Dal Roland Garros ’83 al microfono. Grazie a Le Coq Sportif siamo entrati nel magico mondo di un mito del tennis divenuto cantante di successo
“Non si può separare la musica dal tennis. Non si può, perché sono profondamente connessi. C’è sempre ritmo in quello che fai, soprattutto se sei un tennista o, in generale, un atleta di primo livello. C’è ritmo nel modo in cui respiri, nel suono dei tuoi passi quando giochi sulla terra rossa, quando vai a rete. Chiudi gli occhi e prova ad immaginare quei suoni… Sono dei ta-ta-ta, sono le scarpe che scivolano… In campo il ritmo continua ad essere parte di te, a partire dal battito del cuore”
Yannick Noah muove prima delicatamente, poi incisivamente le mani mentre immagina accordi e note vissute sottorete. Pare parlare di spartiti, più che di campi centrali. Pare parlare di chiavi, più che di volée. È ancora alto, sorridente e affusolato, nonostante i 62 anni da poco compiuti. Sul balcone dell’Aspria Harbour Club, alle porte di Milano, propaga folate di Marlboro Gold e mistica gentilezza, lasciando fluire pensieri e associazioni illuminate, spargendole davanti a meravigliati ascoltatori.
Da tempo, ormai, l’intramontabile uomo simbolo e ambasciatore di Le Coq Sportif ha deciso di cambiare impugnatura, dedicando il suo esotico estro al microfono: una transizione epocale, che l’ha inaspettatamente condotto sulle vette di chart internazionali e classifiche Spotify. I suoi brani dalla chiara indole reggae, lanciati nel lontano 1991 con il primo album ‘Black and What!’, parlano di positività e bellezza, di condivisione e umanità, soprattutto di libertà. La stessa libertà teorizzata dal suo spirito guida Bob Marley.
“Ho appena concluso il tredicesimo album. La mia volontà è quella di essere sempre reale, onesto nei miei confronti e nei confronti di chi mi ascolta. Quando ho iniziato a cantare, probabilmente il 99% delle persone ha pensato che fosse una follia. Spesso, però, non si realizza quanto sia importante ascoltare la propria anima, le sue necessità. È successo tutto per caso, a inizio anni ’90, quando mi sono ritrovato dentro uno studio di registrazione e un cantante non si è presentato. Quel giorno ho iniziato a giocare un po’ con le parole e mi hanno subito chiesto di proseguire, poi mi hanno registrato e poche settimane dopo stavo girando il videoclip della mia canzone d’esordio. Dopo il tennis avrei potuto intraprendere una lunga serie di strade canoniche: aprire un negozio specializzato, fare solamente l’allenatore o il commentatore… Ma il mio istinto mi ha spinto a fare un qualcosa che mi avrebbe aiutato come essere umano. E la musica era quel qualcosa”

La musica come voce interiore da ascoltare in loop durante allenamenti e finali, come colonna sonora che, implicitamente, scandisce imprese e fallimenti. La musica come vocazione, come essenza, come centro gravitazionale. Noah ci fa intendere tutte queste sfaccettature, ci fa intendere come le note abbiano sempre fatto parte della sua vita: appigli melodici capaci di mutare nel tempo e nello spazio, di accompagnare prima l’esaltazione, la concentrazione, l’introspezione, poi la personale liberazione. Saltando di capitolo in capitolo, di esperienza in esperienza, il nativo di Sedan sottolinea con trasporto le infinite funzioni di questa forma d’arte, concentrandosi sulla più rilevante: quella terapeutica.
“La musica mi ha dato la libertà. Ho lavorato per anni con psicologi che mi hanno instillato i concetti di forza, potenza, aggressività e killer instinct: fattori fondamentali per poter essere un atleta di alto livello. Quando finisci la carriera sportiva, però, questi punti di forza si tramutano in debolezza, in negatività. Durante quella transizione la musica mi ha salvato. Davanti alle note, linee e restrizioni sono magicamente svanite, ho capito immediatamente di poter essere sensibile, debole, di poter esitare e piangere. Quando ero un giocatore la maggior parte della mia vita era rock, in campo dovevo essere Mick Jagger e gli Stones, gli AC/DC e gli Who, dovevo convogliare nella racchetta quell’energia. All’epoca avevo una relazione profondissima con le mie cassette, ascoltavo musica di continuo. I vari tornei coincidevano con enormi momenti di solitudine, spesso ero malinconico, mi sentivo distantissimo dalla famiglia, dagli affetti… La musica era la mia compagna di viaggio, mi teneva in vita. Poi il rock è diventato reggae, è diventato lo studio dei testi, delle parole, e dal nulla si è spalancato tutto“
Un tutto che Noah ha fatto proprio, colorandolo di radici culturali e affettive, di Francia e Camerun, di emozioni tenute recluse troppo a lungo, imprigionate davanti a milioni di spettatori che osservavano i suoi dread modernizzare il tennis. L’importante è trovare sempre una prospettiva positiva, è unire, afferma estaticamente il nativo di Sedan, è divulgare un amore che vuole essere paradigma collettivo per un nuovo, utopico mondo: una realtà contemporaneamente vicina e distante, a cui i suoi testi fanno spesso riferimento.
“Le mie radici sono in Francia e in Camerun. Due Paesi diversissimi tra loro. Sono cresciuto in una famiglia unica: mio padre era un simpaticissimo calciatore africano, mia mamma una bianca filosofa europea. Vedevo quanto si amavano, quanto erano legati, come condividevano lo stesso humour, lo stesso approccio ad un mondo esterno che non li vedeva di buon occhio. Questo amore mi ha fortificato, nel tempo mi ha fatto capire che il mio ruolo doveva essere quello di comunicatore: dovevo far capire alle persone che va bene essere differenti. Parlo del colore della pelle, delle caratteristiche dei corpi, dei luoghi di nascita… Io per esempio sono sempre stato un bianco in Africa e un nero in Europa, ma ho sempre vissuto bene questa duplice condizione, perché ero circondato dall’amore. Non è un caso che la mia prima canzone parli proprio di questo: del rapporto tra Yaoundé e Parigi, della possibilità di far convivere in armonia queste due città, questi due popoli, questi due continenti. Nella mia visione fa tutto parte di un grande, virtuoso processo”
E il processo formulato da Noah continua a pulsare, vitale e incisivo, come il suo tennis, come le sue parole. È una scalata ideologica, cominciata con l’esempio pratico, con il Roland Garros dell’83 e altre decine di tornei dominati fluttuando tra fondo campo e rete, con il polsino verde-rosso-giallo ad asciugare sudore e pregiudizi. È una marcia pacifista, composta da passi rimati e ponti vocali, destinata a proseguire e ad attecchire chissà in quale palco, in quale nazione, in quale individuo. È un melodico appello al cambiamento, che non vuole obbligare ma consigliare, che non vuole forzare ma ispirare.
“Ho fatto concerti di fronte a 50, 100 persone. Molti si chiedevano il perché. Per loro non aveva senso che cantassi di fronte ad amici e parenti, quando potevo fare match di esibizione davanti a migliaia di spettatori. In realtà tutto aveva senso, la mia vita aveva senso. Sentivo di essere uscito dalla monodimensionalità sportiva. Sentivo che ripartire da zero mi avrebbe permesso di essere ancora più vero nel mio approccio alla musica. Potevano mancare microfoni e elettricità, eppure mi veniva naturale dare un preciso significato a tutto: si trattava di una forma di preparazione, di purificazione, che adesso mi permette di essere un artista credibile, di cantare negli stadi, di far capire ai miei ascoltatori che amo quello che faccio. Lo amo visceralmente. Mi sono sempre detto che non importa vendere diecimila dischi o venderne un milione. Per me conta condividere pensieri, messaggi, emozioni. Per me conta condividere la libertà che mi ha donato la musica”
Testi di Gianmarco Pacione
Le Coq Sportif
DMTC