L’Adriatico che unisce, Ledian Memushaj

Dall’Albania all’Italia, dai dilettanti alla Serie A. Un capitano speciale, che unisce due popoli mai vicini come oggi
Valona e Pescara sono due storiche realtà portuali. Paiono quasi scrutarsi, camuffate dalle palme verticali e da una movimentata brezza marina. Sono speculari poli balneari, perle costiere incastonate sulla riviera ad un Adriatico di distanza.
Scogli, onde e usurati pescherecci separano due città simili, due microuniversi che rappresentano inconsciamente un legame profondo e atavico, quello tra Albania e Italia.
Non poteva che trovare casa in Abruzzo il valonese Ledian Memushaj, ironia della sorte proprio sul prato verde dello stadio Adriatico.
Una storia, la sua, che abbraccia due nazioni e due culture; una favola di umiltà ed educazione, che l’ha visto scalare tutte le categorie nostrane, arrivando nel calcio brillantinato dopo anni di sacrifici.

Il viaggio di un uomo pensante, sensibile al panorama sociopolitico internazionale, che immediatamente ci regala riflessioni attuali: “Il gesto di Rama, Primo Ministro albanese, mi ha emozionato e inorgoglito. Pur con le nostre difficoltà abbiamo dato tutto quello che potevamo dare. Siamo un Paese in crescita, ma non siamo ancora ai livelli dell’Unione Europea: queste sono azioni che fanno ben sperare per il futuro. La nostra cultura è troppo legata alla vostra, ci sentivamo in qualche modo in dovere di aiutare una nazione che ha fatto tanto per noi. In Albania l’Italia è da sempre vista come un punto di riferimento, un esempio: basti semplicemente pensare che in televisione vengono trasmessi i canali italiani. Venire incontro al governo tricolore è stato un onore per il mio popolo. Io stesso tengo all’Italia come se fosse il mio luogo di nascita”.

La vita di Memushaj non inizia però nel Bel Paese, ma nel tragico contesto albanese dei primissimi anni ’90: terra di conflitti e dolore. Dinamiche nefaste e criptiche, che il giovane Ledian non arriva mai a concepire pienamente: “Da bambino non riuscivo a rendermi conto di quello che stava succedendo intorno a me. Solo pensandoci ora, con la giusta maturità ed esperienza, riesco a comprendere la situazione albanese durante quei durissimi anni. Non posso dire, però, che la mia sia stata un’infanzia difficile…”.

Un’infanzia in cui per il piccolo Memushaj nasce l’amore per il pallone, accompagnato dalla scoperta di un altro mondo, a tinte tricolori, attraverso la memoria storica del nonno Bilbil: “Mi raccontava di Riza Lushta, questo fortissimo attaccante albanese degli anni ’40, capace di giocare anche nella Juventus. Per mio nonno era una sorta di mito, il suo nome mi è rimasto talmente impresso che, a distanza di anni, ho anche fatto delle ricerche su internet per capire meglio che tipo di giocatore fosse. Aveva profondamente colpito mio nonno perché a metà Novecento anche lui si era trasferito in Italia, ad Alessandria, dove fece a lungo il professore prima di tornare a Valona”.
Itinerario che nel tempo si sarebbe ripetuto per la famiglia Memushaj, di generazione in generazione, di lavoratore in lavoratore: “Mio padre quando ero piccolo si spostò a Cremona per fare l’operaio. Lo raggiunsi a 9 anni insieme al resto della famiglia. L’impatto con un nuovo Paese fu molto positivo: ai miei occhi tutto era qualcosa da scoprire. La gente inizialmente era un po’ chiusa, ma si apriva immediatamente: tutti diventavano in un attimo curiosi, ci volevano bene”.

Cremona prima, La Spezia poi. Affacciato sulle Cinque Terre Ledian inizia la trafila giovanile e dilettantistica, lunghi esordi di un viaggio che mai si sarebbe aspettato così fruttuoso: “Il mio percorso nel calcio è stato stupendo. Mi ha aiutato a crescere come persona. Sono stato a lungo nei dilettanti, ho vissuto esperienze che un calciatore abituato solamente a contesti di alto livello non potrà mai comprendere. Ho imparato a stare a contatto con tutti i tipi di persona, a rapportarmi con il mondo reale: non sono mai stato servito e riverito. Anche per un problema di cittadinanza ho atteso del tempo prima del grande salto tra i professionisti. Mi sono arrangiato, per esempio d’estate ho lavorato come cameriere in un ristorante turistico di La Spezia, dove peraltro mi sono divertito molto. Per un’intera stagione, poi, sono stato assunto da un carrozziere legato alla società per cui giocavo: la mattina ero in carrozzeria, il pomeriggio al campo”.

Dai turisti affamati e dalle rifiniture automobilistiche al magico mondo della Serie A. Un’esplosione inusitata e imprevedibile, imperniata su valori veri, da sempre terreno fertile della famiglia Memushaj: “L’educazione, il rispetto per il prossimo e delle regole. In casa sono sempre stati chiari in merito e, seguendo questi dettami, fortunatamente mi sono sempre sentito a mia volta rispettato”.

Pagani, Carpi, Lecce e, finalmente, Pescara. Terra familiare quella abruzzese, dove ‘Memu’ conduce i ‘Delfini’ nell’eldorado della Serie A al termine di una storica cavalcata play-off: “A Pescara ho rivisto la mia Valona: il lungomare, i colori delle onde e della sabbia… Sono stato da dio dal primo momento. Per questo ho deciso di comprare casa, nel mio futuro vorrei vivere qui con la famiglia”.

Una crescita costante, intervallata da un’incolore parentesi a Benevento.
Un’ascesa che ha visto il dinamico centrocampista albanese conquistarsi sul campo i gradi di capitano e condottiero biancazzurro, insieme al portiere Vincenzo Fiorillo.
Da emigrato del football, Memushaj ha anche restituito molto alla sua nazione natia, vestendo da dieci anni ormai la maglia rossa delle ‘Aquile’. Grazie al suo carisma e all’aiuto dalla panchina di mister De Biasi, la Nazionale albanese è anche riuscita a centrare una storica qualificazione agli Europei del 2016: “Vestire quella maglia è magico. Raggiungere un traguardo incredibile come l’Europeo francese è stato qualcosa di unico e bellissimo. De Biasi, Panucci e adesso Reja… Anche da questo dettaglio, dagli ultimi allenatori che abbiamo chiamato sulla nostra panchina, si può capire quanto sia importante l’Italia per l’Albania. È un rapporto a tutto tondo, un legame che sento profondamente radicato dentro di me”.
Gianmarco Pacione
14 aprile 2020
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