MECCA, dove il basket divenne arte contemporanea

Nel 1977 Robert Indiana dipinse la propria Cappella Sistina sul parquet dei Milwaukee Bucks, dando vita a un campo leggendario
Il 1968 è un anno celebre per i suoi radicali cambiamenti sociali. I venti rivoluzionari soffiano forti in tutto il mondo ed anche la National Basketball Association sembra pronta ad una nuova alba, accogliendo due nuove squadre: i Phoenix Suns e i Milwaukee Bucks. Immerso nella natura, abbracciato dal Lago Michigan e dal Lago Superiore, il Wisconsin non è mai stato considerato un basketball state. Il dinamismo della palla a spicchi pare essere troppo diverso dalla pace che si respira a Milwaukee.
La prima stagione è ben lontana dall’essere entusiasmante: i Bucks chiudono con uno dei peggiori record della NBA con poco più di venti vittorie. Al draft viene scelto Kareem Abdul-Jabbar, che al fianco di Oscar Robertson forma una delle coppie più dominanti del campionato. Dopo solo tre anni, arriva il primo titolo NBA: un’impresa lampo quella dei Bucks, che non è comunque sufficiente per iscrivere la franchigia tra le powerhouses della pallacanestro americana. I Bucks sono giovani, sono vincenti, attirano migliaia di spettatori ad ogni partita. Eppure manca loro qualcosa. La proprietà è decisa a mandare un segnale forte, i Bucks devono essere sulla bocca di tutti e devono diventare un vero e proprio brand.

Decidono che ad identificarli debba essere la loro casa, la loro arena, il loro parquet. Il progetto viene affidato a Robert Indiana, uno dei massimi esponenti della Pop Art newyorchese, celebre per le sue poesie scultoree ‘HUG’, ‘EAT’ e ‘LOVE’. Indiana, il cui nome rimanda alla culla per eccellenza della pallacanestro statunitense, accetta l’incarico ma vuole che tutto venga tenuto nascosto fino al completamento dei lavori.
L’investimento, finanziato in gran parte da denaro pubblico, è decisamente consistente. L’alone di mistero che avvolge il risultato finale, unito ad una lunghissima attesa, alimenta i malumori in tutta la città. Alcuni giornalisti non sono convinti del progetto e arrivano a scrivere frasi come: “con tutti quei soldi potevamo ridipingere la Cappella Sistina”. Nel 1977 Indiana termina quello che ancora oggi è considerato il più grande lavoro Pop Art al mondo: un’arena intera che diventa una vera e propria opera d’arte. Un capolavoro artistico e cestistico fruibile da migliaia di persone. Il parquet, dipinto interamente a mano da Robert Indiana, è di colore giallo, con due M speculari realizzate in legno più chiaro. Le due aree, invece, come il cerchio a metà campo, sono di colore rosso. Sempre al centro troviamo la scritta MECCA, acronimo del nuovo Milwaukee Exposition Convention Center and Arena.

Il fattore campo è sorprendente: I Bucks centrano i playoffs ad ogni stagione, superando sempre le cinquanta vittorie ed arrivando in finale per ben tre volte, sconfitti solo dalle magie di Julius Erving e dai Celtics di Larry Bird. A beneficiare dell’incredibile energia della MECCA è anche l’università di Marquette, che nel 1977 corona una stagione sensazionale con la vittoria dell’unico titolo NCAA della sua storia. I costi di manutenzione del campo, però, sono estremamente elevati ed iniziano ad avere un impatto troppo pesante nelle casse della franchigia del Wisconsin. Inizia inoltre a prendere forma il progetto del Bradley Center, una nuova casa per i Bucks con il doppio della capienza e più consona alle nuove ambizioni del team.
Il cambio di impianto sembra portare con sé una sorta di maledizione, con la squadra che per sette stagioni consecutive non riesce a qualificarsi per la fase finale della stagione. Il parquet disegnato da Robert Indiana viene scomposto e messo in vendita. Trovare un acquirente è particolarmente difficile, nessuno sembra essere interessato a dare nuova vita al “floor that made Milwaukee famous”, che finisce così nel dimenticatoio.

Nel 2010, Andy Gorzalski – tifoso dei Bucks fin dalla nascita – s’imbatte in un annuncio a dir poco particolare. L’articolo in vendita viene descritto come un banale ‘gym floor’, ma per chi ha legato la propria infanzia sportiva alla franchigia di Milwaukee è facile comprendere l’unicità di quel parquet dalla descrizione apparentemente anonima. Il prezzo, 20.000 $, è poco accessibile, ma pur di non rischiare che Milwaukee venga privata del suo gioiello sportivo più prezioso, Andy si indebita ed acquista l’opera di Indiana, divenendo protagonista di uno splendido documentario ESPN.
Poco tempo dopo l’acquisto, Gorzalski entra in contatto con la famiglia Koller, proprietaria di una celebre azienda di parquet sportivi da sempre legata ai Bucks. Le due parti sono decise a valorizzare il capolavoro di Indiana e nel 2017, cinquant’anni dopo l’inaugurazione, la ProStar Surfaces della famiglia Koller realizza una replica perfetta della MECCA, attirando l’attenzione dei media e soprattutto dei tifosi, che grazie a quel parquet sono in grado di tornare indietro nel tempo.
“In life, in sports… It is always important to celebrate your heritage. Milwaukee to me was an unbelievable place to play”
L’importanza di ricordare la propria storia e di tramandarla alle generazioni future è un’azione fondamentale nello sport, ce lo ricordano le parole di Charles Barkley, che con i suoi (all’epoca) Sixers ha calcato il suolo della MECCA più volte. Nel 2018 i Milwaukee Bucks decidono di celebrare ulteriormente la creazione di Robert Indiana, realizzando delle divise ‘city edition’ ispirate ai colori del parquet utilizzati dall’artista.
Nonostante gli sforzi di Andy e della famiglia Koller, la vera MECCA non ha ancora trovato un acquirente in grado di valorizzarla e di ridarle nuova vita. Viene tutt’ora conservata come una vera e propria reliquia in un magazzino specializzato, in attesa che qualcuno riesca finalmente a dedicarle la gloria e l’importanza che merita. Questa volta, si spera, in un contesto museale.
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