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Pete Sampras, un profeta a Flushing Meadows

Ogni mito sportivo ha un inizio e una fine. Per Pete Sampras coincidono con i leggendari campi di Flushing Meadows

Prima che Wimbledon fosse il suo giardino, Flushing Meadows divenne il cortile di casa Sampras. L’avrebbero chiamato “Pistol Pete”, perché il suo servizio era un proiettile che viaggiava al di sopra dei 200 chilometri all’ora. Lo stesso soprannome di un fuoriclasse del basket NBA, Pete Maravich, tiratore micidiale con gli Atlanta Hawks e con i Jazz a New Orleans e nello Utah, a Salt Lake City, quando la franchigia traslocò. Maravich, con le squadre in cui giocò, non vinse nulla, ma fu il simbolo di un talento sconfinato. Sampras, nel tennis, ha mostrato quanto grande possa essere la bellezza. In più, di titoli ne ha conquistati una caterva. Soprattutto, ha fatto collezione di tornei del Grande Slam. Il primo, nel 1990, fu l’US Open.

Il suo arrivo sulla scena segnò l’apertura del ricambio generazionale tra i campioni che c’erano stati e quelli che ne avrebbero preso il posto. Ivan Lendl non dominava più come prima, Boris Becker e Stefan Edberg erano vincenti, sì, ma non esercitavano un comando costante sul tennis mondiale. John McEnroe era una stella che apparteneva al passato, Jimmy Connors apparteneva a un’epoca già lontanissima. I nuovi leoni si prendevano il campo. A renderne emblematico il vigore era stato, per primo, Andre Agassi. Tanto pittoresco, guascone ed estroso era lui, con quel ciuffo di capelli biondi, così Sampras rappresentava una visione più classica del tennis. Non per caso il suo idolo d’infanzia era stato Rod Laver, epitome della purezza del gioco. Quando, il 10 settembre 1990, Agassi e Sampras raggiunsero la finale di Flushing Meadows, si capì che un punto di svolta era stato segnato. Agassi aveva appena una vittoria all’attivo in un torneo ATP, sebbene avesse disputato, perdendola con l’ecuadoregno Andrés Gomez, la finale del Roland Garros, pochi mesi prima. Sampras, invece, aveva trionfato all’US Pro Indoor di Philadelphia, mentre negli Slam si era fermato, al più, al terzo turno di Wimbledon. Quel giorno di ventinove anni fa, Pete, prossimo a essere “Pistol”, annientò Agassi, battendolo in tre set, per 6-4, 6-3, 6-2. Un monologo che durò appena un’ora e 42 minuti. Fu chiaro a tutti che quella vittoria non sarebbe stata un’estemporanea manifestazione di forza: alla fine del 1990, Sampras era quinto nella classifica ATP, pronto a prendersi la corona di re del tennis.

Boris Becker l’ha scritto con nettezza, nella sua autobiografia “Boris Becker e Wimbledon”: “Il migliore contro cui abbia mai giocato è stato Pete Sampras. Certamente ha sempre sfoderato il suo miglior servizio ed è stato, senza eccezione, il più bravo giocatore in assoluto. Nonostante il suo punto debole, il rovescio, era abbastanza solido da poter sostenere il resto dei colpi e i suoi movimenti sul campo erano così buoni da risultare difficile per l’avversario colpirlo proprio sul rovescio”. Tutto era cominciato a New York, da Flushing. Da Potomac, la città del Maryland in cui era nato, Pete, di limpidissime origini greche, si era trasferito in California. Nella West Coast aveva imparato l’arte del tennis, sulla East si era preso la fama. I campi in sintetico dell’USTA, la United States Tennis Association, sarebbero stati il suo parco giochi preferito, finché non scoprì che c’era un posto persino migliore per vincere: l’All England Club di Wimbledon. In Inghilterra, Sampras vinse sette volte, la prima nel 1993, l’ultima nel 2000. A Flushing Meadows, cinque. Il suo stile improntato alla velocità e alla potenza, il suo serve and volley finissimo e devastante, non si sposarono mai con la superficie lenta del French Open. A Parigi, il massimo risultato che colse fu una semifinale, nel 1996. Il resto, fu un inno solenne, contrappuntato da due affermazioni all’Australian Open e da due Coppe Davis vinte con gli Stati Uniti. Ma era stata New York la Betlemme della sua grandezza.

Su di lui, Becker ha aggiunto: “La gente mi chiede se Federer avrebbe battuto Sampras. Hanno giocato solo una volta e, proprio quella volta, Federer ha vinto, ma per Sampras era già passato il suo periodo d’oro. Bisogna ricordare che il tennis inizia con l’unico colpo che non dipende dal tuo avversario, il servizio, e credo che Pete Sampras abbia avuto – e messo a segno – il miglior servizio della storia”. Se il principio d’autorità vale ancora qualcosa, in questi tempi in cui spesso a muovere le opinioni è la dittatura vacua dei social network, quanto sostenuto da Becker è un riconoscimento che va al di fuori e al di sopra dei numeri e delle statistiche. Quelle, si possono leggere sugli annuari, e vanno ricordate: per sei anni di fila, dal 1993 al 1998, Sampras ha chiuso da numero 1 mondiale. Per 286 settimane consecutive è stato in testa al ranking ATP, un record che ha migliorato Roger Federer, nel 2012. Sempre Federer è, con Rafa Nadal (primo in assoluto) l’unico a precedere Pete per il totale di tornei del Grande Slam vinti. Per undici anni di fila ha disputato almeno una finale dello Slam: nessuno ha fatto più di lui, soltanto Lendl aveva saputo essere allo stesso livello. Di quelle finali, sulle diciotto affrontate in totale, ne ha perse solamente quattro. Ironia del destino, tre di queste a Flushing Meadows (e una a Melbourne). Nel 1992 lo sconfisse Edberg, nel 2000 e nel 2001 cedette a Marat Safin e a Lleyton Hewitt. La nuova ondata si era presentata in forze, i Big Three del futuro – Federer, Nadal e Novak Djokovic – stavano per entrare sul palco. Prima, però, “Pistol Pete” avrebbe concesso un’ultima, grande recita. Sempre a Flushing, nel 2002. Tra quarti e semifinali, non concesse nemmeno un set ad Andy Roddick e a Sjeng Schalken. Fu ancora finale, ancora con Agassi. Dodici anni dopo. Andre non sfoggiava più la folta chioma bionda del 1990, i capelli avevano lasciato spazio alla calvizie. Pete pareva aver fermato il tempo. Fu così anche in campo. Rispetto a quella prima volta all’US Open, per vincere impiegò un set in più: vinse i primi due per 6-3, 6-4, cedette il terzo per 7-5. Il quarto, se lo aggiudicò per 7-5. Ovazione. Quello era rimasto il suo cortile. A New York, dove tutto aveva avuto inizio.

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