La fragilità di Josip Ilicic è quella di tutti noi

La depressione non deve essere un tabù, anche nel calcio
“La testa è una giungla, non è facile neppure per psicologi e psichiatri, figuriamoci per noi…”. Con queste parole Gian Piero Gasperini ha commentato, durante la conferenza stampa di sabato sera, la ricaduta del suo gioiello sloveno Ilicic negli oscuri meandri dell’incertezza e della vertigine mentale.
L’Atalanta e il suo allenatore si ritrovano, ancora una volta, a fare a meno del proprio faro mancino. Le trame dipinte sul prato verde dal 33enne fantasista ex Palermo si sono nuovamente scolorite di fronte a quello che, troppo spesso, risulta essere ancora un tabù per il mondo calcistico: la fragilità mentale.
“Nel calcio raccontare che si sta male è una specie di tabù. Siamo tutti uomini, vogliamo tutti avere successo, ma ci sono anche momenti in cui le cose non vanno come dovrebbero”, diceva Ricardo Kishna solo pochi mesi fa. L’eclettico centrocampista offensivo passato anche dalla Lazio aveva parlato pubblicamente della forma di depressione che stava combattendo, l’aveva fatto nel programma televisivo olandese ‘Andy Niet te Vermeijde’ (condotto da Andy Van der Meyde).

“So per certo di alcuni colleghi che devono prendere farmaci prima di ogni partita”, aveva aggiunto in quella testimonianza-fiume, mettendo a fuoco un problema troppo spesso snobbato da un mondo machista per definizione: un mondo in cui la stabilità psicologica è data troppo spesso per scontata, in cui la difficoltà interiore viene tacciata di eccesso di sensibilità, di tratto inaccettabile.
Perché ancora oggi, nonostante le tantissime situazioni analoghe a quella di Ilicic, la stragrande maggioranza dei calciofili esige che i propri idoli siano macchine perfette. I calciatori devono essere robot, statue invulnerabili, attori inscalfibili. Il tunnel della depressione è un lato oscuro non consentito a ‘bambini strapagati’ e ‘milionari viziati’, è una strada che non può essere percorsa da chi deve unicamente pensare a calciare un pallone.
“Come calciatore professionista ho sempre avuto la pressione di mostrare il lato migliore di me stesso, indipendentemente da come mi sentissi realmente. Ho sempre messo da parte le mie emozioni, accumulandole in tutti questi anni. Frustrazione, rabbia, delusione, tristezza, ho messo tutto da parte e sono andato avanti con la mia vita e la mia carriera. Dire ‘non mi interessa’ a te stesso è facile ed è quello che ho fatto troppo a lungo”, anche Gregory van der Wiel, esterno olandese che ha vestito la maglia, tra le altre, del Paris Saint Germain, ha da poco confidato di aver attraversato un momento buio della propria esistenza.
Frustrazione, rabbia, delusione, tristezza. La pelle e la mente di un calciatore non sono impermeabili a tutto questo. Tra cantere e settori giovanili vengono progettate per esserlo, ma la realtà individuale non sempre combacia con la volontà collettiva. Nel caso di Ilicic, per esempio, la realtà individuale è racchiusa in un male radicato in profondità: un sommerso formato da guerra e dolore, da lutti e paure.
Non è un caso che il primo crollo di Ilicic sia avvenuto in contemporanea con il tragico avvento pandemico nella terra bergamasca. Non è un caso che il secondo sia arrivato ora, connesso al deciso riaffacciarsi del virus. Fantasmi. Il calcio e la vita del geniale trequartista sloveno sono popolate da fantasmi: quelli di Prijedor, città bosniaca in cui nacque e da cui fu costretto a fuggire dopo la morte del padre, in piena guerra balcanica, quelli di Davide Astori, compagno di squadra a Firenze, e della sua assurda dipartita, quelli di Bergamo e dei bergamaschi piegati dalla voracità del mostro-Covid, quelli di una linfadenite, infiammazione ai linfonodi che lo fece preoccupare oltremodo.
“Ero preoccupato di andare a dormire e non risvegliarmi, di non riuscire a vedere ancora i miei cari”, rivelava Ilicic al media croato 24Sata poco dopo il suo primo periodo di lontananza dai campi. Un periodo che ora, purtroppo, si è nuovamente concretizzato.
La fragilità di Josip Ilicic è figlia di un’indefinita somma di dolori e complessità, di burroni e preoccupazioni. È l’imponderabile che si appropria del ponderabile. È la dolorosa dimostrazione che nulla è perfetto, anche nel magico universo calcistico. La fragilità di Josip Ilicic, in fondo, è la fragilità di tutti noi. Ed è giusto che lo splendente carosello calcistico rifletta su questo tema, senza evitarlo.
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