Karhu ha lanciato la Trampas ‘Franco Arese’, un omaggio al proprio chairman e alla sua leggenda sportiva
“Karhu e la Finlandia sono nel mio destino”. Parla di destino, Franco Arese, lo fa con estrema lucidità, con quella punta d’ironia tipica di chi alla pratica sportiva ha sempre aggiunto il pensiero articolato. Parla di destino, il piemontese di Centallo, classe 1944, mezzofondista cristallizzato nel mito, imprenditore costantemente capace di mischiare tradizione e futuro, uomo divenuto, da pochi giorni, scarpa da indossare, grazie alle Karhu Trampas ‘Franco Arese’.
È un mezzofondista cristallizzato nel mito, un imprenditore costantemente capace di mescolare tradizione e futuro, un uomo diventato da pochi giorni una sneaker da indossare, grazie alla Karhu Trampas “Franco Arese”.


Ragiona a voce alta, sincero e diretto, pare il manifesto di un signore d’altri tempi, a cui è stata aggiunta la brillantezza della modernità. Ritorna sul tartan dello stadio Olimpico di Helsinki, riavvolge il nastro dei ricordi fermandolo su quelle falcate lunghe ed eleganti, su quelle braccia allargate a ricercare l’apoteosi della “terra dei campioni, la terra dei grandi mezzofondisti, da Paavo Nurmi a Pekka Vasala…”, si sofferma sul luccichio di quella medaglia d’oro europea che da poco ha compiuto mezzo secolo di leggenda.
Lo fa calzando ai piedi le Karhu Trampas dedicate a quello storico successo continentale sui 1500 metri: azzurre come la canottiera che vestiva in quel soleggiato pomeriggio baltico, rosse come i pantaloncini che gli fecero tagliare il traguardo davanti al polacco Szordykowski e al britannico Foster, atipici shorts indossati perché “belli, all’avanguardia, ed anche un po’ per scaramanzia… Per quei pantaloncini ebbi anche una discussione accesa con la Federazione, ma non mi fecero nulla”.

DALL’INFORTUNIO AI VERTICI DI ASICS
Era il 1971, era il momento di grazia di Franco Arese, l’anno in cui le sue leve aggraziate stabilirono record italiani proprio sui 1500, sui 5000 e sui 10000 metri, oltre che sul miglio. Era l’apice di una carriera che presto si sarebbe drasticamente fermata, “una rottura del tendine d’Achille, successe durante una gara a Milano. Un infortunio molto grave, ho dovuto tenere la gamba completamente ingessata per quaranta giorni e uno stivaletto dal ginocchio al piede per trenta. Alla fine ero solo ossa. Ho provato a correre di nuovo, ma non ero più io, a livello muscolare faticavo tantissimo”.
Nei mesi di lento e inefficace recupero, si fermò il corpo di Franco Arese, ma non la mente. “Ero abituato a fare 50 gare all’anno, non sapevo cosa fossero le ferie, mi riposavo giusto un paio di settimane a dicembre per attendere la nuova stagione… Passavo sempre da un aereo all’altro, da una corsa all’altra. Nel periodo dell’infortunio ho iniziato a riflettere su cosa volessi fare ‘da grande’, ricordo benissimo che mi trovai a parlare con mio fratello e, a un certo punto, mi sono detto: non è il caso che smetti? In quel mese e mezzo ho deciso di abbandonare le corse, ed è stata la mia fortuna”.




Destino, fortuna. Nel mezzo di questi poli ingovernabili sta la bravura di un atleta capace di reinventarsi, di trovare nella passione per le scarpe la propria sfolgorante seconda vita. “È stato traumatico prendere quella decisione, ma ho subito trovato la mia strada. Nella vita devi essere bravo nel fare delle scelte. Io ero innamorato delle scarpe, da sempre, conoscevo tutti i marchi e iniziai a fare l’agente. Poi, durante uno dei miei viaggi all’ISPO di Monaco, incontrai il presidente giapponese di Asics Tiger. Gli proposi di diventare distributore per tutta Italia, ma mi rispose di no. Mi chiese di preparagli un business plan di quattro anni e io, all’epoca, non sapevo cosa fosse un business plan…”
Nonostante l’iniziale fase di stallo, l’approccio di Arese all’universo Asics si tramutò rapidamente in una vertiginosa scalata prima concentrata sull’ampio panorama occidentale, poi sulle alte sfere orientali. “Mi comunicarono la carica di distributore italiano durante gli Europei Indoor di Milano, lo ricordo ancora, eravamo al Palasport di San Siro. Da semplice distributore divenni poi socio e arrivai ad essere Chairman di Asics Europa. In Giappone godevo di ottima stima, così negli ultimi anni entrai anche nel board di Asics Japan”.
Una storia trentennale dal sapore di ciliegio e Sol Levante, una storia chiusa e riaperta davanti al tanto lontano, quanto forte richiamo nordico, davanti all’irresistibile ed evocativa melodia di una terra divenuta seconda casa per tutta la famiglia Arese.



“È stato un atto d’amore per la Finlandia”. Quando parla della rinascita di Karhu, il celebre marchio dell’orso in grado di popolare tutti i maggiori meeting d’atletica dei primi settant’anni del Novecento, Franco Arese sembra fare riferimento ad una fenice obbligata, ad un processo inevitabile.
“Giunto alla fine del mio percorso con Asics, non avevo più voglia di mettermi in gioco, ma i miei figli mi hanno stimolato”, uno stimolo arrivato sotto forma di visione familiare, di occasione da cogliere fatalmente. “Sarebbe stato un errore buttare tutta la sua esperienza”, a parlare è Enrico, ultimogenito dei tre figli di Franco, tutti oggi coinvolti nella realtà Karhu, “inizialmente volevamo fare un marchio a nome suo, ‘Arese’, ispirato alla Finlandia. Mio padre è particolarmente legato a quella nazione: quando era un professionista andava ogni anno ad allenarsi là, partiva da solo e andava a Turku, tra luglio e agosto, dove si allenava con Pekka Vasala e altri atleti finlandesi. Avevamo un’idea di brand, ma non avevamo ancora le scarpe. D’un tratto, mio fratello ci suggerì che Karhu stava vivendo un periodo pessimo. Così partimmo per la Finlandia, organizzammo un meeting, e iniziammo le trattative per entrare in società”.
Quando si fa proprio un marchio come Karhu non si può ragionare solo su quote e fatturato, non si può pensare solo a prodotti e mercato. Quando si fa proprio un marchio fondato in lingua suomi nel lontano 1906 e passato dai piedi dei ‘Finlandesi Volanti’ o da quelli della ‘Locomotiva Umana’ Emil Zatopek durante la tripletta olimpica dorata (5000, 100000 e maratona) di Helsinki ’52, vuol dire entrare in possesso di un heritage prezioso, di un passato mitologico, di un pregresso da omaggiare riverentemente.
Un bacino di nozioni e vittorie da cui la famiglia Arese ha immediatamente attinto, iniziando ad inserire il concetto di sneaker in un’affascinante contenitore storico, forgiando la scarpa street contemporanea nelle grandi figure sportive d’epoca. Un processo che, unito alla sempre presente produzione di scarpe da running puro, tecnico, ha ricondotto in breve tempo Karhu ad essere “un marchio di prestigio. Stiamo riportando Karhu dove merita di stare. I miei tre figli sanno bene che il concetto di fatturato viene dopo quello di prestigio, viene dopo quello di status. Per questo non vendiamo tanto per vendere, per questo ci affidiamo solo a determinati negozi sparsi in tutto il mondo”.



Destino, fortuna, prestigio. L’ultimo tassello dell’epopea sportivo-imprenditoriale di Franco Arese è racchiuso nella ricerca dell’eccellenza: una ricerca condotta per anni sulle piste d’atletica internazionali e sulle scrivanie aziendali, una ricerca che oggi trova l’apoteosi nel più programmatico degli oggetti, le Karhu Trampas Made in Italy a lui dedicate. Scarpe con cui Arese ha voluto riabbracciare il tartan e le emozioni dello Stadio Olimpico di Helsinki, come testimonia il suggestivo video che vi proponiamo qui sotto.
Foto e video di Karhu
IG @karhuofficial, @karhurunning
karhu.com
Testo a cura di Gianmarco Pacione