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Nigel Mansell, il Leone

Baffi e piede pesante. Quando la Ferrari parlava inglese

La Regina d’Inghilterra, il pudding, una pinta di ale, il bulldog, la FA Cup, Wembley, Sherlock Holmes e il numero 221B di Baker Street, la Tube di Londra. Tutto molto britannico. Quasi come Nigel Mansell. I baffi folti e il casco con l’Union Jack stilizzata, un modo di stare in pista spericolato e generoso, sempre al di là del limite. Uno che ha fatto parte dell’ultima generazione dei piloti “non automatizzati”, quelli che le macchine le guidavano con il freno e l’acceleratore, e il volante aveva giusto qualche tasto per controllare la potenza e innestare il turbo. Ha vissuto la transizione dalle strade di fuoco ai controlli elettronici. La sua carriera è una serie di istantanee.

Jacarepaguà, Gran Premio del Brasile, 26 marzo 1989. L’autodromo è vicino a una laguna e dista alcune decine di chilometri da Rio de Janeiro. La partenza è alle 13. Il clima è rovente. In pole position c’è Ayrton Senna, spinto da un popolo intero. Dopo pochi giri va fuori per uno scontro con Gerhard Berger, alla guida della Ferrari. L’altro pilota della Rossa è proprio Mansell. Non sono anni fortunati per il Cavallino Rampante. Il Mondiale manca dal 1979. L’arrivo di Mansell è stato salutato con qualche perplessità. Dopo aver sfiorato il titolo nel 1987 e averlo perso, a favore di Nelson Piquet, a causa di un grave incidente che l’ha costretto a saltare molte gare, Mansell ha pagato il calo di prestazioni della sua macchina, la Williams. Le vittorie sono sparite, mentre a dominare è la McLaren.

La Ferrari l’ha ingaggiato, ufficializzando l’accordo nel luglio del 1988, emblematicamente dopo il G.P. d’Inghilterra, a Silverstone. Di fatto, Mansell sarà l’ultimo pilota arrivato a Maranello con la conduzione di Enzo Ferrari, che si spegne il 14 agosto. Il Drake, dell’inglese, apprezzava il coraggio, il piede pesante, lo sprezzo per il rischio. Aveva cercato di metterlo sotto contratto già due anni prima, invano, e nonostante Mansell avesse mostrato un’ampia apertura alle offerte ferrariste. E fu sempre lui a sceglierlo, un desiderio realizzato prima di andarsene. Da lassù, vedendo quel che Nigel, ribattezzato da tutti “il Leone” per la sua personalità al volante, riuscì a fare a Jacarepaguà, Ferrari avrebbe avuto la piena conferma della bontà della sua decisione.

Con Senna fuori, il duello per la vittoria fu a tre, con Alain Prost e Riccardo Patrese. Fu Mansell a imporsi, combattendo non soltanto con i rivali in pista, ma pure con un cambio semiautomatico, quello della sua monoposto, che traballava. Quando scese, si appoggiò a un muretto, aprì la tuta, aspettando che gli versassero sulla schiena dell’acqua.

La condensa che salì formò del vapore, tanto alta era la temperatura del corpo del Leone. Aveva conquistato la prima battaglia con la Ferrari. Un esito, questo, che non si ripeté spesso, ma Nigel Mansell, in due anni in rosso, entrò nei cuori della gente. Esattamente quel che aveva previsto il Drake.

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