Competizione e socialità, individualità e collettività. Grazie a Karhu abbiamo scoperto un evento unico, i WMA

Il brusio e il silenzio. La gioia e la delusione. Lo spettro sociale dei World Masters Athletics è direttamente proporzionale a quello emotivo. Nella festa sportiva finlandese di Tampere, l’equilibrio tra il risultato sportivo e il rapporto umano assume dei connotati che non hanno eguali, che non hanno paragoni. Bastano alcune diapositive, alcune immagini per riassumere quanto andato in scena tra il 29 giugno e il 10 luglio nei pressi del Ratina Stadium.

Lo scambio di opinioni e di gesti tra un decatleta finlandese di 60 anni e un diretto avversario cileno dopo un salto sbagliato. L’abbraccio tra un 50enne duecentometrista indiano, arrivato ultimo ad oltre 8 secondi di distacco dal primo classificato, e un avversario di Trinidad and Tobago disteso a terra dopo una coraggiosa e vana progressione finale. Il massaggiatore della delegazione spagnola impegnato nello sciogliere l’acido lattico di uno sprinter portoricano di 76 anni che, a sua volta, lo omaggia del racconto della propria vita. E ancora. La chiacchierata al chiaro di luna (anche se di luna non si può parlare, viste le 20 ore di sole scandinavo) di un gruppo di atleti misti, per età e provenienza, in uno dei bar affacciati sullo scuro canale Tammerkoski.

“Il World Masters Athletics unisce due componenti fondamentali”, spiega lucidamente la presidentessa WMA Margit Jungmann, “da un lato abbiamo lo sport, la competizione, il desiderio di porsi un obiettivo, perseguirlo e vederlo concretizzare in un evento di portata mondiale. Dall’altra abbiamo la componente sociale, la volontà di incontrare altre culture, di entrare a far parte di una community fondata su un’enorme passione condivisa: l’atletica”. Impossibile darle torto.

Per comprendere l’importanza e l’eccezionalità di questa manifestazione, immaginate il concetto di ‘limite’ e cancellatelo dalla vostra mente. Uomini e donne al di sopra dei 35 anni di età che si sfidano nelle più svariate discipline atletiche divisi in categorie: la prima dai 35 ai 40 anni, l’ultima over 100. Non c’è limite al processo di miglioramento. Che sia esso fisico o mentale. Non c’è limite alla ricerca del proprio personal best. Che tu abbia appena superato la soglia dei 40 anni o ne stia per compiere 90. Non c’è limite all’idea di rivoluzione, di cambiamento personale. Che tu sia un ex atleta olimpico o un novizio della pista.

Nel nordico Paese che diede i natali alla generazione dorata dei ‘Finlandesi Volanti’, mezzofondisti rivoluzionari degli anni ’20, guidati dal pluricampione olimpico Paavo Nurmi, lo sforzo sportivo ha trovato altri significati: quello di resilienza, quello di eternità, quello di individualità trasformata in collettività, e viceversa. Il risultato è una parte del processo, insegnano questi atleti: è una parte rilevante, sia chiaro, ma non totalizzante.

Lo può spiegare Annie Dorina, 65enne francese madre ed ex manager, che per oltre vent’anni ha dovuto abbandonare le piste seguendo il corso della vita e che a 53 anni ha iniziato a dedicarsi al salto triplo, disciplina che non aveva mai potuto svolgere in giovane età a causa di stereotipi e preconcetti di genere. Lo può spiegare Pei-Jung Huang, 48enne R&D manager che utilizza il decathlon per incamerare il maggior numero d’informazioni e trasmetterle, attraverso l’esempio, alle nuove generazioni di Taiwan. Lo può spiegare Ivan Gonzalo Ortiz, 76enne sprinter portoricano, giunto dall’altra parte del mondo unicamente per omaggiare la memoria del defunto padre-atleta.

Risultati che diventano storie. Storie che diventano risultati. Grazie a Karhu, sponsor ufficiale dei World Masters Athletics di Tampere, abbiamo avuto modo di scoprire un universo colorato di testimonianze, sacrifici e ideali, un universo composto da infiniti microuniversi personali, tutti egualmente importanti, tutti egualmente significativi. I profili che abbiamo raccontato e che continueremo a raccontare sono le stelle più o meno consapevoli, la parte pulsante, il manifesto dei WMA. Ecco il perché del claim condiviso con Karhu ‘Every Runner’s Rights’, ecco il perché di un’indagine che sa di essere sportiva, ma soprattutto antropologica e sociale.