“Io, Tevere – Le radici del mare”, Marco Spinelli e Roberto D’Amico spiegano perché un fiume leggendario può sensibilizzare tutti noi
Il Tevere come metafora del nostro Pianeta. Il Tevere come metafora di noi stessi. Nei 405 chilometri del fiume simbolo della civiltà romana è racchiusa l’essenza del più tragico problema contemporaneo, il rapporto tra essere umano e natura. “Io, Tevere – Le radici del mare” è il pellegrinaggio acquatico di Marco Spinelli e Roberto D’Amico, uno short docu che percorre l’intera lunghezza di questo fiume leggendario, esplorandone splendori e miserie, e arrivando a scoprire quanto, effettivamente, l’uomo abbia inciso e stia continuando a incidere sulla sua identità. Cavalcando per diversi tratti i propri SUP, Marco e Roberto sviluppano un dialogo su due livelli, attorno a cui ruota l’intera pellicola: il primo è mentale, plasmato da riflessioni e testimonianze, il secondo è sensoriale, prodotto dalle incongruenze tra sublimi scenari incontaminati e angoli abbandonati alla degenerazione umana. Questo duo di creativi, attivisti e sportivi acquatici ha deciso di dialogare anche con noi, presentando il film in concorso alla kermesse veneziana dell’ONA Shortfilm Festival, raccontandoci le ragioni alla base di questa virtuosa produzione.



Come nasce “Io, Tevere” e cosa vuole raccontare?
Marco Spinelli: “Io e Roberto ci siamo conosciuti due anni fa, ho subito scoperto il suo impegno nella tutale di mari, e lui è venuto a conoscenza delle mie attività relative alla pulizia dei fondali. Siamo entrati immediatamente in connessione. Roberto mi ha raccontato di quanto fosse difficile surfare a Ladispoli, a causa dei tanti rifiuti portati dal Tevere. Così abbiamo inizialmente pensato di organizzare un evento di clean up, ma a distanza di poco tempo ha preso forma nelle nostre menti questo tipo di viaggio. Ho un fratello biologo marino e spesso mi confida che temi interessanti, legati alla tutela acquatica, decadono perché vengono spiegati in maniera troppo complessa. Noi abbiamo deciso di provare a sensibilizzare divertendoci, utilizzando un lessico semplice e genuino. Essere spontanei non vuol dire sminuire i problemi del Tevere e del nostro Pianeta, vuol dire riuscire a comunicare ad un pubblico più ampio, che può riuscire a comprendere con maggiore facilità la voce dell’ambiente”
Roberto D’Amico: “Il Tevere è una cosa che tutti noi pensiamo di conoscere, eppure nessuno conosce veramente questo fiume. Noi abbiamo provato a raccontarlo. Personalmente l’ho sempre associato all’inquinamento, invece lungo il tragitto mi sono dovuto ricredere, ho trovato dei luoghi bellissimi e degli scenari naturali mozzafiato. Allo stesso tempo ho vomitato in centro a Roma, annusando la puzza dell’acqua mentre raccoglievo il relitto di una bicicletta dalle sue profondità. Ho vissuto sensazioni altalenanti, arricchite dalle persone che abbiamo incontrato durante il viaggio: figure che vivono e proteggono quotidianamente il Tevere. Questo fiume è una metafora, rappresenta tutto: Venezia, il Po’, l’Adriatico, gli oceani… Abbiamo voluto raccontare le sue condizioni con naturalezza, provando a raggiungere incisivamente le nuove generazioni e a farle riflettere. In generale abbiamo deciso di essere semplicemente noi stessi”
Il vostro viaggio è avvenuto per lunghi tratti su una tavola da SUP. Che ruolo gioca l’elemento sportivo nella vostra opera di comprensione, tutela e valorizzazione delle acque?
M: “Arrivo dal mondo della subacquea e delle immersioni. Nel tempo queste passioni mi hanno permesso di mostrare agli altri cosa vedo sott’acqua… Lo sport, quindi, è stata una base fondamentale per poter raccontare. Se noi non viviamo e non facciamo vivere in prima persona l’inquinamento dei nostri mari e dei nostri fiumi, a rimanere saranno solo le parole. E le parole, purtroppo, non bastano. Io e Roberto siamo accomunati da questa voglia di sporcarci le mani e fare fatica per condividere tematiche rilevanti. Siamo due persone normali, che vogliono imparare dalle proprie esperienze, sperando che quelle stesse esperienze possano sollevare domande anche in chi segue e crede nella nostra visione ambientale”
R: “Lo sport è stato il mezzo che ha dato credibilità al mio impegno ambientale. Il surf mi permette di vivere quotidianamente all’interno dell’universo acquatico, per questo i miei interlocutori ritengono affidabile il mio punto di vista. Quando sei in simbiosi con il mare tutti i giorni della tua vita, sai di quello che parli. Ed è impossibile pensare che al giorno d’oggi tutto vada bene: mari, fiumi e oceani versano oggettivamente in condizioni drammatiche. Il background sportivo ti dà anche concretezza, ti spinge ad affrontare sfide e a condividerle con altre persone. Mi piace pensare all’ideale di surfista, ovvero ad un essere umano che aiuta il mare, e vorrei che quell’immagine rimanesse tale grazie al mio impegno. Inoltre lo sport ti consente di maturare prospettive diverse su ciò che ti circonda: durante il viaggio ho pensato spesso che tante zone abbandonate o degradate del Tevere potrebbero tornare a vivere grazie ad attività e progetti sportivi. D’altronde se vivi realmente un luogo, è logico che poi tu voglia proteggerlo…”



Quali sono le immagini e i momenti manifesto di “Io, Tevere”?
M: “Sono immagini e momenti contrastanti. In senso positivo menzionerei le Gole del Forello, in Umbria, dove ci sembrava di essere dispersi in qualche incontaminata regione americana. In senso negativo il centro di Roma e lo scenario catastrofico del Tevere metropolitano. Mi ha colpito particolarmente questo assurdo contrasto tra la meraviglia della Capitale e la sua discarica acquatica”
R: “All’inizio del viaggio ho riempito la borraccia con l’acqua del Tevere e l’ho bevuta. Era perfetta. A Roma invece sono stato male, l’odore del fiume era rivoltante e c’erano montagne di rifiuti sparse ovunque. L’inquinamento non nasce da solo, è una conseguenza, e queste due immagini antitetiche spiegano come l’uomo sia la causa di questa degenerazione”
Non ci rendiamo conto di quanto in realtà facciamo parte di questo Pianeta”. Possiamo dire che questa sia la frase chiave del vostro documentario? È anche il messaggio che state provando a diffondere e che condividerete con il pubblico di ONA?
M: “Spesso ci sentiamo dire che l’essere umano è ospite del mare e della Terra. Ma non è così, è una concezione sbagliata, perché non fa altro che alimentare il distacco dalla Natura. È logico, poi, che le persone facciano fatica a comprendere che tutto è collegato e che ogni azione umana si riflette inevitabilmente sull’ambiente. Il mare, per esempio, inizia in città. La sua salute inizia dalla città. È fondamentale creare una coscienza collettiva: dobbiamo essere consapevoli dell’importanza del nostro comportamento e dobbiamo modulare le nostre azioni, pensando che incideranno sul Pianeta, sugli animali e su noi stessi. Progetti come “Io, Tevere” vogliono comunicare questi concetti e ricomporre la frattura tra umanità e ambiente: un processo che deve cominciare dalle nuove generazioni”
R: “Non importa di che tipo di acqua si parli. Può essere dolce o salata, calda o fredda. L’unico dato di fatto è che il mondo è uno solo e attualmente le sue acque stanno soffrendo. Nella memoria di alcuni anziani il Tevere è stato l’equivalente di Miami Beach, un contesto vissuto, popolato e protetto. Ora non è così, e quando dimentichi qualcosa, non sai che fine può fare… Per questo motivo abbiamo deciso di creare un documentario fatto da giovani per i giovani, sempre per questo motivo stiamo presentando il film nelle scuole o in speciali eventi come ONA. “Io, Tevere” è stato anche uno spunto, io e Marco stiamo pensando ad una serie di nuovi progetti sinergici, ma prima vogliamo concentrare le nostre energie nel diffondere questo documentario e il suo messaggio”

Credits: FACE / ONA Shortfilm Festival
Text by: Gianmarco Pacione