Mathias Gallo Cassarino, la Muay Thai di un ‘farang’

Intervista al fighter italiano che ha trovato casa e fortuna sui ring thailandesi
Scavando nell’etimologia della parola Muay si giunge all’antico sanscrito, al termine Mavya, letteralmente ‘unire insieme’. Curiosa coincidenza. Curioso il fatto che ad unire Italia e Thailandia sia Mathias Gallo Cassarino e che il ponte per farlo sia la Muay Thai, l’arte fisica delle otto armi.
Curioso, già. Perché da quindici anni Mathias, nativo di Venaria Reale, vive in pianta stabile nella terra dei thai, nell’ammaliante Paese che in passato fu Siam.

La sua è una vita da sempre devota all’antica tecnica marziale nata nel sud est asiatico: un percorso continuo, iniziato già nella prima infanzia, un lungo, esotico viaggio che l’ha visto da straniero, per l’esattezza da ‘farang’, scalare i ranking nazionali thailandesi e inanellare cinture nei templi più sacri di Bangkok e dintorni.
“La prima testimonianza fotografica del mio rapporto con la Muay Thai risale a quando avevo 3 anni. Ero piccolissimo e tiravo dei calci al fondo del sacco. Mio padre, Roberto, è da sempre appassionato e praticante di sport da combattimento, durante la mia infanzia finivamo per trascorrere tutte le estati in Thailandia, dove lui veniva ad allenarsi per uno o due mesi. Inizialmente non ne volevo sapere di seguirlo in palestra: immaginatevi di essere in vacanza, magari in spiaggia, e di doverla abbandonare per tutto il pomeriggio… In realtà mi divertivo anche in palestra, in mezzo ai coetanei locali: sul ring si giocava, era una sorta di parco giochi. Così ho iniziato a tirare i primi pugni e calci”


Dai ring thai ai banchi scolastici della provincia torinese. Nel giovane Mathias si forma una doppia anima, un duplice mondo da abitare. In Piemonte, difatti, le opportunità di coltivare l’arte delle otto armi (così definita perché comprensiva di pugni, calci, gomiti e ginocchia) non trovano un proprio sbocco naturale.
Al termine delle scuole medie matura quindi la decisione familiare di spostarsi permanentemente a Pattaya: un cambiamento epocale, uno spartiacque esistenziale tanto decisivo per la carriera sportiva, quanto sofferto per la psiche adolescenziale.
“In Italia ho provato tantissimi sport, ma ero scarso in tutto. Per esempio non ho mai vinto una gara di judo: ricordo ancora i viaggi in camper con mio padre, le partenze alle cinque di mattina e le delusioni sul tatami. Finite le medie abbiamo deciso che avremmo trascorso un intero anno in Thailandia, una sorta di periodo di prova. Non nego che i primi tempi siano stati durissimi: ero iscritto ad una scuola internazionale dove si parlava solo in inglese, piangevo ogni giorno. Sono timido di indole e faticavo a stringere rapporti d’amicizia. Al completare del primo anno, però, stavo bene, iniziavo già a sentirmi integrato. Per la seconda superiore siamo tornati in Italia e, infine, abbiamo definitivamente messo radici in Thailandia”

L’integrazione in un Paese enigmatico, colmo di tradizioni secolari e antichi retaggi culturali, per Mathias passa attraverso il ring e tutto ciò che gli gravita intorno. Passa attraverso l’apprendimento della lingua thai e la rispettosa accettazione di misteriosi usi e costumi.
Il suo status di ‘farang’, di occidentale innestato in un tessuto sociale colmo di tabù e reticenze, viene intiepidito dalle qualità sul ring, da ore ed ore investite tra camp e maestri. Ore trascorse sotto l’occhio attento del padre-mentore Roberto.
“La Muay Thai ha avuto un ruolo fondamentale nel mio ambientamento. Inizialmente sono stato allenato dal compianto Christian Daghio, nella sua palestra c’erano molti italiani e questa cosa mi dava tranquillità. Anche con i thailandesi mi sentivo più a mio agio nei pressi del ring, va detto però che farsi rispettare da loro è veramente difficile. Per farvi capire questa loro diffidenza, verso i 18 anni mi allenava un maestro thai e continuava a ripetermi che non avrei mai battuto un mio pari peso. Poi puntualmente vincevo e lui era il primo a complimentarsi. I thai iniziano a rispettarti solo quando capiscono di cosa sei fatto, questa è la verità. Nel cammino marziale è stato fondamentale mio padre: mi ha sempre guidato dalla parte giusta, mi ha sempre aiutato a livello tecnico e, soprattutto, mentale. Lui è un uomo di successo, all’attività sportiva ha sempre unito una brillante attività imprenditoriale. Così all’occhio clinico da osservatore, allenato guardando migliaia e migliaia di match, ha unito consigli sugli atteggiamenti da tenere, sul corretto modo di pensare per raggiungere il maggior numero di obiettivi posti”

E di obiettivi Mathias ne ha raggiunti molti, traguardi quantificabili materialmente in 6 cinture e in un centinaio d’incontri combattuti sui più evocativi palcoscenici thailandesi, tra cui spiccano stadi sacri come il Lumpinee e il Rajadamnern: vere e proprie cattedrali della Muay Thai.
Luoghi dove questa pratica con quasi duemila anni di storia alle spalle, originata secondo la leggenda dal popolo Ao-Lai come forma di difesa, vede elevare la propria mistica, la propria simbologia eternamente connessa alla sfera spirituale.
“Apprezzo moltissimo questo lato della Muay Thai. Sono finezze complesse da comprendere per un profano. Alla sacralità si associa sempre una forma di rispetto innato, riassunta alla perfezione dal Wai Khru, il rituale pre-combattimento che funge da omaggio al proprio maestro e a tutti i guerrieri del passato e del presente. Tra fighter si usa dire ‘amici prima, nemici durante, amici dopo il match’: trovo che l’essenza della spiritualità sia racchiusa in queste parole, in questo profondo e ossequioso rispetto reciproco. Tante usanze tradizionali, va da sé, rischiano di diventare forme di condizionamento mentale, come nel caso del Mongkon, il copricapo che contraddistingue ogni combattente: l’ho dimenticato un paio di volte e sono entrato in una profonda crisi psicologica, perdendo gli incontri. Per un periodo, prima degli eventi, ho anche acceso l’incenso davanti alle casette degli spiriti presenti in ogni abitazione thailandese. Bisogna stare attenti a non legarsi troppo a queste pratiche: con il tempo ho capito che rischiavano d’intaccare eccessivamente le mie prestazioni e adesso le gestisco con una maturità diversa. Il Lumpinee e il Rajadamnern sono due mecche sportive che inglobano tutto ciò. Soprattutto il vecchio Lumpinee, oggi abbattuto, mi ha regalato emozioni incomparabili. Immaginatevi una location underground, con l’odore dell’olio e del fumo impregnato in ogni centimetro, con le urla smodate degli scommettitori… Mi sembrava di essere in un film”
Un film che originariamente non prevedeva protagonisti occidentali, tantomeno italiani. Seguendo le orme dei vari Ramond Dekkers, Dany Bill e Charles Skarbowsky, Mathias Gallo Cassarino ha deciso di vestire i panni del ‘farang’ anomalo, pronto a duellare contro i massimi interpreti thai.

Un ruolo scomodo, oggi bramato da migliaia di europei e americani impegnati in vari camp thailandesi; un ruolo che solo pochissimi riescono ad interpretare con convinzione e risultati oggettivi.
“È vero, ci sono sempre più ‘farang’ che provano l’avventura, arrivando qui per combattere. Quelli che competono ad alto livello, però, si contano sulle dita di una mano. Molti di loro vengono sfruttati, finiscono in palestre che li limitano, che tengono loro nascosti i segreti del mestiere… Questi ragazzi galleggiano, sopravvivono con qualche match di poco conto, restano in un limbo. Alcuni non lo meritano, altri invece si approcciano alla cultura thai in maniera sfacciata, finendo per scimmiottarla. Io stesso, pur sentendomi per metà thailandese, non ho la presunzione di dire di conoscere pienamente questa cultura. Non concepisco il farsi tatuaggi tradizionali o Mongkon lavoratissimi dopo pochi mesi di vita e lotta qui. Comprendere questo Paese significa ben altro, significa per esempio non mettere mai un frontale sul volto altrui durante gli allenamenti: il piede viene difatti considerato una parte impura e può toccare il viso dell’avversario solo in un match ufficiale”

Punto d’appoggio e di crescita per i ‘farang’ più volenterosi è diventato il camp fondato da Mathias e suo padre Roberto. Il 7 Muay Thai Gym & Resort sorge nella provincia di Rayong ed è un paradiso dell’allenamento marziale affacciato sul Golfo del Siam.
Qui i quindici anni di esperienza personale, uniti all’onniscienza paterna, fungono da traino per occidentali che sognano di raggiungere il primato nel sacro ranking del Lumpinee, scalino su cui Mathias è salito poco più di due anni fa. Qui il caos di Bangkok e Pattaya lasciano spazio al mare e alla tranquillità, al semplice desiderio di miglioramento sportivo.
“Ho frequentato tanti camp nella mia vita, mio padre ne ha anche gestito qualcuno in prima persona. Vedevamo sempre qualcosa di migliorabile e alla fine abbiamo deciso di unire le nostre esperienze. Siamo in un posto rurale, riteniamo che le grandi città non siano un posto ideale dove allenarsi. Qui c’è la vera Thailandia, non siamo intaccati dal turismo di massa e arrivano solo persone concentrate, vogliose di allenarsi. Sono italiani, americani, spagnoli, tedeschi, anche asiatici… Al contrario di molti camp locali, se vediamo l’impegno e la passione in un fighter proviamo a portarlo al massimo livello”
Il piacere nel formare, nell’istruire. Un piacere che in Mathias si collega ad un intimo desiderio, quello di far crescere la pratica della Muay Thai sul suolo italico. Nonostante il suo trasporto verso la cultura thai, difatti, il fighter torinese ha ancora una grossa fetta di cuore legata al Bel Paese.
Se a Bangkok e dintorni il suo nome echeggia in televisione ogni settimana, in Italia le gesta di Gallo Cassarino, almeno per il momento, appassionano solo gli addetti ai lavori, i puristi della disciplina. Un peccato, per un’eccellenza tricolore giunta all’apice della propria carriera. Un peccato, per un esempio di decisa pacatezza e assoluta dedizione.
“È difficile valutare quanto io influenzi gli appassionati italiani. So che molti mi stimano, lo percepisco sui social, e mi fa piacere vedere che tanti giovani connazionali si complimentano dopo una vittoria. Per me è fondamentale mostrare loro quello che si può fare e come si può fare. Provo a farlo attraverso i social, dove mostro anche il mio lato personale, per far capire che sono un fighter, sì, ma sono soprattutto una persona pacifica, tranquilla: trovo sia fondamentale far passare il concetto che la Muay Thai è uno sport nobile, non di picchiatori violenti e aggressivi. Per questo motivo, al contrario di alcuni colleghi, cerco di pubblicare il meno possibile foto dove compare il sangue… Anche se è naturale che ogni tanto possa capitare di aprirsi durante un match. Il mio timore è che in patria possano vedermi come un privilegiato che si è formato in terra straniera, che non rappresenta la scuola italiana. In realtà porto sempre la bandiera tricolore con e dentro di me”

‘Mavya’, unire insieme. Unire culture. Mathias Gallo Cassarino ci è già riuscito con la propria fidanzata, di origini franco-thailandesi, ci è già riuscito con la piccola figlia di tre anni e mezzo, in grado di parlare italiano, francese, inglese e thai, ci vuole riuscire cingendo il petto con la cintura del Lumpinee: sacro Graal da raggiungere nel prossimo futuro.
Forse è racchiuso proprio qui il senso del lungo viaggio di Mathias, un viaggio che all’arte delle otto armi ha unito scoperta e assimilazione di un mondo altro. Un viaggio tra ring e integrazione. Un viaggio di un ‘farang’ che ha deciso di non rimanere tale.
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