Matteo Celon, l’America’s Cup è dedizione

Velista, figlio d’arte, grinder. Intervista al più giovane membro del team Luna Rossa Prada Pirelli
Uomini-dinamo, li chiamano. Una definizione semplicistica, una formula magica in cui racchiudere tutto quel non detto complesso da analizzare, complesso da concepire.
Uomini-dinamo, ingranaggi sapientemente inseriti nell’elegante scafo AC75 ‘Luna Rossa’, meccanismi umani apparentemente privi di emozioni, privi di pensiero. È la retorica del togliere invece che approfondire, dello sminuire invece dell’argomentare.
Lo sa bene Matteo Celon, grinder che da mesi si vede incensare per il petto gonfio e le braccia mulinanti, per quegli inarrestabili motori anatomici necessari per planare a velocità supersoniche sulle acque di Auckland, sulle rarefatte onde dell’America’s Cup.

Non basta, però. Non basta un caricaturale ritratto fisico a descrivere l’importanza di questa giovane leva della vela italiana; non basta a descrivere un ventiquattrenne che, oltre alla forza scientemente regolata, nella barca griffata Prada e Pirelli porta fosforo e conoscenza, preparazione capillare e assoluta dedizione.
“Di noi grinder si dice che dobbiamo spingere, che siamo il motore della barca, quelli che spostano pesi e pensano solo alla forza. Non è così, magari lo era in tempi passati. Oggi il grinder è a tutti gli effetti un velista, un aiutante della barca: non giriamo solo maniglie, come pensano in tanti. A dire il vero, grazie alle conoscenze maturate lungo questa campagna di quattro anni, potremmo quasi costruirla una barca…”

Velista Matteo lo è per discendenza familiare, per un sangue blu scuro, scuro come i riflessi della fitta vegetazione del Monte Baldo sulle acque benacensi.
Il padre Claudio, detto ‘Ciccio’, sulle sponde veronesi del Lago di Garda emana un’aura leggendaria: sublime studioso di venti e onde, è stato interprete di tre Giochi Olimpici e attore protagonista in due edizioni di Coppa America, quella persa nel 2000 proprio sullo scafo di Luna Rossa e quella vinta nel 2007 con gli elvetici di Alinghi.
Un esempio scontato da seguire, un esempio che, strano a dirsi, non voleva essere seguito. O meglio, lungo il percorso giovanile Matteo non riceve input o pressioni da papà Claudio, non è vittima di obblighi velici parentali.
Il grinder scaligero segue il proprio corso, un corso naturale, trovando casa nella brezza lacustre solo quando ne sente realmente la necessità.
“Vivendo a Torri del Benaco, affacciato sul lago, sono sempre stato a contatto con l’elemento acquatico. A 12 anni ho fatto il mio primo corso di barca a vela. Suonerà strano, ma da giovane mi sentivo in soggezione rispetto al vento, non era paura, semplicemente preferivo evitare di uscire in barca: nella mia testa prendevano forma onde giganti, eppure si trattava del tranquillo Lago di Garda, non di un oceano… A mio padre non dispiaceva questa riluttanza alla vela: nei brevi periodi che trascorreva sulla terraferma ci portava sempre in montagna, non voleva sentir parlare di regate. Lui e mia madre sono appassionati di sport in generale, questo mi ha portato a provare le discipline più disparate, come rugby, atletica e calcio. Nello sci di fondo sono entrato anche in una selezione del Trentino”

Al termine di una lunga infarinatura sportiva, di una sorta di scuola dell’obbligo dello sforzo fisico, il richiamo delle onde torna inevitabilmente a bussare alla finestra di Matteo.
Troppa la vicinanza al porticciolo di Torri del Benaco, troppo imponente il retaggio familiare, troppa la fascinazione per quello specchio blu incastonato tra Veneto e Lombardia.
Matteo inizia a sua volta a seguire venti e onde, inizia a scrivere il proprio capitolo nel grande romanzo velico familiare. Lo fa sognando i cerchi olimpici, lo fa affidandosi alle proprie forze, non solo in senso figurato.
“Ho ricominciato ad uscire in barca per una sfida con me stesso. Negli altri sport ero riuscito a diventare competitivo attraverso l’allenamento, allora ho deciso di usare questa formula anche nella vela. Tra i 17 e i 18 anni, quando mi sono reso conto della concreta possibilità di avere un futuro nelle regate, ho iniziato ad autofinanziarmi. Non perché la mia famiglia non volesse aiutarmi, anzi, è stato semplicemente un modo per sentirmi indipendente: ero in difficoltà a chiedere loro continuamente soldi. Nei weekend ho fatto il cameriere, spesso ho fatto il “gommonauta”, stavo tutto il giorno su un gommone, recuperavo le persone che scendevano con il parapendio sul lago. Da laserista ho iniziato a sognare la campagna olimpica, poi però, nella prima vera stagione ad alti livelli, è arrivata la chiamata di Luna Rossa Prada Pirelli”

Matteo viene convocato a Cagliari, alla corte del team di Patrizio Bertelli, per prendere parte al progetto New Generation. Nello scouting di giovanissimi talenti tricolori, il veronese spicca subito per applicazione, acume e struttura fisica.
La prima settimana di tirocinio nel magico gotha della vela futuristica viene così seguita da una seconda, poi da una terza, poi da una richiesta ufficiale d’ingresso nel team, avanzata direttamente da Max Sirena.
Per l’appena ventenne Matteo si spalancano le porte dell’elitario olimpo di Luna Rossa, un riservatissimo cenacolo sportivo, in cui per occupare un posto è necessario un impegno totalizzante, da spalmare su in intero quadriennio.
“Ho realizzato di essere dentro il team solo al primo giorno di lavoro, da lì in poi ho vissuto una sorta di ciclo universitario. Sono consapevole di far parte di un limitato numero di prescelti, di fortunati, che però non si sono mai adagiati sul proprio status e non hanno mai smesso di sacrificarsi. Abbiamo fatto di tutto, dal realizzare rastrelliere per le bici al navigare, dal verniciare container al costruire un’imbarcazione di sette metri. Ora sto comprendendo quanto mi stia realmente regalando questa campagna, quanto mi stia regalando l’essere quotidianamente a contatto con professionisti dell’idraulica, dell’elettronica, con designer che cambiano di un singolo millimetro un dettaglio, rendendolo fondamentale. Ogni membro della New Generation è stato affiancato ad un preciso capo dipartimento e ha avuto modo di specializzarsi in un ambito specifico, io per esempio mi occupo della meccanica. Ecco perché dico che un grinder sull’AC75 ‘Luna Rossa’ non gira semplicemente le maniglie per spingere l’olio nel serbatoio (olio che regola pistoni idraulici fondamentali per le manovre ndr): durante le regate analizzo dati, controllo l’incidenza degli enormi carichi, fungo da primo soccorso, mettendo in pratica le nozioni assorbite dal capo dipartimento”

Un legame simbiotico, quello tra Matteo e il proprio responsabile. Un legame allargato all’intera famiglia Luna Rossa Prada Pirelli e al suo numerosissimo nucleo, formato da 120 persone: contesto in cui il ragazzo veronese, individualista per formazione e necessità sportiva, si è inserito con umiltà e passione.
“Arrivavo da uno sport singolo dove vincevo e perdevo io, dove non dovevo aiutare nessuno. Qui, invece, bisogna aiutare 120 persone e, contemporaneamente, farsi aiutare da loro. Per quattro anni ho ascoltato e imparato, mettendomi a completa disposizione. Credo che il team apprezzi la mia dedizione e il fatto che questo impegno venga profuso dal più giovane del collettivo. Non ho problemi nel pulire pezzi della barca, nel fare piccole cose che possano sgravare di lavoro chi sta al mio fianco. Fare rientrare a casa lo Shore Team alle nove, invece che alle dieci, mi fa sentire bene. Tutti dobbiamo lavorare per vincere la coppa, quindi stare per una decina di ore sulla barca e dedicarne altre tre al lavoro fisico, di pura palestra, non mi pesa”
Ad unire il team Luna Rossa Prada Pirelli pare essere una forma di fedeltà condivisa: fedeltà nei confronti dell’opera velico-ingegneristica intarsiata centimetro per centimetro, fedeltà nei confronti di un popolo, quello italiano, che in quelle vele nere prodotte da North Sails vede aleggiare un mito trasversale.
“In acqua sentiamo di portare l’Italia con noi, questo dà una forza e un tipo di emozione che non avevo mai provato prima. Sono sensazioni che ci vengono trasmesse da figure predominanti come Max Sirena e Patrizio Bertelli, uomini spinti dal desiderio di riportare in alto il tricolore della vela. Mi soffermo in particolare su Patrizio: da quando l’ho conosciuto mi ha affascinato la sua onniscienza velica, il suo rapporto unico con le barche, per lui sono delle reliquie sacre da conservare. Ho avuto la fortuna di entrare nell’hangar dove le custodisce, un vero e proprio museo della vela italiana. Ho visto barche di altri consorzi tagliate a metà, abbandonate, lui invece ha una passione viscerale per queste imbarcazioni, per la storia legata ad esse. Grazie alla vicinanza di persone del genere ho compreso il valore di ciò che mi circonda”

E oggi a circondare il ventiquattrenne figlio d’arte è il più pregiato palcoscenico acquatico del mondo, oltre che il più antico, l’America’s Cup. Un’ascesa rapidissima e vertiginosa, una personale regata dalle placide onde del lago di Garda alle infuocate correnti neozelandesi.
Il ragazzo che poco più di dieci anni fa temeva il vento si trova a fronteggiare i ‘Kiwi’ di New Zealand, colossi della navigazione apparentemente invincibili. Nel farlo accetta il peso della storia, il peso del presente, dimostrando di comprendere appieno una manifestazione dal carattere culturale, prima che sportivo.
“Mi rendo sempre più conto di quanto l’America’s Cup sia una cosa più grande di me. Parliamo del più antico trofeo sportivo al mondo. In quest’ultimo periodo mi sono gustato le regate del passato, ho notato come l’evoluzione della vela parta sempre da questa meravigliosa competizione, ho capito che in questi quattro anni abbiamo alzato ulteriormente l’asticella del nostro sport, portandola su un terreno ancora inesplorato. L’America’s Cup è un sogno, nel vero senso della parola, un sogno in grado di unire una nazione, anche nelle sue fasce più verdi. Tanti giovani si avvicinano in queste settimane alla vela, ci scrivono, si rendono conto che la nostra è una penisola circondata dall’acqua: spero che anche solo alcuni di loro possano provare la sensazione di stare là fuori, in mezzo alla natura, spero che tornino a scrivere ‘Luna Rossa’ sulle loro prime barche, come succedeva ai tempi in cui era mio padre a regatare”

Speranze nobili, quelle del grinder veronese, pienamente centrate nello spirito che dal lontano 1997 ha fatto di Luna Rossa Prada Pirelli il punto di riferimento italiano della velocità acquatica. Speranze alimentate visivamente dai voli estasianti di Spithill e compagni, alimentate materialmente dalla vittoria della PRADA Cup ai danni di Ineos Team UK e dalla prima regata strappata ai contendenti neozelandesi.
Speranze. Come quelle che accompagnano il saluto che ci riserva Matteo Celon a vari continenti di distanza, pronto a tornare sulla sua postazione, pronto a mulinare di nuovo i propri ingranaggi fisici e mentali.
“All’inizio della campagna pensavo solo ad entrare nel team, poi mi sono focalizzato sul non arrivare ultimo, poi sulla vittoria della PRADA Cup. Scalino dopo scalino mi sono ritrovato nel cuore dell’America’s Cup. Il mio focus ora è sul prossimo futuro, sulla prossima regata, sul fare del mio meglio in questa finale. Per il resto ci sarà tempo”

Di tempo Matteo Celon, classe 1996, ne avrà moltissimo a disposizione. Non ci è dato sapere se lo sfrutterà per nuove rincorse alla Brocca d’Argento o per stimolanti campagne olimpiche.
In fondo, dall’alto della sua giovanissima assennatezza, il grinder scaligero ha tutte le ragioni del mondo: per il momento meglio concentrarsi sulla prossima regata, meglio concentrarsi sulle acque di Auckland e sullo scafo di Luna Rossa, dove anche un sogno può diventare realtà.
Intervista di Gianmarco Pacione
Credits
Ufficio stampa Luna Rossa Prada Pirelli
11 marzo 2021
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