La scoperta dell’America

Non è il 12 ottobre 1492, ma il 17 giugno 1994. Non è Cristoforo Colombo ad urlare “Terraaa”, ma folle festanti oltre l’oceano. Siamo allo stadio Soldier Field di Chicago: il giorno in cui l’America ha scoperto il calcio.
Era il 17 giugno del 1994. Venticinque anni fa, al Soldier Field di Chicago, iniziavano i Mondiali di calcio. Quelli degli americani, discussi fin dall’assegnazione, perché, negli Stati Uniti, il pallone preferivano usarlo per altri sport: il basket, e poi, se ovale, per il “loro” football. Portare lo sport più seguito del pianeta nel Paese più ricco, l’unica superpotenza rimasta (all’epoca) dopo l’implosione dell’impero comunista e dell’Unione Sovietica: la sfida era affascinante, quanto azzardata. Ma fu proprio da quel giorno, con Diana Ross che, nel corso della cerimonia di inaugurazione, tirò fuori un coreografico rigore, e con la Germania che, nella prima partita del torneo, sconfisse per 1-0 la Bolivia con un gol di Jürgen Klinsmann, che il calcio accelerò il processo che l’ha condotto a essere un emblema della globalizzazione.

La Coppa del Mondo, fino a quando la FIFA, presieduta da João Havelange, con al fianco l’eminenza grigia Joseph Blatter, aveva votato per gli Stati Uniti nella corsa a designare l’organizzatore, era stata sempre una questione divisa tra Europa e America Latina. Nell’assemblea di Zurigo del 4 luglio 1988, gli USA avevano prevalso, ricevendo 10 voti, su Marocco e Brasile. Moacir Peralta, dirigente della federazione brasiliana, commentò, amaro, ironico e irritato dalla scelta: “È come se noi avessimo chiesto di organizzare le World Series di baseball”. Alla FIFA, d’altronde, avevano capito un principio, messo in pratica, in realtà, da sempre: business is business. E il Mondiale americano poteva essere un enorme affare. La grande incognita riguardava l’attenzione che sarebbe stata riservata all’evento dal pubblico statunitense. In molti vaticinarono di stadi vuoti, freddezza e disinteresse. Un sondaggio, diffuso dalla Gallup pochi giorni prima del via, rilevò che due americani su tre non sapevano né che cosa fosse la Coppa del Mondo, né quale paese fosse in procinto di ospitarlo. Tutti gli occhi erano puntati sulle Finals NBA che erano iniziate l’8 giugno, con il duello tra i New York Knicks e gli Houston Rockets. Eppure, tutte le previsioni negative furono smentite dai fatti. La media spettatori registrata per le 52 partite disputate fu pari a 68991 persone: un record. Per certe gare, la domanda di biglietti fu talmente elevata che, per accontentarla, sarebbe stato necessario avere a disposizione centinaia di migliaia di posti in più. Un riscontro straordinario, che fece da volano all’apertura della nuova lega professionista USA, la MLS, costituita due anni dopo. Il calcio era andato alla scoperta dell’America e l’aveva trovata.

Per chi li ha vissuti, quei Mondiali portano con sé ricordi che niente potrà mai cancellare. Furono contrassegnati dal caldo feroce, con un tasso d’umidità che toccava il 90%, che faceva da scenario alle partite. La svolta televisiva, con la ricerca di un’audience totale, che raggiungeva l’Europa e che aveva conquistato l’Asia, imponeva che si giocasse a orari folli, persino al mezzogiorno locale, con il sole a picco. Allora, tra l’altro, non era ancora stato introdotto il time-out tecnico, con la pausa a metà dei tempi per consentire ai calciatori di reidratarsi. Chi seguiva gli incontri dall’Italia, davanti alla televisione, percepiva l’estenuante sforzo di chi era in campo. Furono, poi, dei Mondiali stracolmi di formidabili fuoriclasse. Il Brasile allineava un duo d’attacco micidiale per estro, fantasia e senso del gol, composto da Romario e Bebeto. A proposito: l’esultanza della culla, il gesto per festeggiare la nascita di un figlio, si vide per la prima volta proprio in occasione di una partita della Seleção, in quella che fu, senza forse, la sfida più bella di quei campionati, il quarto di finale con l’Olanda, terminato 3-2 per il Brasile. Bebeto firmò il temporaneo 2-0 e, per celebrare la marcatura, visto che sua moglie aveva appena partorito, fece dondolare le braccia a destra e a sinistra, mimando il movimento del cullare. Con lui, si unirono alla celebrazione Romario e Mazinho. Ma le immagini uscite da USA ’94 ed entrate nella storia sono millanta: gli italiani ne hanno alcune di splendide, come quella del gol all’ultimo minuto con cui Roberto Baggio portò ai supplementari la partita degli ottavi con la Nigeria, che poi gli Azzurri vinsero. Oppure un’altra, sempre con il Codino protagonista, la rete nel finale con la Spagna, nei quarti, e l’abbraccio con Beppe Signori. Ci fu, però, anche il labiale di Robi nel girone eliminatorio, con la Norvegia, quando Arrigo Sacchi, il visionario allenatore che, al Milan, aveva rivoluzionato il calcio, per poi diventare uno dei più contrastati commissari tecnici della Nazionale, lo sostituì, dopo l’espulsione di Gianluca Pagliuca: “Chi, io? Questo è matto!”, esclamò Baggio, e le telecamere registrarono una scena che entrò nelle case di tutti. Sacchi, peraltro, ebbe pure ragione, perché quella partita, delicatissima e decisiva, la vinse l’Italia, per 1-0 e a segnare fu Baggio. Sì: Dino. Dopo, però, c’è la malinconia per quel rigore che Roberto calciò alto, nel cielo di Pasadena, nella finale con il Brasile. Taffarel, il portiere degli auriverdes, si inginocchiò e ringrazio Dio. I campioni erano loro. Franco Baresi, che era rientrato grazie a un sensazionale recupero da un’operazione al menisco, aveva, anche lui, sbagliato dal dischetto. Scoppiò a piangere, disperato. L’Italia aveva perso.







Quanti campioni, in quel 1994 americano. Diego Armando Maradona, c’era, richiamato al capezzale di un’Argentina che si era dissolta, al punto da perdere per 5-0, a Buenos Aires, durante le qualificazioni, con la Colombia. E el Diez si rimise in forma, buttò giù chili, si presentò negli Stati Uniti in una condizione che era paragonabile, al netto degli anni che erano passati, a quella che aveva nel 1986, in Messico, nel Mondiale del trionfo. La sua faccia stravolta, mutata in una maschera da teatro greco, una volta segnato un gran gol nel 4-0 al debutto con la Grecia, è uno scatto di una potenza feroce. Ma alla fine della partita vinta per 2-1 con la Nigeria, con un’altra prestazione sublime di Diego, Maradona fu chiamato all’antidoping: lo accompagnò, prendendolo per mano mentre ancora era sul campo (e, a distanza di tempo, la situazione appare perlomeno insolita), un’infermiera dai modi gentili. Dagli esami, risultò che il Pibe era positivo all’efedrina. Venne fermato e squalificato, l’Argentina, senza di lui, andò in frantumi, e agli ottavi fu eliminata dalla Romania.


Già, fu il Mondiale di Gica Hagi e di Hristo Stoichkov, il furente divo bulgaro che trascinò i suoi fino al quarto posto. Il Mondiale di Alexi Lalas, il generale Custer degli Stati Uniti, barba rossa e rock ‘n’ roll. Il Mondiale dell’ultimo gol di Roger Milla, con il Camerun sconfitto per 6-1 dalla Russia e Oleg Salenko che, in quella partita, ne fece cinque e fu capocannoniere, alla pari proprio di Stoichkov. Ma anche il Mondiale della bella e poderosa Nigeria di Yekini, Amokachi e Amunike, del coast-to-coast con cui Owairan consegnò all’Arabia Saudita la vittoria con il Belgio e un clamoroso passaggio agli ottavi, del flop della Germania, della Svezia terza, con il “pennellone” Kennet Anderson a spazzare e piazzare assist e gol di testa. Eppure, a restare, è il dolore per la tragedia che colpì Andrés Escobar, il difensore della Colombia che, al ritorno in patria, uscito da un ristorante, fu assassinato a colpi di mitra perché aveva fatto autogol nella partita persa con gli USA. C’erano di mezzo i cartelli della droga e un enorme giro di scommesse, la Colombia con quella sconfitta uscì dal Mondiale.







Un quarto di secolo dopo, negli Stati Uniti, il calcio lo chiamano sempre soccer. La kermesse della Coppa è stata in Corea del Sud e Giappone e in Sudafrica. Fra tre anni, sbarcherà in Qatar. Giusto, sbagliato? Il cuore dice una cosa, ma tace. La ragione, la sua risposta, l’ha già data da un pezzo. Ma se volete trovare una spiegazione a tutto quel è successo e succederà, ripensate al Soldier Field di Chicago, al 17 giugno del 1994. Soltanto così non avrete più dubbi.

Matteo Fontana
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