Joel Obi, la rivolta della saggezza

Impegno sociale e pacatezza, intervista al capitano del Chievo
Viaggiando si trova la saggezza. È questo tanto antico, quanto evocativo proverbio nigeriano a sferzare il volto e le opinioni di Joel Obi.
Una saggezza che il capitano del Chievo Verona pare aver trovato all’ombra della Diga scaligera: un equilibrio pacato e meditativo, il suo, come il fluire dell’Adige, come il fluire del gigante Niger, boomerang acquatico che lo vide partire in tenera età alla ricerca del suolo italiano.

Viaggiando si trova la saggezza, dunque. Scavando nella memoria, invece, si può trovare l’essenza di un giovane uomo. Quella di Joel sta più nel non detto che nella noiosa o, peggio ancora, iperbolica loquacità. Sta più nell’emozione gestuale, che nella parola di troppo.
In fondo è un pregio, l’introversione, una qualità ormai da troppi dimenticata, soprattutto nel glitterato e iperesposto mondo calcistico. Un’indole maturata dal centrocampista clivense sia nella Nigeria delle mastodontiche compagnie petrolifere, sia nell’Emilia delle minute coltivazioni.
“Sono nato a Lagos, in Nigeria, ma sono cresciuto in un’altra regione, quella del Delta (Delta State ndr). Della mia infanzia ho ricordi meravigliosi, ero un bambino nel vero e proprio senso della parola. Il mio microcosmo era legato al gioco: prendeva forma ovunque, tutti i giorni, davanti alle case dei vicini o sugli argini del fiume. Ero sereno, ero felice. A 9 anni sono partito per l’Italia insieme a mia madre e ci siamo stabiliti a Basilicagoiano, un piccolo centro abitato nella provincia di Parma. Arrivando qui ho incontrato una realtà diversa nel senso positivo del termine: banalmente in Nigeria ero abituato a vedere bambini scalzi, qui i miei coetanei erano sempre vestiti bene. Il mio pensiero immediato è stato: “Sono arrivato in paradiso”. Venire catapultato in una comunità con poco più di mille abitanti credo sia stata una fortuna, l’impatto con una grande città sarebbe stato alienante, complesso. A Basilicagoiano, invece, oltre ad un’ottima accoglienza, ho anche ritrovato lo scenario che mi aveva accompagnato nei primi anni nigeriani: una quotidianità simile, fatta di gioco e spensieratezza”


E a Basilicagoiano Joel comincia anche il proprio percorso calcistico, un percorso segnato dall’esempio delle ‘Super Aquile’, dalla generazione dorata che fece innamorare gli anni ’90 di un pallone alternativo, artisticamente tribale, colorato da pattern verde-brillanti e spregiudicate danze subsahariane.
Erano i Jay-Jay Okocha, i Taribo West, i Nwankwo Kanu. Erano le mine vaganti ed esotiche delle rassegne Mondiali. Erano icone da videogame, feticci da idolatrare, soprattutto per un giovanissimo trapiantato ad un continente di distanza dal proprio Paese d’origine.
Un’idolatria potenzialmente totalizzante, controllata e smorzata però da una madre attenta, dalla donna-matrona della famiglia Obi, che nel lungo viaggio verso l’Italia aveva intravisto il futuro accademico del figlio, prima che calcistico.
“Quando sentivo i nomi di quella Nigeria avevo i brividi, erano leggende. Ovviamente volevo diventare come loro, come Okocha, in particolare. Anche lui viene dallo Stato del Delta, anche lui viene dalla mia cittadina di Ogwashi. Alla mia prima convocazione in Nazionale non ho esitato: cantare l’inno a Lagos è stato il momento più significativo della mia vita. Rappresentare in campo la Nigeria vuol dire rappresentare una nazione che attraverso altri mezzi non può farsi vedere, ecco perché ha un valore unico. Da piccolo amavo giocare a calcio, ma allo stesso tempo andavo bene a scuola, era un qualcosa che dovevo a mia madre. Con lei ho un rapporto fortissimo ancora oggi. Ho perso presto mio padre e lei ha dovuto svolgere entrambi i ruoli genitoriali, è una grande donna. Da giovane non aveva potuto studiare, quindi si è impegnata in tutti i modi affinché potessi essere istruito, affinché potessi avere un futuro migliore e maggiori possibilità rispetto a quelle che aveva avuto lei. Quando venni chiamato dall’Inter ricordo che s’impose e bloccò il mio trasferimento a Milano: prima dovevo pensare a finire la terza media”
Un passaggio solo rimandato, quello alla corte di Moratti. A Interello il fresco liceale Obi trova una nuova casa: un Eldorado dove crescere come giocatore, entrando in punta di piedi tra i senatori dell’Inter mourinhana fresca di triplete, dove crescere come uomo, assorbendo i valori di chi in quello spogliatoio portava coscienza sociale, oltre che personalità sportiva.
“Giocare di fianco a centrocampisti come Thiago Motta e Dejan Stanković è stato altamente formativo, da loro provavo a rubare più dettagli possibili. Mi colpiva la loro inscalfibile tranquillità, l’innata capacità nel controllare le partite in entrambe le fasi. Con Eto’o, invece, ho costruito un intenso rapporto umano: un rapporto che mi ha permesso di crescere come persona. Sapevo di avere vicino una leggenda del calcio africano, ma non ho mai percepito il peso del suo status. Era il primo ad aiutare i giovani, a regalare scarpe, a comprare vestiti. Samuel è un uomo che ti fa stare bene. Ammiravo e ammiro tuttora il suo impegno all’esterno del campo, l’esporsi su temi rilevanti, il suo desiderio di aiutare la società”



Un mantra che Obi ha seguito anche di fronte ad uno spinoso e controverso caso di presunto razzismo, occorsogli lo scorso dicembre durante la partita tra Pisa e Chievo. “La rivolta degli schiavi”, questo il surreale costrutto che sarebbe echeggiato nel silenzio assoluto dell’Arena Garibaldi.
L’assurda frase, a detta di Obi e della società clivense, sarebbe stata pronunciata dall’avversario Michele Marconi per zittire le proteste del 10 gialloblù. Un episodio costato all’attaccante pisano un iniziale deferimento, respinto poi dal Tribunale Federale Nazionale per mancanza di prove, e ad Obi un periodo di profonda introspezione.
Uno shock difficile da realizzare e somatizzare, quasi passato in sordina in un primo momento, poi sfociato in una decisa presa di posizione da parte di tutta la società di Luca Campedelli e nell’abbraccio collettivo riservato dai compagni di squadra ad un affranto Obi.
“Quando ho sentito quella frase, la mia testa per qualche minuto si è chiesta se fosse vera. Ho continuato a giocare, ma mi sentivo da un’altra parte, non riuscivo a pensare alla partita. Era un qualcosa d’inaccettabile. È incredibile che una persona possa usare delle parole del genere al giorno d’oggi, soprattutto per quello che sta succedendo nel mondo, per gli sforzi che la gente sta facendo per debellare la ‘malattia’ del razzismo. Noi giocatori dovremmo solo dare esempi positivi. La Lega ha preso provvedimenti e ne sono felice, perché persone che formulano un pensiero del genere non possono stare nel mondo nel calcio: giochiamo a pallone, è vero, ma dobbiamo anche educare la gente che ci guarda, abbiamo la forza e gli strumenti per farlo”

Nessuna reazione scomposta, nessun gesto plateale. Nel marasma umorale toscano, Joel Obi è rimasto fedele al proprio equilibrio pacato e meditativo. Una rivolta, a modo suo. Una rivolta della saggezza.
Quella saggezza che permette al 29enne, ormai italiano d’adozione, di sentirsi pienamente soddisfatto. Soddisfatto della propria famiglia, popolata da tre figli; soddisfatto dalla propria presenza nella mediana clivense e dalla sua vita a pochi passi dall’Arena.
Prima di cominciare l’allenamento pomeridiano nel soleggiato Centro Sportivo di Veronello, Joel ci confida di poter ancora migliorare, di avere ancora tanto da dare. Ne siamo sicuri. Non solo calcisticamente.

3 marzo 2021
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