Pelé, il Re del calcio

Compie 80 anni il brasiliano che diede un nuovo significato al pallone, O Rei, il 10 che chiamarono Dio
Diceva Jorge Amado che, qualora il calcio non si fosse chiamato così, avrebbe avuto il nome di Pelé. Difficile definire in modo diverso O Rei, l’uomo che divenne Dio con il pallone tra i piedi. Rino Marchesi lo accostò a Mozart, Nereo Rocco obiettò al mondo che un uomo non potesse agire come quel 10 brasiliano su un campo di calcio, Dirceu sostenne che nel corpo di quel fuoriclasse sorridente fossero presenti dei fluidi magici.
Arte, cultura, incantesimo, Pelé lungo la sua ventennale carriera fu tutto questo, fu, soprattutto, l’essere umano più vicino alla perfezione calcistica. Un patrimonio di cui, ancora oggi allo scoccare del suo 80esimo compleanno, può fregiarsi l’intero mondo.

EDSON, L’INVENTORE CHE CHIAMARONO PELÉ
All’anagrafe di Três Corações ballò una ‘i’, quel 23 ottobre 1940. Dondinho, noto attaccante della Fluminense, decise di onorare il grande Thomas Edison chiamando il suo secondogenito proprio come l’inventore americano. L’unico accorgimento, per brasilianizzare le generalità del pargolo, fu quello di togliere la lettera i. Il funzionario statale, forse per noncuranza, forse per uno strano scherzo del destino, non accolse la richiesta.
Edison Arantes do Nascimento nacque nel nel nome della creazione, dell’inventiva, nacque con l’irrazionale consapevolezza di poter essere un visionario, di poter cambiare la vita di milioni di persone, di poterle illuminare, proprio come aveva fatto l’omonimo genio dell’Ohio.
Edson non crebbe in una famiglia agiata, suo padre si trovò presto vittima di un grave infortunio al ginocchio e dovette abbandonare i campi Carioca. Lustrò scarpe, il bambino destinato a diventare Re, calciò per anni calzini, frutti di mango e stracci riempiti di carta nelle polverose strade di Bauru.
Fu un errore di pronuncia, un’altra sbavatura lessicale, a dare il là al termine Pelé: soprannome che presto sarebbe divenuto sinonimo di perfezione. A scuola Edson non riusciva a pronunciare Bilé, il nome di un portiere brasiliano, scivolando spesso su Pilé: un suo compagno, nel pieno della fantasia adolescenziale, collegò quell’errore alla parola Pelé, cominciando a chiamarlo così.

IL PATRIMONIO CULTURALE DI SANTOS E BRASILE
Arrivò al Santos nel 1956, spinto dal santone di provincia Waldemar de Brito. L’osservatore lo presentò ai Santistas semplicemente come il più forte al mondo, il suo occhio non sbagliò. Nei ‘Peixes’, Pelé debuttò ad appena 16 anni, diventando capocannoniere del campionato Paulista già l’anno seguente.
Bruciò le tappe, Edson, bagnando con una realizzazione il suo esordio in Nazionale, avvenuto appena dieci mesi dopo la prima firma di un contratto professionistico. Bianconero e verdeoro lo accompagnarono praticamente per tutta la carriera: una fedeltà di sangue, una scelta obbligata, soprattutto alla luce del fatto che, dopo le prime stagioni trascorse a far sognare un intero popolo, Pelé venne dichiarato patrimonio nazionale.
Scriveva a riguardo Gianni Mura: “Pelé sarebbe certamente venuto a giocare per una squadra italiana (Juve, Milan o Inter, di qui non si scappa) se il governo brasiliano non l’avesse definito patrimonio nazionale vietandone l’esportazione. Lui non aveva ancora 20 anni”
Tra ’58 e ’70 vinse tre Mondiali, ancora oggi resta l’unico calciatore al mondo ad esserci riuscito. In Svezia si presentò come più giovane del torneo e divenne il più giovane marcatore nella storia della competizione. A poco più di 17 anni d’età segnò 6 gol in 4 partite, celebrando la sua prima finale con una doppietta siglata contro gli inermi padroni di casa.
L’apice del calcio espresso in maglia Seleçao arrivò a Messico ’70, nell’ultima edizione mondiale disputata da un’ormai 30enne Pelé. Fu un’orchestra magnifica, quella diretta da Zagallo: Garrincha, Nilton Santos, Djalma Santos, Gilmar, un insieme di artisti del pallone votati alla vittoria, una comune del futebol di cui Pelé fu scintillante direttore e mai ingombrante prima voce.
“Prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo”, disse Tarcisio Burgnich dopo la finale di Città del Messico persa per 4-1 dagli Azzurri. Sui campi centramericani Pelé dimostrò ancora una volta di essere una visione celestiale, una sensazione, una divinità calata sulla terra con il solo obiettivo di spargere il verbo calcistico.
Oltre al verbo, Pelé seminò reti in ogni latitudine del globo: 571 reti in 586 gare ufficiali con il Santos, 77 in 92 partite con la Nazionale brasiliana. Aggiungendo quelle segnate a livello giovanile o in gare non ritenute ufficiali, si arriva alla cifra accreditata dalla FIFA di 1281 reti gonfiate in 1363 partite.
Una macchina completa e perfetta per l’area di rigore, un uomo speciale, che per Jorge Valdano “si muoveva a tempo con un ritmo atavico e negro, che si adattava armoniosamente al movimento capriccioso della sfera. Le sue qualità muscolari gli permettevano di compiere qualsiasi prodezza; non sapremo mai, per esempio, se Pelé saliva dalla terra o scendeva dal cielo per colpire il pallone in piena fronte con il portiere come vittima e la rete come destinazione finale. Un’altra possibilità era che addomesticasse il pallone con il petto, atterrasse con i piedi a terra, e solo dopo aver atteso un paio di secondi, scegliesse un angolo dove segnare il gol. Sappiamo, questo sì, che il pallone era dalla sua parte, che esisteva un patto di mutua lealtà, di obbedienza”.

L’AVVENTURA STATUNITENSE
Decise di concludere la carriera lasciando il Sudamerica e salpando verso il Nord. A New York si unì al febbricitante movimento culturale degli anni ’70, regalando ai Cosmos e alla Grande Mela un’icona da venerare. Cominciò proprio dalla sgangherata NASL la sua opera di ambasciatore del calcio, obbligando, con la sola presenza, i neofiti statunitensi a riempire gli stadi.
Fuori dal campo si legò ad Andy Warhol prima, ad Hollywood poi, vedendosi co-protagonista di “Fuga per la vittoria”, film a tema storico-calcistico a cui presero parte, tra gli altri, Michael Caine e Sylvester Stallone.
Il primo ottobre 1977 i giornali brasiliani titolarono “Anche il cielo stava piangendo”, davanti al ritiro ufficiale dal calcio giocato della ‘Perla Nera’. Furono i commossi titoli di coda alla carriera sportiva del Re del calcio. Un addio che venne organizzato al Giants Stadium di New York, davanti a spettatori d’eccezione come Muhammad Ali e Bobby Moore.
‘O Rei’ giocò il primo tempo in maglia Cosmos e il secondo in maglia Santos, unendo capitolo finale e genesi del suo ineguagliabile romanzo calcistico. Durante la prima frazione segnò l’ultimo gol della sua esistenza futbolistica, con una punizione calciata dai 30 metri.
Nel bel mezzo della ripresa, una suggestiva pioggia torrenziale cominciò a bagnare la folla giunta ad omaggiare il mito brasiliano. Fu un segno divino, un commosso saluto naturale all’unico O Rei.

UNA GRANDEZZA SENZA TEMPO
“Come si scrive Pelé? Dio”, citava una nota formula inventata dai tabloid inglesi. Dio, sia in campo che fuori, perché il nome di Pelé lungo la ventennale esperienza calcistica impattò su tutto il panorama mondiale.
Ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni dalla sua ultima partita, non c’è latitudine del globo in cui il suo nome non venga immediatamente riconosciuto: “Come Gesù Cristo, forse di più”, ha ammesso scherzando, ma nemmeno troppo, lo stesso Edson.
Proprio come un dio, Pelé riuscì a fermare guerre civili, esempio ne fu la Nigeria, dove una sua partita diede il là a un cessate il fuoco di 48 ore nel bel mezzo della Guerra del Biafra; proprio come un dio, Pelé riuscì e riesce tuttora a farsi attendere da capi di Stato, Papi, principi e re, emozionati alla sola idea di poter scattare una foto con l’O Rei do Futebol.
Negli anni ha avuto tempo di essere ambasciatore delle Nazioni Unite, Goodwill Ambassador per l’UNESCO, presidente straordinario per lo sport brasiliano sotto il governo Cardoso e attivista contro l’uso di sostanze stupefacenti: una battaglia, quest’ultima, iniziata dopo la rovinosa caduta del figlio Edinho, coinvolto in uno scabroso caso di traffico di droga. Era portiere, Edinho, così come calciatore è anche Joshua Nascimento, un destino comune a tutti i figli del grande Edson, un destino gramo, che mai li ha visti e li vedrà splendere di luce propria.
IN QUALE D10 CREDERE?
Entrare nell’annosa querelle tra numeri 10 è ormai un cliché che pare obbligatorio rispettare. Diego Armando Maradona o Pelé, Pelé o Diego Armando Maradona. Un gioco delle parti destinato a colorare ancora a lungo i bar e i social di tutto il mondo, un gioco delle parti di cui noi facciamo volentieri a meno, a maggior ragione in concomitanza con un anniversario come quello odierno.
Limitiamoci quindi a celebrare l’ottantesimo compleanno del Re, del Mozart del calcio, del, come disse José Altafini, fenomeno baciato da Dio. Auguri Edson.

Redazione
Sources & Credits
Photos sources: https://www.reddit.com/r/ColorizedHistory/comments/28d9fx/edson_arantes_do_nascimento_soccer_legend_pelé/; https://www.pinterest.com/pin/241083386276365138/; https://apnews.com/article/virus-outbreak-brazil-international-soccer-soccer-world-cup-d92f4ddc13f36a89582ee1b069aac7ef; https://thesefootballtimes.co/2017/10/22/pele-national-treasure-brazil-santos/; https://www.besoccer.com/new/why-pele-s-1-000th-goal-still-matters-747347; https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DioA0DwrriWM&psig=AOvVaw2-G30tpxNck4vITmkZQtxb&ust=1603498369744000&source=images&cd=vfe&ved=0CAIQjRxqFwoTCKC_s4q3yewCFQAAAAAdAAAAABA_
23 ottobre 2020
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