Lo svizzero che, grazie alla bici, associa vette e minimalismo, introspezione e architettura

“Cerco le aree remote del mondo: luoghi dove posso sentirmi solo, dove si annullano distrazioni o restrizioni, dove a sostenermi è semplicemente la natura. In questi scenari vengo inondato da infiniti stimoli, tutto risulta molto più saturo. Conquistare una montagna, poi, è un qualcosa di estremamente potente, arrivare in cima grazie al proprio corpo e all’aiuto della bicicletta è estasiante”. La voce di Patrick Seabase pedala tra forza metaforica e capacità di suggestionare, ci spinge in luoghi reconditi, ci permette di esplorare universi ibridi, esteriori ed interiori, tangibili e intangibili.

“Più vai in bici, più la relazione con questo elemento diventa intensa. Credo sia un paradigma valido per qualsiasi passione, come dipingere o suonare uno strumento. È un processo graduale, che senti evolvere nel tuo subconscio”. Per questo ultra atleta svizzero la relazione con la bici rappresenta ben più delle imprese sportive, delle moderne chanson de geste che negli ultimi anni è riuscito ad ideare e completare sulle strade di mezzo mondo: sfide epiche, che hanno portato le sue gambe a dominare sublimi dislivelli e infinite ultramaratone su due ruote.

Il suo modo di intendere la bici pare una corrente filosofica privata, personale, uno studio introspettivo della sfida atletica, dell’impresa eccezionale che sfocia in appassionata rievocazione storica, in erudita disamina antropologica. “La long ride a cui sono più affezionato è quella che ho effettuato replicando una tappa del Tour de France 1910. Amo i pionieri, amo la loro capacità di raggiungere l’impensabile, il loro pragmatismo, il loro modo di apparire. I moderni ciclisti non riescono ad ispirarmi come queste figure leggendarie. Allo stesso tempo la bici permette di alimentare la mia sfera culturale. Sono affascinato in particolar modo dall’architettura, dall’ingegneria civile, dai ponti e dalle strade. Pensate per esempio alla transizione di una strada antica verso l’asfalto… Quell’elemento diventa simbolo di un processo enorme: la civilizzazione”.

Sociologia e minimalismo, conoscenza e sforzo. Chiacchierando con Patrick il ciclismo si trasforma in polo attrattivo delle più disparate tematiche: componenti che formano coscienza e intelletto, che obbligano a riflettere sulla propria condizione umana e professionale. “Non mi vedo come un ciclista. Non faccio parte di alcuna scena, mi sento molto ‘by myself’, vado per la mia strada senza giudicare nessuno. Molte delle cose che faccio sono underground e poco commerciali: è difficile mantenere un equilibrio tra questi due poli, perché più una cosa è commerciale, più si perde il controllo creativo su di essa. E fatico a convivere con questo compromesso. Dopo anni passati sulla bici, mi sono reso conto che la mia passione si stava trasformando unicamente in lavoro e negli ultimi mesi ho deciso di prenderne le distanze. A volte devi allontanarti dalla cosa che ami per ritrovare la vera passione, la vera fiamma dentro di te”.

E allontanarsi da una cosa vuol dire anche poter avvicinarsi ad un’altra. Patrick ha avuto modo di farlo con l’arte fotografica: strumento fondamentale per una necessaria evoluzione personale e per porre l’attenzione su un nuovo progetto, distante da pedali e manubri. “Durante la pandemia ero bloccato in America con un telaio rotto. Così ho iniziato a fare lunghe escursioni e a fotografare. Concentrarmi sulla fotografia, che pratico da oltre vent’anni, mi ha permesso di maturare una nuova prospettiva su ciò che mi circonda e su me stesso. Ho capito che anche altre cose, oltre alla bicicletta, mi possono rendere felice, che più della stabilità economica, oggi, è più rilevante chi sia io come essere umano. Per questo motivo ho deciso di dare vita ad un nuovo progetto: una piattaforma che mi permetterà di raccontare cosa mi ispira, cosa mi affascina. Ne saprete di più presto”.

Photo by Phil Gale
IG 1_in_the_gutter
Athlete Patrick Seabase
IG @patrickseabase
Testi di Gianmarco Pacione