Ottavio Bottecchia, di ciclismo e morte, di nulla e tutto

Il muratore veneto che, correndo per ‘schei’, si ritrovò a conquistare Tour de France e leggenda, per poi morire misteriosamente
“Prima di diventare un astro del ciclismo, Bottecchia era nulla. Chi dice che faceva il carrettiere, chi afferma facesse il muratore. Era, questo è certo, un uomo di campagna, un uomo di fatica, uno di quelli che hanno la vita grama, la vita dura. Era il tipo perfetto del nostro manovale o bracciante rurale. Carrettiere o muratore. Il suo destino era non diciamo il lavoro, ché tutti si lavora, ma la fatica”

IL NULLA CHE SI VESTÍ DI GIALLO
Era stato nulla, Ottavio Bottecchia. Scriveva così La Stampa il giorno dopo la sua prematura morte. Era stato nulla, un nulla colmo di sacrifici, di silenzioso e logorante lavoro, di orgogliosa e taciturna povertà. Era stato nulla nel nulla, allevato dagli stenti dell’anonima Marca Trevigiana dei primi del Novecento, segnato dai gas tossici e dall’insensibile endemia della Grande Guerra.
Parlava solo il veneto, Ottavio Bottecchia, con quel nome e quel cognome, misto di aristocrazia e volgo. Era stato chiamato così perché ottavo figlio di un ortolano. Proprio su quell’antitetico accostamento ragionò la penna di Bruno Roghi: “Il nome era pomposo come quello di un imperatore romano, ma il cognome rovinava tutto. Come si fa a scalare l’Olimpo e a chiamarsi Bottecchia?”.
Parlava solo in dialetto stretto, Ottavio Bottecchia, perché nella spoglia casa di San Martino di Colle Umberto non si poteva pensare alla lingua italiana. Le necessità erano altre. ‘Magnar’, a quello si pensava, a quel termine che avrebbe ripetuto allo sfinimento anche dopo la gloria, anche dopo i faraonici contratti firmati Oltralpe, anche dopo Tour e maglie Gialle. ‘Magnar’, un verbo carico di utopia e disillusione, di assenza e ossa sporgenti.
Tra le anonime rive del Meschio e le ingannevoli Prealpi Bellunesi aveva imparato il mestiere del sopravvivente, aveva imparato a far legna e trascinarla su pesanti carretti, ad immergere le flebili mani nella malta. “Il ciclismo è uno splendido mestiere, fra l’altro assai facile”, avrebbe detto a distanza di qualche anno, “Ho fatto il boscaiolo a dieci gradi sottozero, è molto più difficile che scalare il Tourmalet o il Galibier insieme”.
Venne chiamato alle armi non ancora ventenne, smistato sul Carso insieme a migliaia d’inermi coetanei. Il fato lo volle premiare, inserendolo all’interno del 6º reggimento bersaglieri, esploratori d’assalto, reparto ciclisti. A bordo della sua bici sfuggì per tre volte alla prigionia austriaca e guadagnò una Medaglia al Valore, non riuscì a sfuggire alla malaria, che miracolosamente gli risparmiò la vita.
Quelle pedalate, misto di trincee e diclorodietilsolfuro, funsero contemporaneamente da allenamento e prodromo della Grand Boucle. Sulle aspre strade militari, difatti, presero inconsciamente forma i tratti morfolofigici che avrebbero segnato i rapidi, monumentali successi sportivi del muratore veneto.



LA VIA CRUCIS CHIAMATA GRAND BOUCLE
“Maschera di fango secco e screpolato, ciglia bianche, labbra grigie, mani nere, polpacci scorticati, caviglie di cervo dai tendini scoperti”. Appariva così lo sconosciuto ‘Botesciá’ agli occhi del popolo francese. Era il 1923, erano trascorsi pochi anni e tante forature dall’incubo bellico. Bottecchia si ritrovava, quasi ventinovenne e quasi per caso, a correre il suo primo Tour de France.
Era stato segnalato dal giornalista-scout Aldo Borella alla corazzata Automotó: scuderia transalpina formata da soli cavalli da razza, su tutti i fratelli Francis ed Hénri Péllissier. Nonostante l’ottimo risultato conseguito nel precedente Giro d’Italia, dov’era arrivato primo tra i cosiddetti isolati, i senza squadra, era stato accolto con estrema diffidenza dal patron Monsieur Pierrand. Bottecchia non convinceva per la presenza scenica, per la poca predisposizione al dialogo, per il “vago odore di formaggio caprino” descritto da cronisti d’epoca.
Emaciato, con le spalle appuntite e lo sguardo tipico di chi preferiva la solitudine operosa alla fama inconsistente, aveva accettato il ruolo del gregario, svestendone presto i panni. Route dopo route conquistò la maglia Gialla, primo italiano della storia a riuscirci, e la mantenne per sei tappe, per poi concedere il primato al maggiore dei Pellissier, Hénri.
Quella via crucis ideata dal tiranno Henri Desgrange, 5386 chilometri suddivisi in 15 tappe di epopea e polvere, scatenò l’interesse collettivo nei confronti dell’inatteso eroe Bottecchia. Un eroe da chanson de geste, come lo definì Gianni Mura, capace di sprigionare intuito ed eleganza ad ogni salita, capace di conquistare nuvole e vette seguendo il fiuto del proprio naso aquilino.
Scrissero di lui in patria: “In questo atleta di popolo c’è una finezza di garbo che piace e che compie il suo ritratto di popolano poderoso instancabile, fattivo e di poche parole, incapace di esprimersi, ma tutt’altro che incapace di pensare e di volere, di organizzarsi silenziosamente e di riuscire. Quando sarà tornato in Italia e farà la sua apparizione sulle nostre piste, osservategli la caviglia, è di una meravigliosa finezza, quella stessa finezza non altrettanto visibile, ma altrettanto reale e naturalmente più profonda, Bottecchia l’ha sotto lo sguardo poco espressivo, nascosta nei più intimi congegni del cervello”.
A detta dello stesso Degrange, la pedalata di Bottecchia appariva regolare come il bilanciere di una pendola. Pareva non sforzarsi, quell’enigmatico veneto, pareva spingere la pesante, primitiva bicicletta, con la leggerezza della predestinazione.
Si prese i Tour del ’24 e del ’25, li monopolizzò, “comportandosi come un contadino astuto con la ragazza che vuole sposare, facendole una corte aspra e rude, dimenticando ogni cosa pur di conquistarla”. Nel ’24, addirittura, corse in maglia Gialla tutte le tappe, primo a domare così avidamente le mulattiere della Grand Boucle. “Perseverai, resistetti. Soprattutto volli”, disse dopo quelle vittorie.
Arrivarono gli ‘schei’, arrivò il ‘magnar’. Arrivò la Bottecchia Cicli, azienda che da un secolo continua a segnare l’immaginario ciclistico nostrano. Arrivò, soprattutto, il lampo del benessere, della preoccupazione che lascia spazio alla certezza, degli stenti che svaniscono di fronte alla meritata opulenza, del nulla metamorfizzato nel tutto. Un lampo subitaneo, destinato all’evanescenza della mortalità.



IL TUTTO, IL NULLA. LA MISTERIOSA MORTE DI BOTESCIÁ
‘Botescià’ convogliò nel Tour e nei lauti premi ad esso connessi ogni sua energia, snobbando intenzionalmente il meno redditizio Giro Rosa. In Francia trovò la propria terra promessa, eldorado dove monetizzare ogni fatica. In Italia, nonostante la condizione di semiesilio volontario, s’iniziò a bollare il carrettiere di San Martino come vero ‘Campionissimo’, ridimensionando lo status di Costante Girardengo.
1924-1927, quattro edizioni di Grand Boucle, l’ultima delle quali abbandonata sui tempestosi Pirenei, proferendo la celebre e stizzita frase: “Basta col Tour, bisogna troppo pensare!”. Quattro stagioni: tanto bastò a Bottecchia per divenire leggenda popolare. Poi la morte, una morte misteriosa, da noir. Una morte prima insabbiata e archiviata frettolosamente, poi studiata e approfondita da decenni di letteratura investigativa.
Fu un ‘giorno senza’, quel 3 giugno 1927. Il ricercato vocabolario di Gianni Mura lo descrisse con queste ispirate parole. Fu un ‘giorno senza’ sulle spoglie strade friulane, vie d’abitudini e allenamenti, di coltivazioni e stagionalità. Bottecchia era stato costretto a pedalare senza amici e gregari al suo fianco: qualcuno doveva raggiungere la fidanzata, qualcun altro stava imbiancando la facciata di casa, nessuno aveva risposto alla sua chiamata.
Lo trovarono due contadini, disteso a terra su un prato, completamente trasfigurato. Il volto, coperto di sangue rosso scuro, aveva smesso di essere una maschera di polvere e fango. Il corpo, da sublime ingranaggio ciclistico, era tornato ad essere un mucchio di ossa e angoli retti. Venne issato su un carro, privo di conoscenza, e portato dalla piccola frazione di Trasaghis all’ospedale di Gemona, attraversando il lento fluire del Tagliamento.
Gli riscontrarono fratture alla volta, alla base cranica e alla clavicola. Dopo dodici giorni fluttuanti tra il dolore e la sfiducia generale, Ottavio Bottecchia morì. Le indagini ufficiali decretarono rapidamente il decesso accidentale, dovuto ad una rovinosa caduta.
La moglie di Bottecchia parlò di un malore: termine, stando alla sua testimonianza, proferito dal marito durante gli ultimi istanti di lucidità. Ad avvalorare questa tesi, oltre alle conferme della nipote Elena e di un’infermiera, le dichiarazioni di un oste del luogo, ‘colpevole’ di aver servito al ciclista una birra ghiacciata poco prima del tragico epilogo. La vedova Bottecchia ottenne, grazie a questo tipo di archiviazione giudiziaria, un premio assicurativo di 500mila lira, cifra esorbitante per l’epoca.
Non tutti, però, credettero a questa versione dei fatti. Ombre e stranezze cominciarono a popolare le ricostruzioni dei fatti. A molti, per esempio, parve strano che la bicicletta di Bottecchia fosse uscita completamente illesa dal rovinoso impatto con la strada. Bicicletta che, dopo pochi giorni, non venne più trovata. A molti non parve coincidere il danno effettivo, soprattutto la duplice frattura cranica, con la dinamica dell’evento. Ombre e stranezze ingigantite da ben tre confessioni in punto di morte, tutte discordanti tra loro.
Il primo a parlare fu un contadino che, prossimo alla dipartita, confessò l’omicidio a bastonate di Bottecchia, reo di aver rubato dell’uva dal suo campo. Ipotesi impossibile da confermare, vista l’assenza di uva nel periodo di giugno. La seconda testimonianza, ancora più romanzesca, arrivò direttamente da oltreoceano, da un sicario sardo, tale Berto Olinas. Olinas parlò di una corsa, quella di Anversa, di pochi mesi antecedente ai fatti di Trasaghis, parlò di un accordo non rispettato, di grandi scommesse saltate, di racket mafioso e di una vendetta attuata prima sul fratello di Bottecchia, Giovanni, trovato morto in circostanze sinistramente analoghe nel maggio dello stesso anno, poi sul diretto interessato.
Forse fantasie, forse suggestioni, forse realtà. La terza via, quella più accreditata, fu suggerita da un parroco, Don Dante Nigiris, che indicò la via del delitto politico, del raid squadrista, della zuffa con alcuni membri locali del partito fascista. Tesi sostenuta anche dalla doppia pubblicazione di Enrico Spitaleri. Nelle pagine di questi due libri-inchiesta, la morte del fratello Giovanni viene imputata ad una manovra sbagliata della macchina di Franco Marinotti, noto gerarca friulano. Le rimostranze di Ottavio e lo sdegnato rifiuto di 100mila lira come risarcimento, seguite da copiosi insulti, avrebbero poi spinto Marinotti ad indire una caccia all’uomo finita nel peggiore dei modi.
Dal nulla al tutto, dal correre per la fame alla fama. Per poi perdere ogni cosa nell’anonima campagna friulana, antitesi naturale di quelle cattedrali verticali scalate di Giallo vestito. Per poi lasciare ogni cosa alla propria famiglia, ad appena 32 anni: 32, come i nipoti che sfamò grazie ai guadagni di Tour e corse.
Non è bastato un secolo a diradare le nubi d’incertezza aleggianti sulla morte di Ottavio Bottecchia, non è bastato un secolo a comprendere la misteriosa dipartita del muratore veneto che, correndo per conquistare ‘schei’, si era ritrovato a conquistare il mito.

Gianmarco Pacione
Related Posts

Più di una maglia, Le Coq Sportif x Italia ’82
Le Coq omaggia con una capsule collection l’anniversario della più celebre maglia Azzurra e la propria elegante storia calcistica

Pete Maravich, un mago chiamato ‘Pistol’
Le Coq omaggia con una capsule collection l’anniversario della più celebre maglia Azzurra e la propria elegante storia calcistica

Nino Benvenuti, il campione del popolo
L’esule che grazie al pugilato è salito sul tetto del mondo

Fred Perry, storia di un tennista rivoluzionario
Il ping-pong, le conquiste sociali, Wimbledon, la polo

Roberto Durán, le mani come pietra
Il pugile uscito da ‘El Chorrillo’, dal peggior barrio di Panamá, per conquistare il mondo

Un toro scatenato sul ring, Jake LaMotta
L’uomo che ispirò Scorsese e De Niro

Edwin Moses, gli ostacoli come forma d’arte
L’ostacolista che non riusciva a perdere

Suzanne Lenglen secondo Henri Lartigue
Il rapporto tra l’inventore della fotografia sportiva e la ‘Divina’ del tennis

Lucien Laurent, il primo gol Mondiale
La prima rete Mondiale

Víctor Pecci, il playboy del tennis
Il tennista che mise paura a Björn Borg