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Jimmy Butler, da senzatetto a signore NBA

Abbandonato dalla sua famiglia, dormiva sui divani di amici e conoscenti. Oggi domina le Finals. Questa è la storia di Jimmy ‘Buckets’

“I don’t like the look of you. You gotta go”

Non furono parole semplici, quelle ascoltate da Jimmy Butler ad appena 13 anni. Non furono parole semplici perché uscirono dalla mente e dalle fredde labbra di una madre stizzita, desiderosa di non vedere più il volto del figlio nella propria casa.

Fece i bagagli e se ne andò, Jimmy. Cominciò a vagare senza meta per le strade di Tomball, piccolo comune nel profondo Texas. Abbandonato, privo di un tetto e di punti di riferimento, affrontò l’ignoto e il dolore rifugiandosi nei propri silenzi.

All’epoca Butler non era una stella della palla a spicchi, anzi. Il Butler adolescente era un ragazzo esile, con una smodata passione per il football e la musica country, con una pesante storia familiare vissuta nel silenzio e nell’introversione. All’epoca Butler era un fantasma, un giovane senzatetto privo di appigli, con un passato e un futuro impossibili da immaginare.

“Non voglio che la gente provi pietà per quello che mi è successo. Non c’è nulla per cui essere dispiaciuti. Amo ciò che mi è accaduto. Mi ha reso ciò che sono. Sono grato alla vita per avermi messo di fronte a queste sfide”

Jimmy Butler NBA

Per mesi, anni, Jimmy Butler scivolò da un divano ad un altro, sfruttando l’ospitalità di compagni di liceo e amici di quartiere. Un errare coraggioso, vorticoso, senza meta. Restio dal divulgare qualsiasi informazione riguardo i propri incubi adolescenziali, nel parquet trovò il suo posto speciale: un eremo appartato, un luogo di culto dove riversare ansia e amarezza, dove potersi concentrare sul singolo giorno, sul singolo allenamento, sul singolo gesto tecnico.

“Nella testa della gente non avrei potuto aiutare una squadra NBA a vincere delle partite, non avrei  potuto diventare un All-Star. Ma l’ho fatto. Ognuno ha la propria storia. La mia è diversa. Ma non credo che sia più importante di quella di chiunque altro. Io lavoro. Quando lavori, accadono cose belle”

Lavorò e crebbe, Jimmy. Cominciò a dominare il panorama delle high school texane e proprio grazie al basket, appena prima della sua stagione da senior, trovò la sua seconda famiglia. Bastarono poche parole e una scanzonata gara di tiro, bastò un sorriso rivolto a Jordan Leslie, suo concittadino di qualche anno più giovane, bastarono alcune serate trascorse davanti ai videogame, davanti agli occhi compassionevoli di Michelle Lambert, madre di Jordan e di altri sei figli. Venne accolto in famiglia senza badare ai problemi economici e agli equilibri casalinghi. Gli vennero avanzate alcune semplici richieste: nessun problema, nessun atteggiamento negativo e voti alti. Butler acconsentì.

Ricominciò così la vita di Jimmy Butler. Una vita che l’avrebbe condotto da totale sconosciuto, dopo un anno di junior college, nella prestigiosa Marquette University. Una cavalcata umana e sportiva, che l’avrebbe portato alla laurea in Giornalismo e alla scalata ai vertici NBA.

“Per tutta la vita, la gente ha dubitato di me. La gente al liceo mi diceva che ero troppo basso e non abbastanza veloce. Nessuno conosceva la mia storia. Perché avrebbero realizzato che, in fondo, tutto è possibile. Chi avrebbe potuto pensare che un ragazzino come me potesse diventare una star NBA. So di poter superare qualsiasi cosa”

Oggi Jimmy Butler è l’anti LeBron, l’unica speranza per degli Heat in ginocchio, trascinati dalla fame agonistica del texano che fu senzatetto. Oggi Jimmy Butler è simbolo di chi può e deve nutrire speranza nelle avversità. Oggi Jimmy ‘Buckets’ è un uomo in missione, come tanto piace dire alla stampa americana, un uomo alla ricerca della definitiva consacrazione su quel parquet a cui deve tanto e a cui, tra giocate clutch, immensa sfrontatezza e infinita etica lavorativa, continua a donare tutto sé stesso.

Redazione

6 ottobre 2020

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