fbpx

La maledizione di New York

Nel 1973 i New York Knicks battono i Lakers aggiudicandosi il loro secondo e ultimo titolo NBA. Da quel momento il Madison Square Garden non sarà più lo stesso

Lo sport è fatto anche di maledizioni. Resta nella memoria collettiva quella lanciata da Béla Guttman contro il Benfica, con l’allenatore che, lasciando il club di Lisbona, disse che di lì in poi, non avrebbe più vinto una coppa internazionale.

Era l’1 maggio 1962 e quelle parole furono una funesta profezia di sventura per i portoghesi, che da allora hanno perso otto finali nelle competizioni europee. E che dire della “Curse of the Bambino”, piovuta addosso ai Boston Red Sox nel 1920, quando cedettero Babe Ruth (il Bambino, appunto), lanciatore da leggenda che passò ai New York Yankees. Da allora, Boston, che era stata una delle franchigie più di successo della lega del baseball, non conquistò alcun titolo.

Nel 1991, il giornalista Dan Shaughnessy scrisse un libro sull’argomento e la vicenda divenne epitomica. Ma il tormento di Boston svanì nel 2004, con il ritorno alla vittoria nelle World Series, di seguito ripetuta per altre tre stagioni. La maledizione si è infranta, cosa che non è accaduta per il Benfica. A sperare che sia così sono i tifosi di New York Knicks. Certo, attorno all’amatissimo club di basket della Grande Mela non aleggiano (almeno all’apparenza) lontani anatemi, però il tabù che li vuole privi dell’anello da quarantasei anni fa pensare che qualcuno gliel’abbia giurata.

Il coach era Red Holzman. In campo c’erano Willis Reed, il centro che teneva sveglia la città che non dorme mai, e con lui Earl Monroe, Black Jesus, il mito che ha segnato un’epoca. E poi anche Phil Jackson, destinato a diventare l’allenatore più decorato della storia dell’NBA, e Bill Bradley, formidabile campione, in seguito politico impegnato e a lungo senatore per i Democratici. All’inizio degli anni ’70, New York erano i Knicks. Quel nome era il riflesso di un’identità: contrazione di Knickerbockers, l’espressione che qualificava i primi coloni arrivati dall’Olanda, che portavano dei pantaloni arrotolati sotto al ginocchio, da cui derivò il nome.

Era la N.Y. del Kansas City Max’s, e del CBGB, ritrovi di musicisti, poeti, pittori, culle culturali di una realtà che era la capitale immaginaria – e per molti versi effettiva –del mondo. Ed era, poi, la New York del Madison Square Garden, l’epico impianto in cui giocavano in Knicks, e che aveva (e avrebbe sempre) ospitato grandi concerti, il punto d’approdo dei sogni. Il Garden si riempiva fino a stiparsi per le partite della squadra di Holzman.

Il fattore campo era determinante, il calore della gente al di fuori di qualsiasi possibilità di descrizione. Un anello nel 1970, un altro nel 1973, e in mezzo anche una finale persa con i Los Angeles Lakers. Le regole le dettavano i Knicks. Ma da quando New York abbatté proprio i Lakers, con un netto 4-1, per centrare il secondo titolo, le luci si spensero, e nessuno è più riuscito ad accenderle.

Eppure i Knicks hanno avuto dei grandi campioni. Per chi ha iniziato a seguire i “pro” NBA a metà anni ’80, dire New York fa rima con Pat Ewing, il pivot con il 33 sulla maglia che deliziava per l’atletismo, la potenza e l’agilità, il tutto condito da mani che assicuravano abbondanti bottini di punti. Sarà lui a condurre la squadra a giocarsi due finali, entrambe perse. Dolorosissima è la sconfitta del 1994, con gli Houston Rockets.

I Knicks sono avanti per 3-2 nella serie, con due partite che restano da giocare al Garden: basta vincerne una per trionfare. Con Ewing ci sono altri splendidi interpreti, dalla ringhiosa ala forte Charles Oakley alla fenomenale point guard John Starks. Pat Riley, l’uomo al timone, il costruttore dei Lakers dello Showtime. Non basta: raggiunti sul 3-3, i Knicks si arrendono per 90-84. I giornali titolano, affranti: “No N.Y., no N.Y.!”. Un grido di disperazione agonistica che si perpetuerà, per replicarsi cinque anni più tardi. In termini diversi, la profondità della sofferenza della New York del basket sarà la medesima, quando, raggiunte le Finals da totale underdog, la sfida con i San Antonio Spurs dovrà essere affrontata senza Ewing, fuori per infortunio, impossibilitato a presentarsi a un duello tutto fisico con i dilaganti lunghi degli Spurs, David Robinson e Tim Duncan.  Eppure quei Knicks avevano fatto ribollire il Garden come ai tempi più belli, con Holzman e Monroe e Reed, con l’incredibile ascesa attraverso i playoff, culminata con la vittoria nella finale della Eastern Conference con gli Indiana Pacers. Non era bastato: l’ultimo salto non ci fu. L’era di Pat Ewing svaniva. Le luci di New York erano rimaste spente.

A oltre vent’anni da quella sconfitta, i Knicks non si sono più ripresi. Anzi, il loro declino è desolante.  New York non si vede in post season dal 2013.

Sempre nel 2013 è stata l’unica occasione di questo lungo periodo in cui i Knicks siano riusciti a superare il primo turno dei playoff. Nel 2004 vennero eliminati dai New Jersey Nets con un secco 4-0, e lo stesso accadde nel  2011 con io Celtics. Nel 2012 andò meglio, si fa per dire: con i Miami Heat una partita la vinsero, per cedere 4-1. Un abbonamento alle umiliazioni.

Sembrano distanti secoli i tempi di Jeff Van Gundy, il coach che condusse New York alle Finals con San Antonio. Ma se il CBGB ha chiuso nel 2006, se il Kansas City Max’s non c’è più, significa che la maledizione è rimasta.

Prima o poi qualcuno la spezzerà, e quel giorno the Big Apple sarà di nuovo big anche nel gioco che ama di più: il basket.

Related Posts

Subscribe To Our Newsletter

You have Successfully Subscribed!

Share This