Principianti. Fino all’ultima campana

Un tuffo nelle arti marziali miste finlandesi attraverso le parole e le immagini di Timur Yilmaz
Le cerimonie del peso iniziano alle otto del mattino. Gli incontri si svolgono ai margini della città, in vecchie palestre di boxe. La gabbia aspetta silenziosa in un angolo.


Questi fighter combattono a livello amatoriale, pagano di tasca propria la quota di ammissione ad ogni evento. Concluso il peso, il proprietario della palestra informa che la sauna si sta riscaldando: lì entreranno i combattenti che non hanno rispettato i limiti imposti. Alcuni iniziano con ansia a boxare da soli e a correre brevi sprint, infagottati nei loro vestiti. Coloro che non ne hanno bisogno appaiono rilassati, ma paralizzati da una strana introversione: non conoscono gli altri lottatori, o almeno si comportano in quel modo. L’aria rapidamente diventa tesa e muta, ma non calma.


Tutte le palestre che ho visitato avevano una sorta di altare, un reliquiario composto da vecchi trofei e articoli di giornale su combattenti locali capaci di sfonare e avere successo. Alcuni di questi altari profani sono in posizione più prominente, altri più appartati.
D’un tratto mi sento indesiderato, i proprietari e gli istruttori che prima sembravano cordiali e accoglienti, davanti all’avanzare della giornata diventano tesi. Non li biasimo. Avevo semplicemente richiesto di documentare l’evento, non lavoro per un giornale, né sono in qualche modo coinvolto nei circoli di MMA. Per loro sono un estraneo, un volto esterno che si intromette educatamente in un terreno non suo. Mentre il sole continua a sorgere, sempre più persone continuano ad apparire.

Il suono del primo combattimento è assordante. Alcuni fighters colpiscono la porta della gabbia con i pugni, ululando prima di entrare. Altri fanno il loro ingresso silenziosamente. L’incontro inizia sempre con una strana attesa. Tutto va avanti al rallentatore e poi, all’improvviso, ecco succedere qualcosa: alcuni fendenti, il ruggito del pubblico e, prima che io possa comprendere, la lotta viene portata a terra.
Tre round da cinque minuti sono tutto ciò che questi fighter hanno, la maggior parte di essi finisce prima del limite. Tra un round e l’altro, mentre gli allenatori asciugano il sudore e il sangue, gli occhi di questi gladiatori moderni vagano senza obiettivo per la stanza. Molti di loro sono qui per la prima volta, mi domanda cosa stiano vivendo lì dentro.

I suoni iniziano a calmarsi, lo stesso pare fare la tensione del mattino. I lottatori che hanno già finito, terminano la giornata in differenti stati di forma: alcuni sono loquaci ed energici, altri molto più tranquilli. La maggior parte di loro sembra sollevata, nel bene e nel male.
Uno dei fighters, così esausto da riuscire a malapena a raggiungere l’ultimo round, giace a terra, a pochi metri dalla gabbia, con un asciugamano sopra la testa. Non si può vedere la sua espressione, ma il suo respiro affannoso è mostrato dal saliscendi del petto.

Il consiglio degli allenatori sembra sempre destinato ad orecchie sorde, a occhi vaganti nel vuoto. Quando prendono forma i match, le loro indicazioni continuano: possono gridare a pieni polmoni, ma non possono fare compagnia al loro assistito, solo dentro la gabbia. Questi ragazzi pagano i soldi da soli e, da soli, vincono o perdono.
Le uniche volte in cui c’è uno sguardo di delusione negli occhi del perdente è dopo un incontro dalla brevissima durata. I volti dopo una lotta che va avanti per tutti e tre i round, sia per il vincitore che per il perdente, sembrano estasiati. Come se non avesse davvero importanza l’esito dello scontro, come se avesse importanza solo arrivare al suono dell’ultima campana insieme.

9 febbraio, 2021
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