Puma Suede, l’arte di resistere al tempo

Dal 1968 al 2020, da Tommie Smith e John Carlos a ‘Clyde’ Frazier e i B-Boys. Storia di una scarpa di culto
Esistono oggetti quasi esautorati del proprio valore pratico e originale: involontari manifesti di periodi storici, movimenti sociali, istanti sportivi.
Esistono le Puma Suede, scarpe di culto che di queste dinamiche sono perfetta incarnazione; scarpe che, negli oltre 50 anni di vita, hanno assaporato leggendari podi olimpici, colorati parquet NBA e lingue d’asfalto scandite da giovani B-Boys.
“Le cose non sono importanti per quello che sono”, sottolineava Indro Montanelli, “Ma per quello che uno ci mette”. E nelle Puma Suede le persone e la storia hanno più o meno consapevolmente messo tanto, tantissimo, a partire dal lontano 1968.

SMITH E CARLOS, L’URLO NERO DI CITTÀ DEL MESSICO
Era destino che le Suede non fossero scarpe comuni, era destino che la loro genesi coincidesse proprio con le Olimpiadi messicane, evento sportivo che più di tutti riuscì ad intrecciarsi con il flusso del mondo esterno.
Quelli ‘tricolor’ furono i Giochi dei grandi movimenti socio-politici, dell’aria rarefatta per l’altitudine, del salto dorsale di Dick Fosbury e, soprattutto, dei pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos.
“Ho indossato il guanto nero sulla mano destra e Carlos quello sinistro dello stesso paio. Il mio pugno alzato voleva significare il potere dell’America nera. Quello di Carlos l’unità dell’America nera. Insieme abbiamo formato un arco di unità e forza”, avrebbe commentato Tommie Smith, ricordando la silenziosa protesta che scioccò l’establishment americano e internazionale.
Accadde tutto in pochi, intensi, istanti. I due purosangue, oro e bronzo sui 200 metri (intervallati dall’inspiegabile exploit del bianco australiano Peter Norman), architettarono l’iconico gesto nel cuore di un ignaro Estadio Olimpico Universitario.
Il ‘Jet’ texano Smith, nuovo recordman mondiale, guidò il terzetto sfilando le Puma Suede dai suoi piedi e prendendole in mano, lo stesso fece Carlos alle sue spalle, calpestando tartan e erba con le sole calze nere: simbolo della povertà afroamericana.
Le due frecce USA salirono sul podio, prima alzarono le scarpe al cielo, poi le appoggiarono al proprio fianco, mostrando la spilla dell’Olympic Project for Human appuntata sul petto (spilla che indossò temerariamente anche Norman). Al primo rintocco dell’inno statunitense, si chinarono le teste di entrambi e, contestualmente, si alzarono i loro pugni stretti nei guanti neri.
Furono attimi iconici, furono attimi di sensibilizzazione civile, di presa di coscienza da parte del vasto pubblico televisivo, di conferma che il cosiddetto progresso razziale rappresentasse, in realtà, solo una flebile utopia: un fuoco fatuo, soffocato dal persistente razzismo istituzionalizzato e dalle tragiche condizioni che attanagliavano la minoranza nera statunitense.
Smith e Carlos racchiusero tutti gli ideali del Black Power in una posa plastica, affidandosi al potere simbolico di pochi oggetti. Schegge visive di cui fecero parte anche le Puma Suede, diventando parte di un ritratto destinato all’eternità.

‘CLYDE’ FRAZIER E LA NASCITA DELLE SNEAKERS
Prima delle moderne opere d’arte ai piedi, prima delle sponsorizzazioni faraoniche e della corsa al futuro talento da sponsorizzare.
Prima, alla fonte di tutto questo, fu Walt Frazier a infrangere il muro di serialità stilistica da parquet, ci riuscì in compagnia delle Puma Suede.
“È stato un grande viaggio all’interno del mio ego. Ero l’unico giocatore di qualsiasi sport professionistico ad avere una scarpa chiamata con il proprio nome. All’inizio dissi a Puma che non avrei mai indossato le scarpe che mi stava proponendo, neanche se mi avesse pagato”, ricorda ancora oggi la leggendaria point guard campione NBA nel 1970 e 1973 con i New York Knicks.
L’Hall of Famer fu il primo a consigliare direttamente un brand, a suggerire una scarpa che fosse più flessibile, più leggera rispetto ai modelli classici che a lungo avevano monopolizzato il mercato a spicchi. Poco dopo cominciò ad indossare le Suede griffate ‘Clyde’.
Il connubio tra il marchio del felino nero e Frazier abbagliò immediatamente il grande pubblico americano.
Il fascino del 10 dei Knicks, chiamato ‘Clyde’ per l’insolita usanza d’indossare copricapi di feltro come il noto criminale Clyde Barrow (interpretato sul grande schermo da Warren Beatty), aumentò esponenzialmente l’attenzione delle masse sulle Suede.
“Rispetto alle previsioni vendemmo talmente tante scarpe tra New York, il New Jersey e il Connecticut, da non avere bisogno di venderle nel resto degli Stati Uniti…”. Le ‘Clyde’ divennero il sogno proibito di milioni di ragazzini statunitensi, una sorta di prodotto magico.
Agli adolescenti di quei primi anni ’70 bastarono 25 dollari per sentirsi come Walt Frazier, il metronomo più stiloso della Lega dei sogni: l’uomo che sopra il parquet vestiva Puma e fuori s’infagottava in lussuose pellicce, guidando Rolls-Royce.
Le Suede si propagarono nelle strade americane, un’epidemia che vide gomma e velluto popolare scuole, playground, marciapiedi.




B-BOYS E B-GIRLS, L’ASFALTO RITMATO
Proprio nel 1973 Kool Herc diede il là, con le sue invenzioni musicali, al movimento underground dei B-Boys newyorchesi. Una cultura cresciuta rapidamente nelle bollenti strade della Grande Mela nera, una cultura che trovò nelle Puma Suede il perfetto segno distintivo.
Dal Madison Square Garden al Bronx. Le danze influenzate da ginnastica, James Brown e film di kung-fu, inondarono gli angoli delle Avenues, fungendo da pacifici contraltari alle violente faide tra gang.
La break divenne un rituale liturgico da rispettare quotidianamente, dando il là ad un’era egemonizzata da hip hop, Block parties e paralleli fenomeni sociali, come il writing, che ebbero presto respiro internazionale.
In questo vortice di ferventi innovazioni generazionali, le Puma Suede, già presenti ai piedi di tanti ragazzi dei quartieri popolari newyorchesi, trovarono un’ulteriore investitura.
Per la totalità dei B-Boys divenne quasi un obbligo indossare le Suede (spesso accompagnate da lacci larghi), una scelta condivisa, tra i tantissimi, anche dai New York City Breakers e dalla Rock Steady Crew, gruppi che aumentarono drasticamente la popolarità del movimento.
Un scelta, in realtà, dalla doppia valenza: da una parte la conferma dello status quo del singolo B-Boy, dall’altra la possibilità di affrontare una danza altamente atletica, spettacolare e provante fisicamente, usando delle scarpe performanti, che a distanza di qualche anno sarebbero entrate, non a caso, anche nel mondo dello skating.




LA LEGACY DI UNA SCARPA, LA LEGGENDA NEL PRESENTE
Legacy, la chiamano oltreoceano. Un continuum che vede ancora oggi la Suede abbracciare il panorama urban internazionale. Marea dopo marea, instancabile in tutta la sua semplice, quanto evocativa, classicità, l’aura della Suede non ha ancora smesso di pulsare. Puma non ha mai abbandonato quella che, a tutti gli effetti, risulta essere il suo più grande capolavoro stilistico-comunicativo.
Non è un caso se per il grande ritorno nel mondo della pallacanestro, il brand tedesco abbia scelto la ‘Clyde’ come punto di riferimento; non è un caso se, a distanza di 50 anni, sia stato celebrato Tommie Smith proprio con un’edizione limitata della scarpa che lo accompagnò sul podio messicano; non è un caso se l’appeal di quest’oggetto mistico stuzzichi costantemente nuove collezioni, nuove contaminazioni, la sensibilità di nuovi sportivi e artisti.
Perché la leggenda, solo rarissime volte, può essere scritta anche da un qualcosa d’inanimato, da un qualcosa in cui, citando Montanelli, è stato messo tanto, tantissimo. E quel tantissimo in questo caso è destinato a rimanere tale, così come tale resterà la leggenda nel presente e nel futuro delle Puma Suede.



Redazione
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18 novembre 2020
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