a dire la mia e ho trovato modo e occasione per riuscire ad esprimere i miei pensieri. Avevo le idee chiare: per me era inaccettabile il trattamento riservato a ragazze che giocavano a calcio a tempo pieno ed erano private di diritti e tutele basilari. In quello stesso momento storico molte compagne e colleghe hanno seguito la corrente della partecipazione attiva, hanno maturato una propria presa di coscienza e tutto questo ci ha condotto a creare un fronte comune, a fare delle conquiste per tutto il movimento. Io credo sia un bene lasciare le cose meglio di come uno le ha trovate: ora non vedo come le nuove generazioni possano tornare indietro ai livelli ‘pre-svolta’, devono trovare il modo corretto per andare avanti e rendersi conto che ci sono nazioni che vivono un calcio d’avanguardia rispetto al nostro. Fino ad ora abbiamo fatto dei passi da gigante, è vero, ma dovrebbe farci riflettere il fatto che negli USA le nostre colleghe stiano già lottando per l’equal pay…”
L’arrivo dei grandi club, la maggiore presenza e incidenza televisiva, l’exploit nella kermesse Mondiale del 2019: tasselli di un intricato e felice mosaico che va componendosi ancora oggi. Ingranaggi oliati dalla commistione d’intenti tra dirigenti dalla mente aperta e calciatrici spinte all’azione: connubio capace di donare al movimento una nuova, progressista, linfa vitale.
Esempio virtuoso di queste dinamiche è la Juventus. Nella società bianconera Sara ha conquistato Scudetti sportivi e molto altro, come una grossa fetta di credibilità per il calcio femminile nostrano. Ci è riuscita affidandosi ad una completa sinergia all’interno e all’esterno dei campi di Vinovo, ad una società che pare fondare la propria visione sul percepito delle attrici protagoniste, appellandosi costantemente alla loro collaborazione propositiva.
“Sono arrivata a Torino dopo alcune stagioni trascorse a Brescia. Prima avevo giocato a Parigi, in un club enorme come il PSG, quindi credevo di avere un’idea chiara di ciò che avrei trovato alla Juventus. In realtà l’emozione è stata completamente diversa, molto più potente: sei a casa tua, sei conscia del fatto che solo qualche anno prima il movimento italiano era sottosviluppato, ed entri a far parte di una società virtuosa che cura ogni dettaglio, che fornisce costantemente visibilità e forza mediatica, che impatta efficacemente sulla gente. Io comunico spessissimo con Direttore e Presidente: analizziamo insieme dove stiamo andando, pensiamo a come migliorare il lato sportivo, ovvio, ma anche all’evoluzione del movimento in senso più ampio. Sposare una linea significa questo, significa giocare in un Allianz Stadium che si riempie di persone, significa trovare voce attraverso una società che ci valorizza”

ph by Andrea Bastoni
La propria voce Sara l’ha trovata con l’istinto, certo, con una naturale predisposizione, ma anche con una minuziosa preparazione personale. Lei, poliglotta prima vicepresidentessa AIC della storia, lei, laureata in Lingue e letterature straniere presso l’Università di Udine, ha difatti voluto dedicare la tesi di laurea al tema dell’evoluzione calcistica femminile in Europa.
“Lo sport mi ha spinto ad ampliare le conoscenze, è diventato un oggetto di riflessione, di studio, un mezzo per scoprire periodi passati e vite da cui trarre ispirazione. Quando ho fatto la tesi non c’erano libri italiani che trattassero questo tema, ora invece le pubblicazioni stanno fiorendo. Mi sono concentrata sulla letteratura francese, inglese e americana. Ho redatto una parte storica, in cui sono partita dalle ‘munitionette’ britanniche della Prima Guerra Mondiale. Poi ho analizzato l’operato di UEFA, FIFA e delle varie istituzioni nazionali. Nel mio elaborato ho provato a cercare delle risposte e delle soluzioni al nostro mancato sviluppo: all’epoca il movimento italiano non si era ancora messo seriamente in movimento. Tra le figure a cui mi sono maggiormente legata durante questa ricerca c’è sicuramente Alice Milliat, pioniera dello sport francese e mondiale”
Si può essere pioniera anche nella società contemporanea, anche nella moderna Italia del pallone. Una condizione complessa, altamente responsabilizzante, sicuramente appagante. Una condizione che Sara Gama vive con la fascia stretta sulla manica Azzurra, con l’orgoglio di chi nella definizione di ‘capitana’ vede un testimone generazionale, un bene prezioso da migliorare e trasmettere.
“È l’onore più grande e, contemporaneamente, la più grande responsabilità. Penso di avere un punto di vista privilegiato, perché ho esordito in Nazionale maggiore nel 2006 e ho avuto l’opportunità di assistere a tutti i cambiamenti connessi ad essa. Adesso è chiaro a tutti gli italiani che abbiamo due Nazionali da supportare. Viviamo con gioia e responsabilità l’amore che nutre la gente per noi e l’impatto che possiamo avere sui nostri connazionali. Siamo diventate degli esempi e, quando diventi consapevole di ciò, tutto assume un valore ancora più enorme”
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