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László Papp, il pugile sconfitto dal regime

3 ori olimpici non bastarono a superare il regime comunista, non bastarono a regalare la gloria mondiale al più grande pugile ungherese

“Sono soltanto carne, sono soltanto ossa. Macchina è la mia testa, e la mia mano. Ma so quel che è passato. Durante il mio cammino ho pianto, ho riso. Io, uomo, proprio io. Me ne ricordo”

Dezső Kosztolányi, padre del futurismo letterario ungherese, non poteva pensare di racchiudere in queste parole l’esistenza del più grande pugile della sua nazione.

Era soltanto carne, László Papp, era soltanto ossa. In quella carne e in quelle ossa aveva trovato mezzi d’espressione, mezzi di mattanza, mezzi di prestigio eterno. Mezzi per cannibalizzare le categoria dei pesi medi tra gli anni ’50 e ’60.

Macchina era la sua testa, macchina era la sua mano, soprattutto quel gancio sinistro che gli permise di vincere oltre 300 incontri da dilettante e di evitare sempre la sconfitta da professionista, cristallizzando il suo record su un 27-0-2.

Lui, uomo, proprio lui, rise divenendo il primo boxeur a conquistare tre ori olimpici consecutivi; sempre lui, uomo, accettò la più dolorosa delle imposizioni governative, vedendosi negare la gioia del titolo mondiale per motivi politici, per una cortina di ferro sinistramente traslata a bordo ring.

Nei suoi versi Dezső Kosztolányi descriveva ‘I lamenti dell’uomo triste’, lo faceva nel lontano 1924. Non gli era dato sapere che, a distanza di soli due anni dalle rivelazioni della sua penna, un uomo destinato alla tristezza sarebbe nato a pochi chilometri dalla sua scrivania.

LA NOBILE ARTE È UNA NOTA DI VIOLINO

Cominciò a faticare presto nella Budapest operaia, László Papp, quando, appena undicenne, si trovò a fronteggiare l’inattesa morte del padre. Dalla figura paterna aveva avuto modo di apprendere gli accordi di violino e le combinazioni della più nobile delle arti sportive, l’aveva fatto tra le mura di casa e all’interno di brulicanti palestre magiare.

Nei guantoni usurati aveva intravisto la possibilità di comporre una sinfonia propria, fatta di gambe pesanti come querce e mobili come tornado, di una testa perennemente abbassata, intenta ad esplorare le oscillazioni nemiche e l’intensità del dolore.

Una sinfonia che Papp rimandò temporaneamente, obbligato a provvedere al sostentamento familiare. In età scolastica lavorò come tuttofare nel negozio di spezie di sua madre, consegnò latte e cornetti alla borghesia cittadina, poi trovò occupazione come impiegato ferroviario, infine attese la conclusione della Seconda Guerra Mondiale per poter rientrare sul ring.

Da dilettante vinse oltre 300 incontri, ne perse una manciata, 12 per l’esattezza, per lo più agli esordi. Il suo tarchiato metro e sessanta, tratteggiato da nervose fasce muscolari, gli permise di divenire monarca del circuito extra professionistico: un circuito in cui Papp venne presto imprigionato.

L’Ungheria, anzi, la Repubblica Popolare d’Ungheria, Paese sotto l’influenza sovietica dopo l’occupazione bellica dell’Armata Rossa, non prevedeva difatti il professionismo sportivo. Nei ring di Budapest non era consentito combattere per soldi. Per la gloria sì. Una gloria che con Papp assunse la forma dell’oro a cinque cerchi.

3 VOLTE ORO OLIMPICO, PER SCELTA ALTRUI

“Questo è l’unico grande rimpianto della mia vita”. Rifletteva, László Papp. Si lasciava andare ad uno sfogo amaro, pensando ad una carriera ingiustamente evirata, ingiustamente sottodimensionata.

Rifletteva osservando i tre ori olimpici conquistati consecutivamente tra il ’48 e il ’56: una triplice imposizione incontestabile, che vide il pugile ungherese perdere un singolo round in 13 match.

Londra, Helsinki e Melbourne, il britannico John Wright, il sudafricano Theunis Jacobus van Schalkwyk e lo statunitense José Torres superati in finale. Prima di loro nomi altisonanti come il polacco Zbigniew Pietrzykowski, in seguito avversario di un giovane Muhammad Ali (all’epoca ancora Cassius Clay), e come Ivano Fontana, leggenda del pugilato tricolore.

Furono tre Giochi di puro assolo magiaro, note di violino suonate all’energico ritmo della ciarda, trascinante danza popolare ungherese capace d’ispirare gli spartiti di Brahms e Liszt. Furono tre Giochi che catapultarono il nome di Papp nell’empireo pugilistico: un empireo ai suoi pugni precluso.

L’ungherese bramava i grandi palcoscenici mondiali, bramava i palazzetti gremiti dalle speranze di cintura, più che dallo spirito olimpico, bramava semplicemente le 15 lunghe, interminabili riprese.

Al contrario dei cubani Teófilo Stevenson e Félix Savón, unici successori olimpici trimedagliati, anch’essi obbligati al dilettantismo perpetuo cubano, Papp cercò in tutti i modi di superare le restrizioni governative, ottenendo solo a 31 anni e dopo la terza medaglia olimpica il permesso di prepararsi al primo incontro professionistico.

“Incontrai direttamente il Ministro dello Sport, che mi diede il via libera per iniziare la preparazione”, ricordò nei suoi ultimi anni di vita il boxeur soprannominato ‘Laci’. Fu un benestare donato per eccessivi meriti sul campo, fu l’accettazione di una necessità troppo a lungo manifestata da quello che era divenuto, a tutti gli effetti, un eroe nazionale.

L’ETÀ NON È UN OSTACOLO, IL REGIME SÌ

La tanto attesa concessione governativa prevedeva, però, estreme limitazioni: su tutte l’impossibilità di combattere nella propria terra. Papp fu quindi costretto a trasferirsi a Vienna per tentare l’assalto alla cintura continentale.

Ormai ultratrentenne, molti detrattori lo considerarono un pugile in aria di pensionamento, inevitabilmente destinato al rapido declino, un uomo giunto alla terra promessa per gustarne solo il sapore superficiale.

“Se un uomo di sport si allena regolarmente e con la corretta attitudine può essere più veloce, più duraturo e tosto a 35 anni, rispetto ad un giovane che non rispetta questi comportamenti. Ovviamente ho affrontato una sfida durissima. Il lavoro del pugile professionista è complesso, ad oltre 30 anni ho dovuto imparare a gestire fisicamente 10, 15 round”

A discapito delle numerose malelingue, ‘Laci’ imparò rapidamente a gestire le lunghe distanze. Riprese il chirurgico lavoro di mietitura nemica, dando vita ad un’impressionante striscia d’imbattibilità.

Dopo 17 vittorie (ottenute contro figure rilevanti come Francois Anewy, Andre Drille, Peter Mueller) e 2 pareggi (uno dei quali contro l’italiano Giancarlo Garbelli a Milano), nel maggio 1962 si presentò a Papp l’opportunità di combattere per il titolo europeo. Allo Stadthalle di Vienna Chris Christensen venne azzerato da un ko tecnico e fu costretto a consegnare la cintura allo sfidante ungherese.

Ormai prossimo ai 40 anni, Papp difese ripetutamente l’alloro conquistato, arrivò a farlo anche in terra spagnola, regolando il leggendario pugile-torero Luis Folledo. Al Palacio de lo Sport di Madrid il suo primo tifoso fu Ferenc Puskás, altro illustrissimo ungherese costretto all’esilio sportivo.

Entrati nel 1965, la parabola di Papp, nonostante tutte le difficoltà incontrate, raggiunse il proprio apice. A ‘Laci’ venne richiesto di combattere per il titolo mondiale, oltreoceano, contro l’italoamericano Joey Giardiello.

Un sogno, un sogno infranto, raccontato in prima persona: “Ero al mio training camp a Vienna, improvvisamente mi richiamarono a Budapest per motivi urgenti. Mi revocarono immediatamente il passaporto, di fatto negandomi la chance mondiale. Il governo non approvava il fatto che dovessi andare in America nel pieno della Guerra Fredda, così dissero. Credo in realtà si trattasse solo di gelosia: stavo guadagnando più di tutti i miei connazionali, c’era molta antipatia nei piani alti nei miei confronti”

CAMPIONE DEL MONDO, DOPO L’ULTIMA CAMPANELLA

Si chiuse in questo modo il sipario sulla carriera di László Papp, si chiuse lasciando un profondo senso d’incompiutezza e d’impotenza, di magnificenza sportiva gustata solo in piccola parte.

Papp narrò questi eventi solo dopo il cataclisma socio-politico del 1989 e l’annessa deflagrazione del cosmo comunista. Il tono della sua voce, le note dei suoi ricordi, furono sempre amare, suonate da quel violino che negli anni aveva perso fiducia in ciò che lo circondava, in un mondo d’invidie e assurde restrizioni, di rivoluzioni represse nel sangue e opportunità negate.

Un violino che solo in una cosa aveva creduto fino in fondo: nel ronzio dei guantoni all’interno del quadrato, nel tonfo di un corpo toccato da un gancio sinistro, nel sapore trascendentale della vittoria.

“Sono soltanto carne, sono soltanto ossa. Macchina è la mia testa, e la mia mano. Ma so quel che è passato. Durante il mio cammino ho pianto, ho riso. Io, uomo, proprio io. Me ne ricordo”

Rise nel 1989, László Papp, quando venne nominato campione del mondo onorario dal World Boxing Council, pochi anni dopo venne riconosciuto dallo stesso ente miglior pugile a livello amatoriale e professionistico della storia della boxe. Una risata contenuta, immateriale, dopo troppe lacrime interiori.

Lui, uomo, proprio lui, si sarebbe ricordato delle tante meraviglie negate fino al 2003, fino al giorno della sua morte. Meraviglie che la follia di un apparato governativo negò anche agli adepti della nobile arte, negò al corso intero della storia sportiva.

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