I tweet di Iker Casillas e Carles Puyol ci ricordano, ancora una volta, quanto il calcio debba evolversi

Il siparietto tra Iker Casillas e Carles Puyol, due leggende del pallone internazionale, ha riportato a galla un fiume carsico che, negli ultimi tempi, sembrava essersi fortunatamente prosciugato. “Sono gay, rispettatemi”, questo il tweet dell’ex portiere di Porto e, soprattutto, Real Madrid, che ha scoperchiato un autentico vaso di Pandora. Stando a quanto riportato dai media spagnoli, il tweet, immediatamente cancellato da Casillas, avrebbe dovuto e voluto essere una semplice battuta di cattivo gusto: una caustica replica alle voci che lo vorrebbero impegnato in una lunga serie di liaison dopo la separazione con la storica partner Sara Carbonero. L’ex portiere ha poi parlato di un hackeraggio del profilo, scusandosi con la comunità LGBT, ma non è riuscito a diradare la cupa nebbia di dubbi e polemiche scaturita dal destabilizzante statement. Nebbia alimentata goffamente dal compagno di Nazionale e rivale di club Carles Puyol, che ha prontamente replicato a Casillas twittando simpaticamente (almeno a suo avviso) “È il momento di raccontare la nostra storia”.

Questa tragicommedia social alla spagnola è sicuramente frutto di leggerezza e disattenzione, forse di un oscuro agente esterno, forse di una sfortunata serie di eventi. Forse. Eppure ci permette, ancora una volta, di riflettere su un tema che ritenevamo ormai superato. L’uscita “goffa e fuori luogo”, com’è stata descritta dallo stesso Puyol, tasta difatti un polso ancora vivo: quello di un calcio che non riesce ad adeguarsi al progresso e all’accettazione, ma che invece resta popolato da enormi tabù e da un retrogrado senso di repulsione verso l’eterogeneità sessuale.

“Vedere Iker Casillas e Carles Puyol scherzare e ridere sul tema del coming out nel calcio è deludente. È un viaggio difficile che ogni persona LGBTQ+ deve affrontare. Vedere delle leggende ridere di questo va oltre la mancanza di rispetto”, ha commentato il calciatore australiano Joshua Cavallo. L’anno scorso il terzino dell’Adelaide United era diventato l’unico calciatore professionista dichiaratamente omosessuale in attività. Pochi mesi dopo, il suo esempio era stato seguito in un altro continente da Jake Daniels. “I calciatori vogliono essere associati al concetto di mascolinità, di virilità e l’essere gay per molti equivale ad essere debole”, aveva dichiarato il giovanissimo attaccante del Blackpool ai microfoni Sky, divenendo il secondo calciatore omosessuale della storia calcistica britannica. Prima di lui solo Justin Fashanu nel lontano 1990 aveva annunciato oltremanica la propria orientazione sessuale al mondo. Alcuni anni dopo il proprio coming out, Fashanu venne ritrovato morto suicida in un garage londinese, al suo fianco una lettera citava: “Sono fuggito dall’Inghilterra per come mi ha trattato la gente dopo ciò che ho detto. Non voglio imbarazzare ulteriormente la mia famiglia. Spero che qualcuno lassù mi accolga: troverò la pace che non ho avuto in vita”.

Per questi e per molti altri motivi il calcio deve fare un ultimo, decisivo passo in avanti. I suoi protagonisti del passato, del presente e del futuro devono modificare una cultura plasmata da bomber e wags, da una mascolinità totalizzante, fondata sugli ideali di donna oggetto, di predazione seriale e derisione del ‘diverso’, di omologazione obbligata. Lo spogliatoio non può più essere terra d’insicurezze e silenzi, di limitazioni e dolore. I costumi e la mentalità devono cambiare, le consapevolezze devono cambiare. L’intero sistema deve cambiare. Perché ciò avvenga c’è bisogno del coraggio di chi, nel gota del calcio, non vuole aprire la propria condizione a tutti, per paura di vedersi emarginato o abbandonato. “Nelle squadre in cui ho giocato c’erano almeno due omosessuali a stagione. Si aprivano con me privatamente, ma non lo facevano pubblicamente”, ha affermato Patrice Evra di recente.

Ecco perché questa battaglia, questa rivoluzione può essere vinta solo attraverso l’esempio. Un esempio che, ad oggi, sta continuando a latitare nei paradisi del football, spuntando solo in serie minori o leghe poco conosciute e mediatiche. Un esempio che Iker Casillas e Carles Puyol, più o meno volontariamente, hanno evitato di dare.