La promessa di Tyson

Ali, Holmes, Tyson. Storia di un incastro leggendario
L’aveva promesso a sé stesso. Ancor di più, al suo Eroe, al Campione che amava e che era, per lui, un modello. L’aveva visto abbandonato alla sconfitta, malmenato senza che riuscisse a difendersi da quello che era stato il suo sparring-partner. Tornando in macchina a casa, a Catskill, nello stato di New York, mentre il suo maestro era alla guida, non si dissero nulla. C’era un’ora di distanza da Albany, la città in cui avevano seguito l’incontro, in televisione.

Muhammad Ali aveva perso con Larry Holmes. Aveva dovuto arrendersi al decimo round. Mike Tyson, con al fianco Cus D’Amato, l’allenatore che l’aveva scoperto poco più che bambino, era addolorato. Non poteva finire così. Ma non c’erano altre possibilità. L’idolo che venerava stava per lasciare le scene.
Il giorno dopo, D’Amato chiamò Muhammad e gli disse: “Ho questo ragazzo nero che un giorno diventerà campione dei pesi massimi, voglio che gli parli”. Cus passò il telefono a Mike che recitò quella promessa al Mito: “Quando crescerò, combatterò con Holmes e gli ritornerò tutto, per te”. Non era la frase di un adolescente deluso e arrabbiato. Era l’urlo di un pugile che avrebbe rovesciato la storia della boxe.


Quando il combattimento cominciò, al Caesars Palace di Las Vegas, il 2 ottobre del 1980, si capì subito che sarebbe stato un pestaggio spietato, feroce. Sylvester Stallone parlò di un’autopsia su cun orpo ancora vivo. Intervistato da Emanuela Audisio per “la Repubblica”, nel 2016, Holmes ricorda: “Gli volevo bene, ma lui non voleva andare giù. Lo picchiavo con moderazione, lui si rifiutava di andare al tappeto. Al nono round lo centrai con un montante che lo lasciò tramortito. Faceva smorfie, non reagiva, ma non crollava. L’ho colpito 320 volte. Si lasciava fracassare, soffriva e resisteva, guardavo l’arbitro prima di far partire il pugno, come a dire; ci pensi tu a fermare questo massacro? Non volevo ammazzare Ali, ma come si fa a picchiare l’avversario quel tanto che ci vuole e non di più?”.
Muhammad Ali si avvierà al ritiro dopo quella sconfitta. Holmes pagherà quel successo con il risentimento dell’America. Confesserà, ancora alla Audisio: “Per me è stato un tormento, piangevano tutti, alla fine avevo i goccioloni pure io, ero cresciuto con Ali, gli dovevo molto, ma dal mio angolo continuavano a urlarmi: Larry, quell’uomo sta cercando di rubarti tutto quello che hai. È stata l’unica vittoria che mi ha depresso. Mi sentivo uno schifo, così sono andato a trovarlo. Stavo già male prima di entrare in camera sua, poi fu ancora peggio”.

Mike Tyson aspettava quel momento da otto anni. Nel frattempo, si era conquistato la fama del nuovo Ali. Era una forza devastatrice, non c’era avversario che non venisse abbattuto, mandato ko nel giro di pochi minuti. Cus D’Amato era morto nel 1985 e non aveva fatto in tempo a vedere la gloria cui sarebbe arrivato il suo pupillo. Spesso avevano parlato di come sconfiggere Holmes, dalla notte in cui Mike l’aveva visto distruggere Ali: colpirlo con il destro dopo averlo attaccato con il jab. Dentro Tyson c’erano tutti i demoni che ne avrebbero agitato la vita. In quel momento, però, erano rinchiusi dalla sua fame di arrivare.
Si era preso il titolo mondiale della WBC nel 1986, mandando al tappeto Trevor Berbick, l’ultimo a sconfiggere un Ali crepuscolare. Dopo due riprese, Berbick fu annientato. Tyson aveva poco più di vent’anni: divenne, così, il più giovane campione dei massimi di ogni tempo. Dopo aver aggiunto la corona della WBA al suo corso d’onore e aver sostenuto una serie di incontri dominati, era arrivato il momento di mantenere la promessa che aveva fatto ad Ali: riprendersi quel che gli aveva tolto Holmes. L’occasione si presentò quando fu organizzata la sfida, il 22 gennaio del 1988, al Trump Plaza di Atlantic City.

Nel New Jersey, a bordo ring, c’era anche Muhammad Ali. La verità della narrazione vuole che prima dell’inizio del match si sia avvicinato a Tyson per ricordargli che cosa gli aveva promesso quel giorno d’ottobre del 1980: “Vai e prendilo”, gli disse, dopo essere andato al suo angolo, prima del gong. Già, e fu proprio così che andò. Holmes fu travolto dalla potenza dei pugni di Iron Mike, che lo spazzò via come se gli si fosse avventato contro un tornado.
Tyson, nella sua autobiografia “True”, racconta: “Battevo Holmes a ogni singolo round. Non si era allenato abbastanza, perciò aveva paura di tirare anche un solo colpo. Nel quarto round ero alle corde e l’arbitro chiamò un break. Un attimo dopo sferrai quella combinazione a due colpi di cui Cus parlava sempre. Bang, bang, e lui andò giù. Si rialzò, ma era provato. Avevo dovuto semplicemente toccarlo, e non servì nemmeno che lo raggiungessi al mento: stava già cadendo”. Holmes si rimette in piedi, ma è soltanto il principio della “vendetta”: “Poi commise l’errore di tirare un montante col quale rimase impigliato nelle corde e allora – bam – lo stesi. Provai ad aiutarlo, ma quelli del suo angolo non mi lasciarono avvicinare. Allora mi chinai su di lui e gli dissi: «Sei un grande pugile. Grazie». «Anche tu sei un grande pugile, ma fottiti». «Fottiti anche tu, figlio di puttana»”.
Sources & Credits
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23 settembre 2020
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