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Rabah Madjer, il ‘Tacco di Allah’

Alla ‘Mano de Dios’ rispose un attaccante algerino, lo fece nella finale di Coppa dei Campioni del 1987

“Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”. Scriveva così Cesare Pavese nei frammenti di vita del proprio diario, schegge emotive pubblicate poi sotto il nome de ‘Il mestiere di vivere’. E come dare torto allo scrittore piemontese. Attimi umani da ricordare, attimi sportivi da vivere e rivivere, come quello che consegnò alla leggenda l’algerino Rabah Madjer.

27 maggio 1987, Praterstadion di Vienna. Il Porto di Artur Jorge sta inseguendo il Bayern Monaco in una finale di Coppa dei Campioni che appare dall’esito scontato. L’ingresso di Juary, funambolico ballerino delle bandierine (passato anche da Avellino e Milano), prova a scombinare i razionali piani dei bavaresi.

Minuto 77, l’agile brasiliano trova un pertugio nell’area piccola, vi si lancia a capofitto e alza un lieve bacio liftato a Madjer. L’algerino, girato di schiena a pochi metri dalla porta, lascia scorrere il pallone e lo colpisce di tacco. È l’1-1. È il ‘Tacco di Allah’.

Proprio Juary, solo 3 minuti dopo, sigla il definitivo 2-1 portoghese, su una pennellata di Madjer stesso. Di quegli epici novanta minuti, però, resta impresso nella memoria collettiva un singolo gesto tecnico: un attimo, per l’appunto, di genio e improvvisazione calcistica.

La stampa dell’epoca non poté che rimettersi alla similitudine religiosa: Maradona, con la ‘Mano de Dios’, aveva agito per conto di Dio, Madjer aveva fatto lo stesso per Allah.

Una soluzione finale tanto estrosa, d’altronde, poteva giungere solo dal figlio prediletto di Algeri. Poteva essere partorita solo dall’intelletto di un ragazzo abbracciato e amato dal talento, un predestinato, allevato dalle sanguinose strade della capitale algerina in piena guerra d’indipendenza.

Era un rigurgito del colonialismo, quello del popolo guidato dal Front de Libération Nationale, un feroce grido di libertà che il piccolo Rabah, nato nel mezzo del conflitto, non poteva capire a fondo.

Discendeva da antenati della Cabilia, i suoi genitori masticavano l’antico dialetto berbero delle montagne del Djurdjura. Terre selvagge, terre affascinanti, terre di conquistatori e conquistati. Madjer dovette scegliere da che parte stare, calcisticamente parlando, quando 25enne sbarcò oltre Mediterraneo per far proprio il calcio francese.

A dire il vero il suo nome aveva già brillato ai Mondiali iberici del 1982, ma la Federazione algerina vietava, senza eccezioni, trasferimenti all’estero prima dei 25 anni d’età. Arrivò nella seconda serie francese e poco cambiò nella sua routine. Madjer al Racing Club di Parigi continuò a parlare due lingue differenti: il francese per comunicare, la sensibilità dei suoi piedi per dominare.

20 gol in 27 reti e la promozione in Ligue 1, un breve passaggio al Tours, poi la migrazione in Portogallo. A Oporto, nella seconda metà degli anni ’80, l’attaccante algerino fu emblema di arte calcistica.

Di Madjer colpivano le accelerate, le finte cadenzate, il capello che con lo scorrere degli anni diventava sempre più fluente e ribelle. Pareva un messaggero venuto dall’Africa settentrionale per professare un calcio stiloso e belluino, contemporaneamente barbaro e raffinato.

Affacciato sull’Atlantico vinse tutto, anche una Supercoppa UEFA e una romantica Coppa Intercontinentale, contesa sotto una fitta neve al Peñarol.

L’Inter di Ernesto Pellegrini lo sedusse e lo abbandonò in poche adrenaliniche settimane di calciomercato. A Milano Madjer venne presentato ufficialmente, salvo poi vedersi rispedito al mittente per un controverso guaio fisico al bicipite femorale sinistro. Malelingue ipotizzarono un ripensamento in corsa dei nerazzurri, estremamente provati a livello finanziario da una dispendiosa sessione estiva. A distanza di anni l’attaccante stesso avrebbe ammesso l’effettiva criticità fisica.

Madjer, profondamente indispettito e offeso, tornò nella città degli ‘Os Dragões’, vincendo altre coppe e campionati nazionali.

Con la sua Algeria, dov’era ritenuto messo divino, arrivò sul tetto d’Africa nel 1990. In patria, ‘Le Magicien’ venne trattato come un eroe antico.

Proprio per questo motivo, tra il ritiro nel 1992 e il giorno d’oggi, Madjer è stato invitato a sedersi sulla panchina della nazionale dei ‘Guerrieri del Deserto’ per ben quattro finestre temporali differenti, senza mai però ottenere grandi risultati.

L’attimo del Praterstadion negli ultimi trent’anni si è forse scolorito in sbiaditi video di YouTube, ma non nelle strade di Algeri e dintorni. Ancora oggi in Algeria ogni colpo di tacco nei pressi della porta, che sia effettuato da un ragazzino in un campetto di provincia o nel bollente derby della capitale, viene chiamato semplicemente ‘Madjer’.

Un attimo ripetuto e ricordato: colpo di genio dopo colpo di genio, ‘Madjer’ dopo ‘Madjer’.

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