Leone nella giungla, Memphis Depay

Storia di abbandoni e rabbia repressa, storia di un calciatore irrequieto
“Vorrei che tutti mi chiamassero Memphis, semplicemente Memphis”
La scritta sulla maglia è chiara: ‘MEMPHIS’, nient’altro che il nome. Non si tratta d’un classico, gioioso epiteto di scuola brasiliana, tantomeno d’un vezzo estetico. Il motivo è ben diverso.
Memphis Depay rigetta morbosamente il suo cognome da oltre 20 anni: da quando Dennis, il padre naturale, ghanese itinerante, abbandonò figlio e moglie nelle profonde viscere della periferia di Moordrecht.

“Quella persona non merita che il suo cognome stia qui, sulle mie spalle”
Memphis, ad appena 4 anni, vede la madre accasarsi con un altro uomo: un patrigno particolare (dicono ‘vanti’ la cifra record di 15 figli). Coltiva rabbia e tensione adolescenziale, disperso in un fatiscente palazzo-alveare tra liti furibonde e violenze domestiche.
“Non voglio descrivere ciò che è successo dentro quella casa, non voglio che la gente sia dispiaciuta per me. A quei tempi ho dovuto semplicemente sopravvivere; potrei parlare di abusi fisici, ma non lo farò”
Passa poco tempo ed anche il patrigno abbandona Memphis: si dice abbia vinto qualche milione alla lotteria olandese, la notizia non viene mai confermata. Memphis, privato ancora d’una figura di riferimento maschile, si rifugia tra le braccia di nonno Kees, che per primo lo spinge verso il voetbol. Ma la ruota non gira, anzi, gira sempre più al contrario: i tentacoli della periferia sembrano incontrollabili.
“Ho fatto cose che non si dovrebbero mai fare, credevo fosse tutto uno scherzo, ma era molto di più. Ad un certo punto ho iniziato a riflettere, pensavo: se mi arrestano con il calcio è finita”

Allo Sparta Rotterdam scorna con diversi allenatori giovanili, corre furente in spogliatoio dopo una sostituzione di troppo, manda a quel paese per ogni piccola incomprensione: il ragazzo è ribelle, è irrequieto. Le seconde possibilità diventano terze, quarte, quinte… Memphis supera il livello d’insostenibilità e la dirigenza decide di allontanarlo.
Origlia alla porta il PSV e ne approfitta immediatamente: d’altronde quelle sgasate palla al piede sono ipnotici assoli muscolari, sono Robben nel corpo d’un rottweiler.
L’opportunità di Eindhoven si tramuta in una potenziale via d’uscita purificatrice, in un appiglio per abbandonare e demolire qualsiasi influenza sottocutanea del ghetto allattatore.
Memphis comincia a pensare solo al calcio, aiutato da un mentore personale e da una famiglia locale che lo adotta completamente. Grazie a loro, nel 2009, riesce anche a superare la dolorosa morte dell’amato nonno.
Yard dopo yard, metro dopo metro, Memphis raggiunge la prima squadra con la stessa rapidità d’un running-back: schivando placcaggi e tackle, mettendo la freccia nell’Eredivisie, fino all’arancio intenso degli ‘Oranje’.

In Louis Van Gaal trova il padre che ha sempre desiderato: un mister fiducioso, innamorato.
Il vulcano Memphis erutta nel mondiale brasiliano, appena ventenne, per poi attraversare la Manica proprio insieme al maestro olandese, unendosi in estate ai Diavoli Rossi.
Circa 30 milioni spesi dallo United e il numero 7 voluto sulla schiena dal ragazzo di Moordrecht: lo stesso di Cristiano Ronaldo e David Beckham.
Anche in Premier League ‘Memphis’ resta l’unico nome identificativo. Pare addirittura che alla BBC stessa arrivi una richiesta a riguardo: “Vi pregherei di chiamarmi Memphis, semplicemente Memphis. Grazie”.
Depay inizia la sua avventura britannica fronteggiando tante, tantissime aspettative, incrementate da un magico esordio in Champions League.
Con il Club Brugge Memphis segna 2 gol: entrambi con il prediletto movimento a convergere dall’ala sinistra, entrambi con una fiondata potente e chirurgica. Alle realizzazioni aggiunge anche un assist, a tempo scaduto, per la testa di Fellaini.

Il popolo Reds va in estasi per l’olandese, ma i demoni che accompagnano il 21enne vengono a galla ad un passo dall’esplosione definitiva. Così ecco arrivare dichiarazioni fuori luogo alla stampa in patria, ecco l’alimentarsi di tensioni in spogliatoio.
“Van Gaal gli ha fatto giocare una partita con le riserve perché si è comportato male a Stoke. Lui si è presentato al campo con la Rolls-Royce, un cappello da cowboy e un completo in pelle. Mi sono chiesto cosa volesse dimostrare…”, un aneddoto raccontato da Wayne Ronney, un esempio della particolare percezione sociale dell’ingovernabile talento.
La sua è un’attitudine schizofrenica, spesso bipolare, che lo porta dallo status di promessa in rampa di lancio, a quello reietto ai margini del gruppo. In un anno e mezzo un crollo verticale, amplificato dall’arrivo di Mourinho sulla panchina United.
Nel 2017 Depay passa al Lione. Nell’OL pare intraprendere l’ennesimo percorso di riabilitazione umana e comportamentale, arrivando nella prima parte dell’attuale stagione a risultare stella e mastro tuttofare della squadra di Rudi Garcia.
5 gol in 5 gare di Champions, 14 totali: a mettersi in mezzo, questa volta, è solo la sfortuna. Salta il ginocchio, salta la migliore annata della vita di Depay.

Anche in Francia, però, i suoi drammi e la sua irrequietezza adolescenziale hanno regalato segnali tangibili. Segnali costantemente evidenziati dall’incessante proliferazione di tatuaggi, copiosa flora d’inchiostro sparsa per tutto il corpo, tra cui spiccano devote iscrizioni in onore del nonno e un leone a tutta schiena: simbolo di forza interiore e lotte passate.
Leone che, nelle ultime ore, è comparso anche sul suo profilo Instagram: questa volta nelle vesti di un cucciolo di ligre (incrocio tra un leone e una tigre), acquistato come animale domestico.
“Io sono cresciuto in una giungla. Sono un leone e sono sempre rimasto in piedi”, ha commentato Depay stesso.
Non è la prima follia nella sfrenata vita privata dell’olandese. Una sfera tutt’altro che occulta, ostentata senza sosta sui social, in tutti i suoi lati più estremi ed effimeri.
Se non fossero intervallate da scatti in azione sul prato verde, le foto di Depay sembrerebbero quelle di un rapper americano, impegnato tra gioielli, voli privati e manie di grandezza. Rapper a cui Memphis ha provato anche ad accostarsi artisticamente, incidendo alcune tracce nel recente passato.

Il dramma e l’oscurità infantile sembrerebbero rispecchiarsi in questi atteggiamenti. Una fuga nella superficialità, nell’apparenza, una momentanea cancellazione materiale di quello che fu.
Quello di Depay è un camuffato fiume carsico di dolore che, inevitabilmente e ciclicamente, è destinato a tornare in superficie. Come nella partita dello scorso anno contro il Saint Etienne, quando i tifosi avversari presentarono uno striscione decisamente indelicato: “Hai 5 milioni di follower, ma non hai un padre!”.
Un messaggio a cui Depay ha risposto nell’immediato, cercando di scansare l’argomento: “L’oscurità non può scacciare l’oscurità, solo l’amore può farlo. L’odio non può scacciare l’odio, l’amore può farlo”.
In fondo non esiste modo per cancellare il passato, esistono invece modi per nobilitare il presente e il futuro. E questo, forse, Memphis non l’ha ancora pienamente compreso.
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