Behind the Lights – Marie Pfisterer
La fotografa, creativa e surfista tedesca che nelle onde di Biarritz ha trova il senso di tutto
“Ogni volta che sono sulla tavola, penso sempre a quanto sia incredibile il surf, a quanto sia stato cruciale per la mia vita, per la mia evoluzione. Da quando ho iniziato a surfare tutto è cambiato. Il surf mi ha permesso di costruire connessioni con altri esseri umani, con altri creativi, mi ha permesso di esplorare il mondo, di plasmare il mio rapporto con la fotografia… E tutto questo ha trovato un senso definitivo a Biarritz, la mia attuale casa, la mia California, dove questi tasselli si sono incastrati”
Marie Pfisterer ha trovato nel surf più di una musa ispiratrice. La tavola, lungo il suo percorso artistico e umano, è diventata un strumento di esplorazione introspettiva e comunione collettiva, di serenità individuale e contaminazione reciproca. Nata nella Germania meridionale, a chilometri e chilometri di distanza da spot e tunnel oceanici, questa giovane artista delle onde ha incontrato per la prima volta il surf in Perù, durante un viaggio concepito al termine dell’esperienza scolastica. Quell’epifania l’ha poi portata a vivere in Marocco e Portogallo, a viaggiare alla ricerca dei luoghi perfetti per cavalcare gli specchi marini e a stabilirsi nella nota Biarritz, il paradiso acquatico dei Paesi baschi francesi, là dove creatività, communità e danza della tavola rimano allo stesso modo.



“Non potrei vivere senza surf, dopo qualche giorno d’inattività divento nervosa. Lì fuori, tra le onde, mi sento così libera… Il surf e la fotografia hanno un effetto benefico: in acqua non ci sono distrazioni, nessuno ti può chiamare, puoi disconnetterti dai problemi e dalle pressioni lavorative. Ogni volta che finisco una sessione ho la sensazione di essere una persona nuova. Biarritz e i Paesi baschi mi hanno anche dato la possibilità di scoprire un altro elemento meraviglioso, la montagna. Amo entrambi questi scenari naturali, perché ognuno di essi mi sfida, mi permette di dimostrare qualcosa a me stessa. A volte nell’oceano le correnti e le condizioni possono essere molto dure, lo stesso accade in montagna, quando per esempio devo arrampicare. Le sensazioni che provo sono differenti. In acqua penso poco, mi distraggo e mi sembra di fare una lunga, intensa doccia rigenerante. Quando corro o faccio un’escursione ad alta quota, invece, mi sento ispirata, mi vengono nuove idee, e dialogo profondamente con me stessa. Trovo particolarmente interessante come questi due elementi abbiano due effetti così diversi su di me… In generale penso che il contatto con la natura permetta di sentirsi bene. Stiamo perdendo questa connessione, spesso ce ne dimentichiamo, e mi sento benedetta dalla possibilità di vivere di fianco all’oceano, di essere costantemente circondata da questi contesti naturali…”
Contesti naturali, ma anche persone. Perché il surf vissuto e fotografato da Marie è anche il centro catalizzatore di un nutrito gruppo di creativi che, scatto dopo scatto, video dopo video, sono in grado di plasmare sempre nuovi e vibranti immaginari visuali. ‘Surfers Collective’ è il nome di questo ispirato collettivo e network di base a Biarritz. Le sue diramazioni estetiche, però, non si limitano alle coste della Francia sud-occidentale e, tramite multiformi produzioni, celebrano anche molto altro oltre l’arte della tavola.


“La fotografia può esprimere i tuoi pensieri, le tue emozioni, ciò che senti dentro ma non riesci a descrivere con le parole. Per me è sempre stato fondamentale incontrare persone e amici, comprendere i loro punti di vista, espandere il mio. Ho fondato questa piattaforma perché là fuori ci sono tantissimi artisti e creativi che non sono abbastanza conosciuti: parlo di fotografi, ma anche di registi, scrittori e tanti altri. Tutti si esprimono in modo diverso, proprio come i surfisti, ed è bellissimo farsi ispirare da queste differenze. Senza queste connessioni non mi sarei mai evoluta. E poi subentra quella competizione positiva, che ti spinge sempre a provare cose nuove. ‘Surfers Collective’ è la celebrazione di tutto questo, ed è vicinissimo al mio cuore. A livello personale ora mi sto concentrando maggiormente sulla produzione filmica. Se vuoi ritrarre il surf penso tu debba conoscere a fondo le onde. Un surfista sa bene che in acqua non si ripete mai una routine, sa bene in che posizione mettersi per catturare al meglio un momento specifico e sa come trovare uno spot sconosciuto e incontaminato: ricerca che affronto ogni giorno, soprattutto da quando il surf è diventato molto popolare”
“Fin da quando ero piccola ho avuto la fortuna di viaggiare. Mi hanno sempre attirato i posti sconosciuti, ricordo per esempio una produzione video con il filmmaker Aljaz Babnik girata su un’isola africana in cui eravamo le uniche persone bianche. Ora sono concentrata su questo nuovo progetto che si concretizzerà nei prossimi mesi: una spedizione femminile in Africa sotto forma di viaggio documentaristico. Non ci sono ragazze che viaggiano da sole. Noi vogliamo infrangere questo tabù e diradare paure o incertezze insite nella società contemporanea. Vogliamo mostrare quanto sia bello essere on the road insieme e ritrarre le storie delle persone, dei posti che incontreremo. Sono cresciuta con due fratelli, sono sempre stata abituata ad un mondo maschile. In molti viaggi ero l’unica donna inserita in un gruppo di uomini. Poi a Biarritz ho incontrato una fantastica community femminile e abbiamo pianificato insieme questo progetto. Ci siamo dette che avremmo potuto farlo da sole, spinte dalla nostre connessione, e penso che questo sia un messaggio molto forte. ‘GUTS’, questo il nome del progetto, porterà me e la giornalista italiana Patrizia Waz ad attraversare in tre mesi Marocco, Mauritania, Senegal e Gambia. Visiteremo e scopriremo Mamma Africa, saremo esploratrici offroad alla ricerca di onde, distanza da tutto il resto e, ovviamente, empowerment femminile”
“Ever since I was a child, I have been lucky enough to travel. I have always been attracted to unknown places, I remember for example a special film production trip with the filmmaker Aljaz Babnik to an African island where we were basically the only white people. Now I am focused on this new project that will materialize in the coming months: a women’s expedition to Africa in the form of a documentary trip. In the world there are not many girls traveling alone. We want to break this taboo and dispel fears or uncertainties inherent in contemporary society. We want to show how good it is to be on the road together and portray the stories of the people, the places we encounter. Growing up with two brothers, I was always used to a male world. On many trips I was the only woman included in a group of men. Then in Biarritz I met a fantastic women’s community and it inspired us to plan this project together. We told each other we could do it on our own, driven by our connection, and I think this is a very powerful message. The project is called ‘GUTS – a female expedition through Africa’ and it will be a 45min documentary along with a poetry book and photo journal. The project will be executed by me and my friend Patrizia Waz, a travel moderator and journalist from Italy. We will go three months through Morocco, Western Sahara, Mauritannia, Senegal and Gambia to explore Mama Africa as female offroad explorers – on the search for waves, disconnection and female empowerment.”









IG: Marie Pfisterer
IG: surferscollective
Testi di Gianmarco Pacione
Montjuïc, il paradiso della pallanuoto
La macchina fotografica di Rich Maciver entra in un luogo mistico per gli sport acquatici
A Barcellona, sul promontorio del Montjuïc, esiste dal 1992 un paradiso degli sport acquatici. È la Piscina Municipale, originariamente creata per le celebri Olimpiadi catalane. Nel corso degli anni, questo specchio d’acqua affacciato sulla ‘città dei Conti’ è divenuto un tempio della pallanuoto mondiale. La macchina fotografica dello scozzese Rich Maciver ci permette di scandagliare questo spazio senza eguali e di entrare in contatto con i 320 atleti che hanno preso recentemente parte alla BIWPA Barcelona Water Polo Cup: una festa della pallanuoto agonistica che ha coinvolto 19 squadre provenienti da 6 Paesi differenti. Volti, dettagli, istanti di gioco e celebrazione si alternano in questo reportage popolato da cuffie, bracciate e panorami gaudiniani.

















Credits: Rich Maciver
IG @richmaciverphoto
Testi di Gianmarco Pacione
Baseball, Sueños y Gloria
La República Dominicana raccontata dalla lente di Sofía Torres Prida
“Nel tempo mi sono sempre più interessata all’identità dominicana, la mia identità. Ho studiato oltreoceano, all’Università delle Arti di Zurigo e, una volta tornata a casa, ho deciso che avrei provato a studiare e raccontare la cultura del mio Paese e le sue ramificazioni. Ecco perché ho concentrato la mia attenzione soprattutto sul baseball”
Sofía Torres Prida è giovane, ma consapevole. È consapevole delle diramazioni della cultura dominicana, dei suoi capisaldi, della personale volontà di raccontare un popolo e i suoi costumi attraverso la propria lente. La Repubblica Dominicana è il baseball. Il baseball è la Repubblica Dominicana. Questa è l’equazione che Sofía spiega linearmente, introducendo ‘Sueños y Gloria’, ‘Dreams and Glory’, un viaggio fotografico che abbraccia tre generazioni di giocatori di baseball dominicani volati oltre confine, negli USA, per elevarsi sportivamente, ma anche per molte, moltissime altre ragioni.




“Il baseball fa parte della nostra identità. Sono cresciuta andando alle partite ogni settimana: era una sorta d’inconsapevole rito condiviso con amici e parenti, popolato da birre e cibo. Per questo progetto sono entrata in contatto con alcune fondazioni e ho scoperto quanto siano impegnati socialmente i giocatori dominicani che hanno avuto e stanno avendo la fortuna di giocare in MLB. Così ho iniziato a viaggiare e ad incontrarli, provando a capire perché restituiscano così tanto alle loro comunità d’origine. Le storie che ho ascoltato sono tutte molto simili: parlano di sogni, sacrifici, leghe minori e successi milionari. Ma tutte queste parabole sono accomunate da un qualcosa di più grande: il viscerale legame tra il baseball e il mio Paese, e tra coloro che riescono a diventare giocatori MLB e la loro patria”
Sofía delinea, esempio dopo esempio, vite che sono transitate dall’estrema povertà all’estrema ricchezza, grazie ad una mazza e un guantone. Racconta di biografie individuali che diventano biografie collettive, di bambini che diventano uomini sul diamante, restituendo ai luoghi e alle persone della loro infanzia quanto hit e run hanno regalato loro. Ma racconta anche di coloro che non ce l’hanno fatta, di tassisti e barbieri che hanno inseguito a lungo il sogno dei grandi stadi americani, senza mai raggiungerlo.




“In Repubblica Dominicana il baseball rappresenta una via di fuga dalla povertà. Non è solo uno sport, è un modo per cambiare le prospettive di tutta la famiglia. Mi è capitato di incontrare famiglie composte da 5 fratelli e, ad un certo punto della loro vita, tutti e 5 hanno investito tutto nella possibilità di diventare giocatori MLB. Oggi ci sono ragazzi che firmato contratti ultramilionari a 18, 20 anni, tanti ex giocatori mi hanno raccontato di come una volta la situazione fosse completamente differente tra segregazione razziale e contratti da 500 dollari al mese. L’impennata economica che ha subito l’MLB negli anni ’90 è andata di pari passo con la volontà di ogni dominicano di perseguire questa strada. Ora i giocatori non sono più atleti, sono celebrità, e sentono ancora più forte il peso del proprio Paese sulle spalle. Ogni dominicano li guarda. Ogni dominicano si ispira a loro”
Ma la ricerca socio-antropologica di Sofía non si limita al diamante. Prima di conoscere il proprio maestro fotografico Joseph Rodriguez, questa giovane fotografa documentarista ha anche esplorato le prigioni dominicane, così come Uptown Manhattan, Little Dominican Republic, scandagliando, come insegna il suo mentore, ogni manifestazione di una precisa identità, fatta di religione e superstizione, di valori condivisi e barriere linguistiche.






“Si possono trovare tracce della nostra cultura anche in prigione, così come nei playground di Uptown, dove tanti dominicani giocano a streetball. Il baseball è semplicemente la piattaforma più importante in cui i dominicani vengono rappresentati. Tanti di questi atleti mi hanno parlato dei loro primi tempi nelle minor league americane, quando erano costretti a vivere in casa con altri ragazzi, stando a stretto contatto per intere, lunghissime stagioni. Anche in quelle occasioni il modo di essere tipico dei dominicani veniva a galla: chi non sapeva cucinare puliva, e viceversa, ricreando una sorta di grande famiglia. Molti hanno mangiato per mesi e mesi hamburger o cibo messicano, perché nei ristoranti potevano comunicare solo in spagnolo… Sono anche aneddoti come questi che definiscono la cultura del mio Paese. Io continuerò a cercare queste storie e continuerò a raccontare l’identità dominicana”
Credits: Sofia Torres Prida
IG sofiatorresprida
Testo a cura di Gianmarco Pacione
Behind the Lights – Joseph Rodriguez
Il maestro newyorchese della lente che racconta l’umanità in tutte le sue sfaccettature
“Sono cresciuto a South Brooklyn, New York. Negli anni ’60 il quartiere era molto differente, era un piccolo villaggio multiculturale. Portoricani, italiani, ebrei, afroamericani e tanti altri vivevano fianco a fianco con i loro pregi, i loro difetti e le loro contraddizioni. Ho ricevuto un’educazione molto cattolica, non sono mai stato membro di una gang, ma ho comunque avuto problemi nelle strade. Sono finito in prigione a Rikers Island e quando sono uscito ho trovato il mio ‘perfect place’ grazie alla fotografia: un luogo dove potevo esprimere quello che sentivo, dove potevo ritrarre e condividere ciò che mi aveva sempre circondato, l’umanità”
Joseph Rodriguez non dovrebbe avere bisogno di presentazioni. Il suo portfolio è una sconfinata galleria umana capace di racchiudere evoluzioni sociali, intime biografie e indagini antropologiche prive di filtri o retorica. Questa leggenda della lente, oggi vulcanico 71enne dalla parlata lucida e ritmata, ha cominciato il proprio percorso artistico respirando la New York più criptica: una Grande Mela dalle mille sfaccettature, in costante equilibrio tra autodistruzione ed elevazione, hip hop e mafia, oblio e redenzione.




“La fotografia riguarda la cura degli altri. La fotografia è l’arte di ascoltare e non di prendere. Il primo compito che davo ai miei studenti della New York University era quello di scattare foto in metropolitana per una settimana: erano costretti a parlare con la gente, ad ascoltare, a diventare esseri umani migliori e, di conseguenza, fotografi migliori. Adesso tutti possono scattare una foto, tutti possono essere fotografi di strada anche solo con un iPhone. Ma è fondamentale comprendere il senso di ogni storia, dei soggetti e delle realtà che li circondano. Ecco perché quando scatto mi concentro sempre sugli occhi delle persone: c’è la loro anima, ci sono le loro storie, i loro sogni e le loro emozioni. Penso ad esempio a José Garcia, giocatore di baseball dominicano che cercava di farsi strada nelle leghe minori americane. José fa parte del progetto socio-documentario “New Americans”, prodotto in collaborazione con lo scrittore Rubén Martinez e incentrato sul tema dell’immigrazione negli Stati Uniti. Nei giorni trascorsi insieme i suoi occhi mi parlavano sempre di famiglia: i suoi sacrifici sportivi erano interamente dedicati ai parenti e al sogno di un futuro migliore. Anche lontano da casa era riuscito a ricreare una sorta di nucleo familiare, convivendo con altri ragazzi che condividevano le sue stesse speranze”.



Nella vivida testimonianza di Joseph Rodriguez, lo sport assume un ruolo denotativo della condizione umana, diventa un mezzo per scoprire società, culture, individui, e per dialogare con essi. Perché, ci dice, la fotografia è proprio questo, un continuo dialogo: un dialogo che prima Rodriguez ha sperimentato a bordo del suo taxi, atipico e obbligato set della sua serie d’esordio, poi in giro per il globo tra Svezia e Romania, Mauritius e Vietnam, Mozambico e Argentina… Nazioni, luoghi in cui i paradigmi di Brooklyn venivano confermati o smentiti davanti all’inesauribile sete di conoscenza della sua lente.
“Studiavo all’International Center of Photography e non avevo soldi, così ho iniziato a guidare un taxi per pagarmi l’università. Dentro quella macchina ho scattato il mio primo reportage. Poi ho fotografato praticamente ovunque: viaggiare mi ha permesso di aprire gli occhi, le orecchie, la mente e mi ha fatto rendere conto di quanto lo sport nella sua universalità sia un fondamentale strumento rivelatore. Nel bene e nel male. Ricordo per esempio il mio assignment in Argentina, nel 2001. All’epoca c’era un’enorme crisi economica e mi sono ritrovato in mezzo a dei ricchi borghesi che giocavano a polo a Punta del Este, una località turistica uruguaiana, durante il winter break. Poche ore prima avevo visto signore anziane in lacrime nelle strade di Buenos Aires, avevano perso tutto. Nel frattempo questi membri dell’alta società organizzavano feste e si rilassavano bevendo dell’ottimo vino. Al di là di questo aneddoto, penso che lo sport sia preziosissimo per la sua capacità d’infondere un senso di speranza unico e trasversale. A Malmö, in Svezia, ho seguito un bambino palestinese che ogni giorno si allenava metodicamente, sognando di diventare un calciatore come il suo idolo Zlatan Ibrahimović. Anche in questo caso si trattava di una storia su più livelli: questo ragazzo era figlio di immigrati musulmani e il successo calcistico nella sua vita assumeva un significato ben più ampio e complesso. A Portorico ho incontrato invece un giovanissimo pugile che viveva la maggior parte del tempo a contatto con il ring. I suoi genitori percorrevano molti chilometri ogni giorno per portarlo in palestra e vederlo allenare con la massima serietà. Attorno a lui, durante l’allenamento, si potevano vedere tantissime foto di leggende locali, intervallate da bandiere nazionali… Tutto era così carico di tradizione, di orgoglio, d’identità”




Tradizione e identità, ma anche rottura. Spesso le composizioni visuali di Joseph Rodriguez ci parlano di fratture interne al flusso sociale, incontrano le zone più buie e marginali di esso, ritraggono, senza giudicare, armi e droghe, così come rivoluzioni di mode e costumi. Tutto s’intreccia, a New York come nel mondo, ci spiega Rodriguez ricordando i tempi in cui parcheggiava il suo taxi per bere un espresso e godersi le prime battaglie tra B-boys. Citando giganti come Pier Paolo Pasolini, Letizia Battaglia, Federico Fellini e Mario Giacomelli, torna indietro nel tempo, pensando al suo background italiano, plasmato da sigari e bocce, così come dalle potenti famiglie Gallo e Canale, e dalla tragica epidemia dell’eroina.
“Le nonne italiane erano incredibili, controllavano tutto e tutti. Conoscevo le persone che erano legate a certe famiglie, quando ero giovane ci giocavo a basket insieme o lanciavamo i ferri di cavallo, perché non ci era concesso giocare a bocce. Purtroppo l’eroina ha distrutto tutto, ha creato una tensione enorme. Ci ho messo un anno a scattare le mie prime foto in casa di qualcuno. Uscivo ogni mattina alle 6, perché sapevo che i criminali a quell’ora dormivano e allo stesso tempo cercavo di appoggiarmi ai preti locali per entrare in contatto con più famiglie possibili. Era un processo di fiducia, dovevo far capire a queste persone che non era importante la mia vita, ma la loro, dovevo creare un rapporto intimo e profondo. Ci vuole tempo ed empatia per costruire un rapporto con chi vuoi documentare, per questo con i miei allievi cito spesso una battuta di Johnny Depp: “Are you a MexiCan or a MexiCan’t?”. Fortunatamente ho vissuto anche epidemie positive, come quelle dell’hip hop, del rap e delle sneakers. Sono state delle rivoluzioni incredibili, che hanno racchiuso la forza creativa e lo spirito competitivo di NYC. Ho sempre pensato alla mia città come ad una grande arena sportiva: tutti qui combattono per vincere, per realizzare i propri sogni, non per sopravvivere. È come un immenso playground dove devi ‘basketball your way’ per raggiungere l’eccellenza. Il mio sogno era diventare un fotografo e, ancora oggi, quando supero il Brooklyn Bridge, mi sento orgogliosissimo di averlo realizzato”




Joseph Rodriguez potrebbe parlare per giorni, forse settimane delle sue esperienze di vita. La sua testimonianza fiume pare una lezione cattedratica, una meravigliosa autobiografia da cui estrapolare quanti più consigli e strumenti per tradurre la realtà che ci circonda. L’importante è parlare di vita, di come sono gli esseri umani e di come riescono a coesistere. Questo è l’insegnamento più importante che ci dona questo maestro della lente, insieme ad alcune domande dirette che dovrebbero troneggiare sulle pareti di ogni fotoreporter in erba.
“I giovani fotografi devono capire che stanno vivendo nella storia. Devono porsi un semplice quesito: voglio veramente documentare tutto questo? Sono abbastanza affamato per farlo? Devono capire che la fotografia permette di raggiungere le persone, di toccarle. E devono capire che le persone possono cambiare. Almeno coloro a cui è concesso farlo. I detenuti che ho fotografato durante una gara di bodybuilding, per esempio, non possono farlo completamente. Li hanno ‘messi a dormire’, come diciamo qui, non si potranno più svegliare, perché staranno in carcere a vita. Tanti altri a cui vedevo impugnare armi trent’anni fa, invece, oggi sono padri e nonni con una vita normale. Sono autisti di bus e lavoratori, sono una maggioranza che i media evitano sistematicamente di menzionare. Io continuo a seguire queste persone, continuo a documentare le loro vite e a comunicare grazie alle mie piattaforme, continuo a mostrare esseri umani. E questo è ciò che mi ha sempre spinto ad amare la fotografia”
Credits: Joseph Rodriguez
www.josephrodriguezphotography.com
IG: @rollie6x6
Testo a cura di Gianmarco Pacione
Giorni di fine estate
A Cadice, nella Spagna meridionale, i tuffi sono un rito che resiste al tempo
L’antica città di Cádiz (Cadice) è stata costantemente abitata per 3000 anni, ma nel 2022 sta affrontando un cambiamento significativo. È una città piena di contraddizioni: ha uno dei più alti tassi di disoccupazione di tutta Europa, contemporaneamente è però ritenuta una delle migliori destinazioni del Vecchio Continente, status confermato di recente dal New York Times. Questo luogo pieno di storia, circondato da alte mura difensive e da una costa scintillante, pare in un momento di enorme transizione, dovuta al turismo e a cospicui investimenti che stanno arrivando dopo anni di negligenza istituzionale.





Davanti a questo sfondo cittadino si staglia un’immagine costante. Fin da giovane ho assistito ad un rito annuale, sempre svolto nello stesso luogo. Ogni estate, sulla spiaggia La Caleta, gruppi di adolescenti si lanciano in mare dal ponte Fernando Quiñones, che conduce al Castello di San Sebastian. C’è una ristretta finestra temporale in cui è possibile tuffarsi: quando la marea è abbastanza alta da rendere il volo sicuro e tanto spettacolare da attirare piccole folle di adulti meravigliati. Le acque circostanti sono punteggiate da rocce e la precisione è essenziale per ogni salto.





La scena porta alla mente luoghi come Copacabana o L’Avana. È una suggestione dovuta ad abbronzature, corpi atletici e un panorama esotico, elementi che, però, non sono oltreoceano, ma nel sud della Spagna. Questi giovani non provano a ricreare mondi lontani, sono semplicemente ragazzi alla ricerca di un senso di sfida e libertà.
Negli anni possono essere cambiati costumi e tagli di capelli, avvitamenti e torsioni ora sono ritratti da iPhone di ultima generazione, e il mondo all’esterno di questo ponte si muove ad una velocità ben diversa, eppure quest’esuberanza giovanile, quest’atletismo e senso dell’avventura, questi corpi che penetrano l’acqua cristallina continuano e, speriamo, continueranno ad essere un punto fermo di Cadice.







Credits: Juan Trujillo Andrades
IG truli_photo
www.truliphoto.com
Testi di Gianmarco Pacione
Fight Dreams in Tulum
La Muay Thai è un sogno e una sfida quotidiana
Christina Belasco ha seguito la fighter di Muay Thai Jeannie Nguyen durante il mese di preparazione al suo primo match internazionale tenutosi a Tulum, Messico. Jeannie ha poi vinto l’incontro con un convincente TKO al secondo round. Quest’atleta californiana ora vanta un record di 10-3 e ha abbandonato il suo lavoro full-time per concentrare tutti i suoi sforzi sul sogno di diventare pro. Combatte e allena presso il Thai Boxing Institute di Mar Vista, Los Angeles. Questo reportage è un tuffo nella sua vita.

Sono le 17.00 a Tulum e il cielo si riempie di una luce dorata, mentre il sole inizia a tramontare. L’aria è densa e tropicale, Rumble in The Jungle sta iniziando e i primi fighter attraversano le corde, salendo sul ring. Anche Jeannie Nguyen. Jeannie è una lottatrice dilettante di Muay Thai femminile e ha raggiunto Tulum per il suo primo combattimento internazionale.




La Muay Thai è un’arte di combattimento che utilizza calci, ginocchia, pugni, gomiti e clinch, per questo viene definita l’arte delle otto armi. Quest’arte ha avuto origine in Thailandia nel XIII secolo, durante la dinastia di Sukhothai, e ha una cultura ricca di tradizioni e sfumature buddiste.
A prima vista la Muay Thai può sembrare uno sport da combattimento feroce, ma basta penetrare la sua cultura per rendersi conto di quanto, in realtà, questa disciplina sia intima e profonda. I momenti che precedono il combattimento sono caratterizzati da una silenziosa tensione che si trasforma in un ruggito, in una bellissima danza che sì, è anche brutale, ma soprattutto piena di ritmo, potenza e flow.





Non è un caso che Jeannie parli del suo rapporto con questo sport utilizzando una prospettiva che sa d’interiorità, che faccia riferimento alla purezza del proprio cuore come strumento fondamentale per approcciare il ring. “Si tratta di gratitudine, di celebrare il punto raggiunto nel proprio percorso di fighting. Non si tratta di dimostrare il proprio valore, di avere un grande ego, in generale di sprigionare qualsiasi emozione negativa…”.
Questa mentalità non solo permette a Jeannie di rispettare profondamente le sue avversarie, ma le dona anche una chiarezza mentale e una fiducia interiore che, inevitabilmente, finiscono per aiutarla in ogni prestazione. “La sensazione migliore è quando sul ring si riesce ad entrare in un flusso. Non sei in preda al panico, sei concentrata, analitica e in grado di usare tutte le tue armi”, confida.




Jeannie ha vinto il suo incontro a Tulum per TKO al secondo round, dominando l’incontro grazie al suo clinch. Il suo record è ora di 10-3 e ha in programma di gareggiare a Phoenix, in Arizona, agli US Muay Thai Open Championships.

Ph & text by Christina Belasco
IG @belascophoto
Atlhete Jeannie Nguyen
IG @jeanjeanjeannie
Il Wild Wild Est ungherese
Il rodeo sta attecchendo nel cuore dell’Europa, grazie ad una famiglia di allevatori
8 secondi. È un arco temporale insignificante della vita, ma ci sono momenti in cui 8 secondi durano un’eternità: per esempio sul dorso di un toro di 800 chili. Chiunque abbia provato a cavalcare un animale così grande sa come ci si sente quando il mondo esterno cessa di esistere e il tempo diventa un concetto incomprensibile.
La pratica del rodeo, che notoriamente negli Stati Uniti dà vita ad eventi televisivi nazionali con alti premi in denaro, in Ungheria è ancora agli inizi, ma ogni anno affascina sempre più persone grazie a una famiglia di entusiasti locali.



Una bandiera a stelle e strisce sventola sulla roulotte e un cowboy è seduto accanto ad essa. Il caldo è insopportabile, le balle di paglia fissano il cielo ammucchiate accanto alla strada polverosa, le ragazze con camicie a scacchi e cappelli da western calati sugli occhi passeggiano per il ranch. Gli atleti sono in piena tenuta da battaglia, alcuni di loro fanno il segno della croce, mormorano una rapida preghiera. E dopo essersi guardati intorno, osservano con soddisfazione l’arena che si riempie lentamente. I clown, gli steward che aprono i cancelli, i giudici e l’annunciatore sono al loro posto, il primo toro è già in attesa che le danze abbiano inizio.







Se pensate che ci troviamo in qualche sperdute zona del Texas, vi sbagliate. Il luogo è l’Hell on Hooves Ranch di Monorierdő, nella contea di Pest, in Ungheria, dove si sta svolgendo il secondo round della competizione di bull rodeo di quest’anno, organizzata dall’Associazione Rodeo Ungherese. L’Associazione organizza da anni competizioni nazionali e internazionali in Ungheria e in Europa centrale.
Nel 2022 si sono tenute due gare, una a Nagytarcsa e l’altra a Monorierdő. Sono arrivato per la prima volta 5 anni fa con una buona dose di dubbi, unita ad un entusiasmo e una curiosità infantile. All’epoca il padre del rodeo ungherese e attuale presidente dell’Associazione József Nádori (alias Tyuxi) mi ospitò nella sua tenuta. Lui e la sua famiglia si occupano di allevamento da oltre venticinque anni: hanno iniziato con i bovini, poi è arrivato il Quarter Horse.


Il rodeo è stato una sorta di sogno d’infanzia per Tyuxi: l’immaginario spaghetti western ha dato l’impulso e il sogno è diventato realtà più di 10 anni fa. L’organizzazione non è stata facile, questo sport ha difatti una grande tradizione negli Stati Uniti, ma in Europa è praticamente sconosciuto. Non è un caso se Tyuxi e la sua famiglia hanno dovuto raccogliere informazioni da internet e da articoli di giornale per poter avviare l’intero progetto…


Tyuxi proudly tells me that the number of spectators increases by 20 percent every year. He is the happiest about the fact that the show is spreading by word of mouth and the popularity of the sport is growing. Today, the number of riders increased to about a hundred. And to the skeptics, he can only say one thing: come and see that they are indeed capable of organizing high-quality competitions, here, in the heart of Europe – no need to travel to Texas.


Credits: István Fekete
istvanfekete.com
IG @istvanakosfekete
Nuove Arene
Attorno allo sforzo atletico tutto cambia senza cambiare, ci spiega il progetto fotografico di Massimiliano Camellini
Cosa emerge dal buio di una moderna arena? Un elmo, un casco. Un momento di trasfigurazione individuale, una sessione di condivisione collettiva. Antichi materiali per nuovi strumenti di gioco. Legno lavorato che sfiora piccole sfere nere, che le accudisce, che la accompagna prima dolcemente, poi violentemente, verso un terra promessa fatta di cotone incrociato e gioie passeggere.


La pellicola fotografica s’imprime di tensioni muscolari ed emotive, di corpi che fluttuano silenziosi su rumorose rotelle, caricandole di forza e velocità. Sono movimenti morbidi e circolari, diretti e violenti. Sono ombre di azioni passate e presenti, di imprese e fallimenti che tornano e ritornano, qui e ovunque, come cicliche funzioni purificatrici. Scatto dopo scatto, gladiatori dell’oggi incrociano le loro masse, i loro bastoni, le loro visioni, finendo per generare duelli senza tempo, senza volto.



Cosa emerge dal buio di una moderna arena? Una sfida personale che mai ha smesso di prendere forma, che mai smetterà di farlo. Dalle sabbie striate di sangue, dai clangori di spade dell’antica Roma, all’hockey affrescato in un anonimo palazzetto di provincia, passando per uno spettro infinito di sforzi, sfide, obiettivi. Ogni volta una nuova introduzione. Ogni volta un nuovo epilogo. In attesa di un futuro prossimo o lontano, in attesa di una nuova arena da popolare.




Credits: Massimiliano Camellini
massimilianocamellini.org
Testi di Gianmarco Pacione
Il Liverpool è vita
Baci, affetto e Dua Lipa: viaggio visuale tra gli ‘Scousers’ in occasione dell’ultima finale di Champions League
La finale di Champions League. Uno dei più imponenti eventi del mondo sportivo (e non solo) contemporaneo, un caotico insieme di energie fisiche ed emotive, di sfumature antropologiche e sociali. La macchina fotografica di MT Kosobucki ha voluto ritrarre tutte le complesse componenti di questa maestosa celebrazione calcistica, ha voluto studiarle e sviscerarle tra le vie di Parigi, cristallizzando il lungo pomeriggio che ha anticipato le turbolenze del Parco dei Principi e l’1-0 dei ‘Blancos’ madridisti ai danni del Liverpool e del suo popolo ‘Scousers’.


Proprio gli ‘Scousers’ sono i protagonisti di questo reportage visuale. Uomini che nell’immaginario comune rappresentano l’epitome della cultura hooligans, ma che agli occhi di questo giovane fotoreporter americano hanno rappresentato molto altro. Nato e cresciuto in un ambiente calcistico (strano a dirsi per un ragazzo d’oltreoceano), MT racconta con queste parole la sua esperienza parigina.


“Ero a Parigi per un Master in fotografia. Un mio amico danese, compagno di squadra al college e tifoso del Liverpool, mi ha proposto di goderci la fan zone durante il prepartita. Sono un tifoso del Chelsea, ma ho deciso di accettare per vivere quell’evento unico. L’ingresso alla fan zone avveniva tramite un piccolo gate, alcuni tifosi del Liverpool provavano a fare domande ai poliziotti locali che o non rispondevano, o parlavano francese. Si respirava già un po’ di quella tensione che sarebbe scoppiata a distanza di qualche ora, c’erano brutte vibrazioni. Dentro la fan zone cambiava magicamente tutto. C’era un’energia pura, innocente, quasi infantile, che sprigionavano migliaia di uomini di mezza età. Mi hanno colpito gli abbracci, i baci sulle guance sulle note di Dua Lipa… I limiti e i tabù della mascolinità in quel contesto parevano azzerati. Non voglio sembrare disincantato, so bene che attorno a quel contesto saranno sicuramente accadute altre cose, ma io ho fotografato quello che ho visto. E ho visto uomini ubriachi di eccitazione, capaci di abbattere barriere comportamentali ultrasecolari con gesti di affetto così naturali e così potenti. Così come ho visto una gitana chiedere l’elemosina nel mezzo della grande festa ‘Reds’: la metafora visiva ideale per descrivere gli enormi flussi economici legati alla Champions League e, in generale, al calcio europeo. Nel tempo che ho trascorso in Europa ho compreso la differenza tra le fandom dei major sport USA e quelle delle squadre del Vecchio Continente. La mia prima partita è stata al Vicente Calderón di Madrid, poi sono stato varie volte allo Stamford Bridge: qui non c’è separazione tra la vita normale e il proprio club, negli US l’evento sportivo è una fuga dalla quotidianità, qui la tua squadra è la quotidianità, è la vita. E gli ‘Scousers’ sono un esempio perfetto di questo concetto”


MT Kosobucki
Testi di Gianmarco Pacione
Il parkour e l’architettura del volo umano
In Bulgaria la macchina fotografica di Fabien Scotti unisce corpi volanti e brutalismo sovietico
Si può esplorare il tipico brutalismo architettonico sovietico anche attraverso un’arte sportiva urbana, quella del parkour. Fabien Scotti ci dimostra come, creando attraverso la propria lente un’interazione tra il panorama metropolitano bulgaro e i corpi fluttuanti di giovani volatili umani.
Il dialogo tra evoluzioni aeree, cemento e gravità, raggiunge una nuova dimensione sia in questo reportage visuale, sia nelle parole di Kristiyan Valev, atleta locale che racconta il proprio punto di vista riguardo il legame tra palazzi popolari, complessi abbandonati e l’immaginario tipico di qualsiasi artista del parkour.


“Sono sempre stato appassionato di videogame e anime, quando ho scoperto il parkour ho iniziato a vivere le stesse sensazioni, ma nella vita reale. Se mi alleno fuori dalla palestra, ricerco sempre spazi urbani unici. Mi piace l’architettura e le forme che ritrovo nei vari luogo ispirano i movimenti del mio corpo. Amo essere creativo. Arti visuali, produzioni musicali e parkour credo siano universi uniti dallo stesso mindset: hai semplicemente una tela bianca su cui puoi provare a dipingere qualcosa. L’architettura gioca un ruolo fondamentale nella mia interpretazione di questo sport, la ricerca dei migliori spot coincide con la ricerca di strutture particolari, dall’alto potenziale estetico. Il parkour ha acceso una scintilla dentro di me e così ho iniziato a diventare un appassionato di architettura. I contesti architettonici che ci circondano giocano un ruolo chiave nel definire lo stile di ogni singolo atleta di parkour. Per esempio io sono cresciuto in un piccolo centro cittadino della Bulgaria, dove non c’erano degli spot prefissati per il parkour. Ho dovuto fare affidamento sulla mia creatività e, insieme ai miei amici, ho cominciato ad esplorare una lunga serie di palazzi abbandonati, costruiti durante l’era comunista nella zona industriale della città. Avevo la sensazione di essere all’interno di un film post-apocalittico… E credo che quelle esperienze abbiano influenzato la mia idea di parkour”












Fabien Scotti
IG @fabienscotti
fabienscotti.com
Athletes:
Kristiyan Valev
IG @kristiyan59
Yasen Apostolov
IG @aptricks
Kiril Trifonov
IG @kiril_handstands
Miro Goshev
IG @mirogoshev