Intervista al più grande pugile della storia afgana, al volto sportivo della lotta ai talebani

“Molti pensano che sia solo un problema afghano, se ne lavano le mani, voltano le spalle ad un popolo che ha paura, che davanti a sé vede solo l’oscurità. La situazione è tragica. L’Afghanistan è uno dei Paesi più giovani al mondo, le nuove generazioni subiranno un costante lavaggio del cervello perpetrato da folli, da terroristi con le mani sporche di sangue. Diventerà un problema globale, lo sta già diventando, eppure tutti restano immobili”

La voce infuocata, palpitante, di Hamid Rahimi ci raggiunge dall’anseatica Amburgo. Le sue parole si muovono veloci, impossibili da schivare, paiono una pianificata sfuriata all’ultimo round, una tanto imprudente, quanto debordante combinazione inferta all’angolo ad un avversario impossibile da fronteggiare, da sconfiggere.

Hamid è il più grande pugile della storia afghana, a testimoniarlo un titolo Intercontinentale WBO dei pesi medi in bacheca e una carriera in grado di spalancare le porte degli sport da combattimento a migliaia di suoi connazionali; Hamid è, con ogni probabilità, il più celebre atleta generatosi ai piedi dell’aspro Hindu Kush

La sua testimonianza è quella di un emigrato profondamente connesso alla terra natia, di un uomo che in Germania ha trovato fama e gloria pugilistica da esule, attendendo la serenità del proprio Paese, sperando in una stabilità socio-politica che mai come oggi sembra distante ed evanescente.

“L’Afghanistan significa moltissimo per me. Sono nato a Kabul nel 1983, nel cuore della guerra, a otto anni ho visto morire il mio migliore amico a causa di una bomba: per l’esplosione sono stato ricoverato otto mesi in ospedale. Poco tempo dopo, nel 1994, ho lasciato il Paese con la famiglia. Ci siamo stabiliti ad Amburgo come rifugiati, attendendo a lungo che quella drammatica parentesi finisse, salvo poi vederne iniziare un’altra. In Germania ho portato la guerra dentro di me, per questo sono finito in un carcere minorile. Lì ho scoperto la boxe, la migliore delle terapie, e ho trovato la pace”

Una pace che Hamid ha provato ad esportare nella sua terra, utilizzando la nobile arte come mezzo per unire e ispirare.

Le sue due più grandi intuizioni, vere e proprie creazioni personali, sono state il match titolato contro il tanzaniano Said Mbelewa, primo incontro professionistico di boxe organizzato sul suolo di Kabul e dell’intero Afghanistan, e un’associazione, la ‘Fight 4 Peace’, impegnata da anni nell’allevare a bordo ring ragazzi e, soprattutto, ragazze afgane.

Scelte invise a coloro che nelle ultime settimane hanno preso controllo del Paese sventolando vessilli bianchi. Scelte che hanno portato a minacce di morte, ad attentati materiali a cui Hamid è sempre riuscito a scampare, e ad un odio viscerale nutrito nei suoi confronti dalle frange estremiste.

“30 ottobre 2012, per una notte in Afghanistan non ci sono state bombe e armi, gli occhi di tutti erano concentrati oltre le quattro corde. Una notte magica, che ho desiderato con tutto me stesso. Volevo combattere davanti alla mia gente, volevo dimostrare che anche a Kabul i sogni si possono realizzare. È fondamentale che i ragazzini abbiano degli idoli, soprattutto in un Paese come il nostro. Se hai degli idoli ti poni degli obiettivi e gli obiettivi impediscono agli altri di corrompere la tua mente. All’epoca potevo combattere in Germania e ovunque nel mondo, potevo guadagnare molto, ma i soldi non sono tutto. Organizzare l’evento è stato estremamente complesso: in tantissimi sostenevano che fosse impossibile per questioni di sicurezza, per il pericolo talebano, per l’improbabile presenza di un avversario e di un arbitro… Io sono andato in tv, mi sono esposto, ho dialogato con eserciti e governi, e ho dimostrato che si può essere forti anche senza armi: basta sollevare una cintura al cielo. Poco dopo ho dato vita al progetto ‘Fight 4 Peace’, una chiara dichiarazione politica e sociale. Nelle palestre F4P non ci sono differenze di sesso, di etnia, di religione, in breve tempo ci siamo espansi in tutto il Paese e oggi molti miei collaboratori rischiano di essere uccisi. Io stesso sono stato vittima di svariati attentati nel recente passato…”

Se si sfiora il tema della morte, dell’effettivo pericolo corso da Hamid nell’esporsi apertamente su temi così delicati, l’ex campione intercontinentale fa un intenso sospiro, fa appello alla fede. Parla di un utopico futuro costruito all’esterno del Paese da probi viri emigrati come lui, uomini e donne cresciuti in Europa umanamente e professionalmente, rimasti legati però alla propria patria in maniera indelebile.

“Credo in Dio e so bene cosa si vive in guerra, so cosa si prova quando si è disarmati sotto tutti i punti di vista, quando nessuno si fa avanti per aiutarti. Un giorno morirò. Se avessi paura, però, morirei ogni giorno. Per questo in televisione e sui social descrivo il vero volto dei talebani, la loro ideologia tesa unicamente al guadagno economico, distantissima dai precetti religiosi che ipocritamente professano. Non c’è nulla di democratico in loro, mai ci sarà. Io non mollo, nella mia testa la situazione è destinata a cambiare, proverò io stesso a cambiarla, ad esempio già nelle prossime settimane tornerò a Kabul. Faccio parte di un gruppo di emigrati che vogliono costruire l’Afghanistan del futuro, siamo costantemente in contatto: sono professionisti tedeschi ed europei che, come me e come tantissimi nostri connazionali bloccati in patria, non accettano il regime talebano. Ora abbiamo bisogno di un aiuto esterno per concretizzare le nostre idee e, con ogni probabilità, saremo costretti a vivere l’orrore di una guerra civile”

Quando ragiona su un potenziale aiuto esterno, Hamid lo fa con estrema cautela, criticando la gestione dell’ultimo decennio di missione congiunta tra ONU e USA, evidenziando proprio nell’incapacità di comprendere e supportare il lato buono dell’Afghanistan la causa magna dell’ultima spirale d’inattesi eventi.

Critiche fondate, seguite da un appassionato e lancinante monito rivolto alla coscienza occidentale, una coscienza sopita troppo rapidamente.

“I Paesi occidentali non hanno abbastanza esperienza per comprendere la tradizione e il pensiero afgano. Hanno investito miliardi e, contemporaneamente, hanno sempre appoggiato i politici sbagliati: anche personaggi con chiare derive razziste. Hanno emarginato il governo nazionale, l’hanno relegato in un angolo, privandolo di potere decisionale e autonomia. I ventenni di oggi, che nel 2001 erano appena nati e che avevano solo sentito parlare dell’ombra talebana, ora sono nel panico più totale. Cambierà tutto: l’istruzione, la libertà personale, la condizione delle donne. Ecco spiegate le scene degli aerei in partenza da Kabul, ecco spiegata la mia, la nostra urgenza di risollevare le sorti dell’Afghanistan. Ricordo a tutti che i talebani hanno in mano un Paese grande due volte la Germania e traboccante di armi. Il problema non sarà vostro nel brevissimo termine, ma credetemi, quello che succederà nei prossimi mesi avrà esiti sul mondo intero”

Hamid Rahimi
IG @iamhamidrahimi

Testi di Gianmarco Pacione