Run, and Mind the Gap

Ritratto dell’evento segreto notturno organizzato da Runaway

Mind the Gap esiste senza esistere. È un appuntamento segreto con l’estasi della notte metropolitana, è la fusione del running urbano con il bollente asfalto milanese. Mind the Gap è l’intreccio tra le regole esclusive del Fight Club palahniukiano e l’itinerario vorticoso di un alleycat ciclistica. Siamo nell’afoso e vuoto luglio milanese, eppure una sessantina di runner sono richiamati dalle vibe underground e dalla sadica fantasia di Runaway, che ciclicamente sfida le gambe e la mente di atleti coinvolti in un format senza eguali, almeno sul suolo italiano. Un fiume di corpi invade il cavalcavia Bussa, iconico punto di partenza di una sfida che mette in rima ritmo e orienteering. Poche indicazioni e ognuno si lancia nel proprio, incerto, itinerario. Il traguardo è un’incognita distante indizi e checkpoint. Vinicio Villa e Maria Vittoria Nanut sono i primi a decifrare la criptica trama di quest’edizione, dando il via ad una celebrazione collettiva. Perché Mind the Gap esiste senza esistere ma, come spiegano Luca Podetti e Carlo Pioltelli, menti dietro questo evento, ad esistere è la forza aggregativa di un anonimo lunedì estivo, trasformato in frenetica velocità e competitiva condivisione.

“Il concept di Mind the Gap nasce da un suggerimento di un nostro cliente belga, abitante di New York. Dopo essere entrato in contatto con il nostro negozio e la nostra community, ci ha segnalato la Midnight Half, una gara notturna con check point organizzata dagli Orchard Street Runners nella Grande Mela. Abbiamo deciso di prendere ispirazione da questo format e dalle alleycat, le gare ciclistiche urbane tra courier. Mind the Gap non ha regole, come nel Fight Club l’unica regola è ricevere l’invito ed evitare di parlarne con qualsiasi altra persona: se parli con qualcuno, non verrai più invitato. È un evento per runner moderni, che vogliono sentirsi parte di un movimento, condividendo questa esperienza notturna ed entrando in contatto con altre crew e persone. L’idea di community è alla base di tutto, Runaway vuol essere prima di tutto uno spazio aggregativo e MTG è pura aggregazione. Organizziamo due o tre MTG all’anno, i partecipanti sono circa 60 e devono completare circuiti variabili di circa 12 chilometri. Anche i checkpoint mutano di edizione in edizione e, normalmente, seguono un fil rouge tematico. Nelle passate edizioni, per esempio, i checkpoint sono coincisi con dei sexy shop o delle pescherie, quest’anno, visto il caldo estremo, abbiamo scelto delle fontanelle. I trofei ricalcano questi temi e sono sempre accompagnati da un sanpietrino e un piccione, elementi-simbolo di Milano. Nel tempo siamo riusciti a coinvolgere crew e runner di tutta Italia, e non solo. Ora stiamo pensando di aggiungere un’annuale edizione itinerante, ambientandola in altre città italiane. I runner sentono il desiderio di creare un movimento sportivo e culturale attorno alla nostra realtà, questo ci rende orgogliosi e ci spinge costantemente ad evolvere il format MTG, così come accade con tante altre attività parallele. A spingere il nostro impegno è anche la voglia di continuare a sentirci dare dei ‘bastardi’, perché vuol dire che i runner hanno faticato mentalmente e fisicamente, e si sono divertiti”

Photo Credits: Riccardo Romani
Text by: Gianmarco Pacione


Le fibre di Napoli

Anatomia visuale dello storico Scudetto napoletano, un reportage di Fabien Scotti

Tutti amano le storie degli underdog. Fino alla cocente sconfitta e al rimpianto. Le squadre di calcio sono uno spazio freddo, dove il pragmatismo e la forza finanziaria prevalgono, spesso testando e portando al limite la lealtà dei romantici. Per la maggior parte della nostra decade l’SSC Napoli ha giocato un calcio stravagante nella, almeno secondo stereotipi, austera Serie A, ma l’inevitabilità della sconfitta contro l’egemonia del Nord ha mutato la sua gloria passata in un sempre più distante ricordo. Più gli Azzurri si avvicinavano al paradiso, più dolorosamente crollavano. Rappresentavano lo sfidante archetipico, incarnavano un ruolo secondario nel vasto film della Serie A: una pellicola plasmata da maglie a righe e ineguaglianza socioeconomica tra Nord e Sud.

Pochi potevano prevedere un copione diverso all’inizio dell’estate 2022, soprattutto considerando la partenza di diverse leggende del club.  Nel corso della stagione, però, l’estro caratteristico del Napoli ha continuato a tradursi in vittorie, lasciando spazio all’ottimismo e alla speranza che questa volta le cose sarebbero potute andare meglio. Questa domenica la stagione 2022-23 volge al termine, con la squadra che gioca l’ultima partita del campionato di Serie A contro la Sampdoria, ultima in classifica. La partita è solo un’occasione: il Napoli è già stato incoronato campione. Tuttavia, questo pomeriggio assume connotati molto più rilevanti dell’incoronazione stessa. Per il club e per i suoi tifosi è una giornata di pura estasi, priva di aspettative o timori, delle cose che un tempo erano e che ora non sono più. Le strade, vestite di blu, sono una galleria a cielo aperto per questo senso di euforia condivisa.

Il Napoli non vinceva lo Scudetto dal 1990, da quando ‘El Pibe de Oro‘ aveva trascinato la città verso l’immortalità calcistica. Fotografie e formazioni di quella squadra offrono uno scorcio dell’era pre-Bosman, di un’epoca completamente diversa. Il Napoli 2022-23 aveva invece un volto diverso. A livello culturale fungeva da cassa di risonanza per l’intera città e per le fibre delle sue diverse comunità. Riunite in un insieme coerente, le idiosincrasie dei giocatori e la pluralità delle loro storie hanno dato alla squadra caratteristiche a cui molti potevano connettersi. Di nuovo, finalmente, come vincitori. Ma la maschera di affermazione collettiva rimane la stessa. Trascende il tempo, la vittoria o la sconfitta. Per i fedeli del Napoli, vecchi e giovani, locali e stranieri, gli anni di frustrazione, che ora si dissolvono tra i fumi nel cielo azzurro della città, hanno reso l’attesa ancora più gustosa.

Photo Credits: Fabien Scotti
Testo a cura di: Witold Mucha


Sulla Strada del Giro

Benvenuti nei mistici luoghi dove tutto si tinge di Rosa

Alle pendici delle Tre cime di Lavaredo l’aria è rarefatta. Le nubi vanno e vengono: sprazzi di sole, poi qualche goccia, poi ancora sole. Dal rifugio Auronzo si sentono urla riecheggiare in valle, ogni tanto arrivano anche dei boati e viene da chiedersi cosa stia succedendo dato che al passaggio dei ciclisti mancano ancora parecchie ore.

 

Scendendo lungo il percorso della tappa si può notare chi è già organizzato con tende montate, griglie fumanti e birre ghiacciate; in tanti scrivono il nome del proprio idolo sulla strada; qualcuno riposa sull’asfalto, stremato dopo aver conquistato la salita che tra poche ore vedrà protagonisti gli eroi del Giro; altri cantano e brindano in compagnia. Tutti si sentono a casa, come vivessero da sempre ai bordi di quella salita. Provando a chiedere cosa porta una persona a seguire un evento itinerante che dura tre settimane come il Giro d’Italia, prendendo pioggia, sole e vento, le risposte che ricevo sono perentorie e riassumibili in una singola frase: “è così che mi sento vivo”.

Alle pendici delle Tre cime di Lavaredo l’aria è rarefatta. Le nubi vanno e vengono: sprazzi di sole, poi qualche goccia, poi ancora sole. Dal rifugio Auronzo si sentono urla riecheggiare in valle, ogni tanto arrivano anche dei boati e viene da chiedersi cosa stia succedendo dato che al passaggio dei ciclisti mancano ancora parecchie ore.

Scendendo lungo il percorso della tappa si può notare chi è già organizzato con tende montate, griglie fumanti e birre ghiacciate; in tanti scrivono il nome del proprio idolo sulla strada; qualcuno riposa sull’asfalto, stremato dopo aver conquistato la salita che tra poche ore vedrà protagonisti gli eroi del Giro; altri cantano e brindano in compagnia. Tutti si sentono a casa, come vivessero da sempre ai bordi di quella salita. Provando a chiedere cosa porta una persona a seguire un evento itinerante che dura tre settimane come il Giro d’Italia, prendendo pioggia, sole e vento, le risposte che ricevo sono perentorie e riassumibili in una singola frase: “è così che mi sento vivo”.

Al passaggio dei corridori professionisti tutto è enfatizzato. È sin dalle prime luci dell’alba che si incita a voce chi sta salendo, ma quando quelli che salgono sono gli eroi del Giro, oltre alle urla si aggiungono anche trombette, clacson artigianali, fischietti, campanacci delle mucche e qualsiasi oggetto possa fare un casino infernale. Ognuno dei presenti vuole dare man forte a chi sta lasciando tutto ciò che ha su quei pedali.

A questo punto della Tappa – pochi km all’arrivo – l’obiettivo della vittoria è un lusso che possono permettersi in pochi, quindi per gli altri l’aspirazione è arrivare in cima. Esattamente come i tifosi saliti in bici qualche ora prima. E qui il cerchio si chiude: tutti hanno visto la gara, tutti hanno fatto la stessa salita dei Pro, tutti hanno partecipato nelle ore antecedenti e tutti hanno urlato al passaggio di tutti i ciclisti. Migliaia di persone assiepate sullo stesso versante della montagna estasiate dallo spettacolo che offrono i ciclisti e la natura che li circonda.

Spesso, quando si assiste ad un evento sportivo, viene talmente tanta voglia di partecipare che una volta finito l’evento ci si chiude in palestra per buttar fuori quel desiderio. Quando si assiste ad una gara ciclistica, invece, anche solo per aggiudicarsi un buon posto per vedere la salita, si sta già partecipando. E se, come diceva qualcuno, “libertà è partecipazione”, allora una tappa di montagna del Giro d’Italia è un entusiasmante momento di Libertà.

Photo Credits: Rise Up Duo
Testi di Giorgio Remuzzi


The Mirage

Il viaggio fisico, mentale e visuale di Runaway e della sua crew, un film girato e diretto da Achille Mauri nel cuore della Death Valley

Il deserto della Death Valley è un crocevia di forze mistiche e materiali. Tra Santa Monica e Las Vegas ogni sensazione si esalta, ogni percezione muta, ogni visione diventa un miraggio. È il miraggio della corsa in uno dei luoghi più ostili del globo, è il miraggio di 548 chilometri popolati da fatica e coraggio, è il miraggio del The Speed Project, una gara fisica e sensoriale aperta a 70 running crew internazionali.

‘The Mirage’ è il raffinato short movie che Achille Mauri (protagonista della cover di Athleta Magazine Issue 8) ha dedicato a questa bollente odissea, seguendo le gesta tanto contemporanee, quanto epiche, della crew milanese Runaway. Questo progetto visuale, supportato da Diadora e supervisionato dalla direzione creativa di Mental Athletic, traduce in immagini una dolorosa meraviglia di 48 ore, una danza della realtà ritmata da cactus, staffette e irrazionale resistenza che ha coinvolto anche il nostro recente intervistato Floriano Macchione.

Vi presentiamo l’intero film. Buona visione. Buon miraggio.


‘Finding Space’, trovare il proprio spazio con il ciclismo

Le immagini di Jack Flynn e Bullfrog, insieme alle parole del testimonial Rapha Duke Agyapong, ci spiegano l’importanza delle due ruote

Il ciclismo può parlare di oppressione e libertà, di depressione e sollievo, di ansia e vie di fuga. Il ciclismo può essere uno strumento per logorare, così come per evolvere l’essere umano. In fondo parliamo dello sport narrativo per eccellenza. Perché ogni uscita sulle due ruote, specie se solitaria, è un racconto da formulare e divulgare interiormente ed esteriormente. Tra colline, pianure e pendenze, le pedalate finiscono per plasmare riflessioni, analisi, paure e soddisfazioni personali. Alcune di esse possono essere controllate, così come si possono controllare tempi e frequenze. Altre sono più complesse, più profonde, sono domande senza apparente senza risposta, sono fratture che paiono insanabili, vissute a ruota del destino, della sfera emotiva, delle proprie vibrazioni.

Jack Flynn e Bullfrog Studios hanno dedicato uno shortfilm a queste sfumature umane e ciclistiche, dirigendo il poeta, ciclista e attivista Duke Agyapong. Questo rider londinese, testimonial Rapha, è assurto a punto di riferimento internazionale per quanto riguarda il rapporto tra equilibrio mentale e ciclismo. Le sue testimonianze sono in grado d’ispirare, di spalancare nuove prospettive, di superare confini, di aprire nuove, introspettive vie d’accesso a chiunque ne senta la necessità, soprattutto alzandosi sui pedali. Il film è stato presentato in occasione di uno speciale evento Rapha dedicato al rapporto tra sport e salute mentale. Buona visione.

Directed by : @jackisflynn
Creative Production : @bullfrogstudios
Featuring Duke Agyapong
www.jackflynn.co.uk
www.bullfrog-digital.co.uk
Text by : Gianmarco Pacione


Jamal Sterrett, danzare per comunicare

L’intreccio tra Bruk Up dance e Sindrome di Asperger raccontato dalle parole di questo performer inglese e dalla meravigliosa produzione visuale di Fred MacGregor

La danza è una potentissima forma di comunicazione. Può permettere di entrare in contatto con sé stessi. Può permettere di costruire solidi ponti relazionali e connessioni con chi ci circonda. La danza per Jamal Sterrett, giovane visual artist e ballerino di Nottingham, è tutto questo, amplificato esponenzialmente. Perché Jamal nello stile Bruk Up ha trovato un modo per esprimere le proprie vibrazioni, le proprie energie e il proprio punto di vista, plasmato dal rapporto quotidiano con la Sindrome di Asperger.

Grazie alla produzione visuale di Fred MacGregor, divisa tra una serie fotografica e un meraviglioso shortfilm, e alla testimonianza diretta di Jamal, possiamo comprendere il significato e l’importanza di questa forma artistica, la sua duplice valenza individuale e collettiva, possiamo percepire la connessione totalizzante tra il corpo di questo performer, la sua interiorità e il ritmo.

Com’è stato il tuo primo incontro con la danza?

È successo nel 2013. All’epoca stavo studiando Graphic Design al college e Jay Z rilasciò un video che mi incantò. Controllai tutti i credits del video per scoprire chi fossero gli incredibili ballerini coinvolti e scoprii la community della Bruk Up dance. Istantaneamente mi innamorai di questa forma d’arte e decisi di apprenderla. Da quell’epifania ho continuato senza sosta a provare nelle strade, ad informarmi, a fare quello che facevano quei ballerini e a pensare come loro. A distanza di tempo sono anche riuscito ad entrare in contatto con alcuni di quei performer. Quest’anno, per esempio, il celebre Ghost è venuto qui a Nottingham da New York e abbiamo girato un film insieme. Uno dei miei eroi ha dormito sul mio sofà, è stata un’esperienza assurda, resa possibile dalle persone che mi hanno circondato lungo il percorso.

Ci potresti definire lo stile Bruk Up?

Originariamente era il tipico dancehall style mixato con elementi del popping (stile di danza funk e hip hop basato sulla tecnica della rapida contrazione e successivo rilassamento dei muscoli ndr). È nato in Giamaica negli anni ’90, il primo grande esponente è stato George Adams, che poi si è spostato a New York e ha iniziato a popolare video musicali, come quelli di Busta Rhymes. Il Bruk Up è uno stile che si è affermato nella povertà dei block newyorchesi, spinto da persone che volevano elevarsi e migliorare il loro mindset. Mi hanno affascinato la basi ideologiche di questa danza, i suoi elementi spirituali: non si tratta di un semplice pratica di strada, è una forma d’arte più alta, che riguarda il proprio corpo, la propria individualità, la propria filosofia.

Parli di individualità, ma la danza è anche comunicazione. Cosa significa per te questa dualità e che tipo di sensazioni provi durante le tue performance?

La danza è il mezzo che mi fa connettere con il mondo. Le parole creano connessioni, ma allo stesso tempo possono plasmare pregiudizi e barriere. Il movimento del tuo corpo, invece, è un qualcosa di solido e concreto, tutti si possono relazionare senza sovrastrutture al movimento: è la verità, è uno stato estremamente profondo, privo di filtri, che mi permette di presentarmi al mondo. Credo che la danza sia un qualcosa di insito nel nostro DNA, è naturalmente presente in ognuno di noi. Quando danzo si uniscono spiritualità, heritage, memorie, sensazioni ancestrali: è come se entrassi ‘in the pocket’, in uno stato di esplorazione, di presenza e assenza che mi fa fare cose non programmate. Ogni giorno mi sveglio in modo differente e il mio stato d’animo influenza i miei movimenti. Penso di essere passato e di continuare a passare attraverso differenti fasi, è una cosa che accomuna un po’ tutti gli artisti. All’inizio per esempio tutto era pura passione ed euforia, ora invece mi sento più uno scienziato che prova a studiare e perfezionare le proprie nozioni e possibilità.

Nella tua quotidianità che tipo di rapporto c’è tra la Sindrome di Asperger e la danza?

La danza cura l’Asperger. Ho sempre avuto problemi a parlare con le persone, la socialità è sempre stato un grande dilemma personale. La danza mi ha aiutato a connettermi con il mondo e a definirmi. Quando danzo mi sento calmo, tranquillo e funzionale per la società. La Sindrome di Asperger mi rende ipersensibile e questo ha lati postivi, ma anche lati negativi. La luce, la temperatura, i suoni… Il mio cervello percepisce e processa queste cose in maniera estremamente complessa. Per farvi capire questa complessità, pensate semplicemente a come ragiona una persona con l’Asperger: il lineare A-B-C per me si trasforma in un salto continuo da A a I, da I a B, da B a G e così via, per poi tornare al punto di partenza. Quando osservo un albero fuori dalla finestra mi focalizzo su un’infinità di dettagli e il mio cervello si perde in questa intricata somma di piccole cose. Grazie alla danza riesco ad accedere alle mie emozioni e al mio mondo interiore, riesco ad esprimere tutto questo flusso di sensazioni attraverso il mio volto. Mentre danzo non riesco a fingere o ad essere in controllo, è tutto pura autenticità, è tutto puro me stesso.

Questa tua condizione ti rende innegabilmente un role model. Come gestisci questo status?

È bello essere ispirati da altri, ma credo che le persone non debbano seguire i miei stessi passi. La danza deve essere un’esperienza personale, un cammino che insegna a trovare te stesso, a ragionare su chi sei realmente. Amo i punti di vista differenti, la singola prospettiva è sempre fallace. Qui a Nottingham il 50% della community supporta la mia vision e ciò che faccio, l’altro 50% mi ritiene una persona strana, probabilmente vorrebbe che mi trovassi un lavoro… Ma è un qualcosa che ogni artista deve affrontare. Non ho accettato l’Asperger fino a poco tempo fa, volevo che la gente mi giudicasse solo per l’allenamento, il duro lavoro e la creatività. È fondamentale controllare la propria narrativa, soprattutto quando si tratta di temi delicati, perché c’è sempre il rischio di perdere qualcosa lungo la traduzione dei tuoi pensieri. Ho sempre voluto che ogni mia evoluzione artistica fosse più vera possibile, poi ho capito che la performance artistica richiede l’autenticità del performer, e ho preso la decisione di parlare della Sindrome di Asperger.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Nel futuro spero che la danza mi faccia viaggiare in Paesi e città sconosciute. Vorrei esibirmi in uno show personale e trovare sempre nuove opportunità. Qui in Gran Bretagna non ci sono molte piattaforme o strade per il talento individuale, la danza è molto istituzionalizzata. Spero di aiutare un cambiamento di paradigma, perché la danza deve partire da una necessità e da uno stile personale. Bastano alcuni fondamentali e poi l’espressione personale deve passare attraverso la libertà.

Credits: Jamal Sterrett
Photo Credits: @freddie_macgregor
fredmacgregor.com
Testi di Gianmarco Pacione


La danza del kite

Le foto di MT Kosobucki raccontano di uomini che diventano aquiloni, e viceversa

È una danza ascensionale. Colorate correnti su grigi sfondi. Singoli corpi aggrappati a coraggiosi e tecnologici aquiloni. È una danza ascensionale. Le acque s’increspano ad ogni tocco della tavola, divenendo liquidi trampolini, liquide piste d’atterraggio. Tutto è silenzioso in questo anonimo specchio lacustre, tutto è ritmo e ipnosi. Alcuni uomini ballano sospesi a mezz’aria, i loro corpi si contorcono e distendono su note naturali, sprigionando eleganza, forza fisica, artisticità. Le loro vite sono sconosciute. Possono essere musicisti o finanzieri, architetti o funzionari, ma in questo palco interpretano un ruolo ben preciso, quello dei performer. Performer per sé stessi. Performer per le sparute macchine che tirano il freno a mano a pochi metri da riva, pronte ad essere incantate da questa dolce, spontanea coreografia. È una danza ascensionale. Muscoli tesi su pensieri astratti. Evoluzioni e trick che dipingono la plumbea tela invernale. È una danza ascensionale. È la danza del kite.

Photo Credits: MT Kosobucki
Text by: Gianmarco Pacione


GOALS, nuove prospettive sul Qatar

Grazie a GOALS il calcio e la società del Qatar vengono raccontate da chi vive all’interno del Paese

Critiche, dibattiti, atti dimostrativi e conferenze stampa. I Mondiali di Qatar sono tra gli eventi sportivi più chiacchierati della storia, sono diventati un centro catalizzatore per l’opinione pubblica internazionale, impegnata a sviscerare e sezionare contraddizioni sociali, intrecci politici, giochi di potere e lati oscuri del rapporto tra la FIFA e un Paese di cui si conosce ancora troppo poco.

Grazie a GOALS – una collaborazione tra Goal Click, The Sports Creative, Qatar Foundation, e Generation Amazing, abbiamo la possibilità di  ascoltare le parole e osservare le foto scattate da più di 40 contributor provenienti da 20 nazioni diverse, uomini e donne che oggi vivono proprio in Qatar. Il programma di storytelling GOALS unisce studenti, artisti e community capaci di rappresentare il tessuto sociale del Qatar e la sua connessione con il calcio: un progetto che spalanca orizzonti differenti su temi fondamentali come il progresso femminile e che ci permette di avere una visione più articolata e approfondita del Paese affacciato sul Golfo Persico.

Abbiamo chiesto a Matt Barrett, Fondatore del Progetto Goal Click e content partner del progetto, di raccontarne la genesi, i significati e le sfumature. Buona lettura.

Photo by ©Reem Al-Haddad
Photo by ©Reem Al-Haddad

Come nasce il progetto GOALS e come siete riusciti ad entrare in contatto con collaboratori qatarioti?

Il progetto GOALS è stato concepito e realizzato nel 2021 grazie alla collaborazione tra Qatar Foundation, The Sports Creative, Goal Click, Generation Amazing e Salam Stores. GOALS è un programma di sviluppo focalizzato sulle capacità di leadership e di narrazione. GOALS ha preso formalmente il via nel novembre 2021, riunendo più di 40 persone, la maggior parte delle quali donne, in rappresentanza di 20 nazionalità.

Da lavoratori e studenti ad artisti e allenatori della comunità, tutti hanno deciso di raccontare le loro prospettive sul calcio, la comunità, la cultura e la vita del Qatar nell’anno della Coppa del Mondo, attraverso fotografie analogiche e digitali, parole e video. Gli storyteller di GOALS sono stati reperiti principalmente attraverso candidature e persone collegate ai nostri partner.

Photo by ©Joris Laenen
Photo by ©Inamul Hasan Najeem

Cosa volevate mostrare e dimostrare attraverso queste immagini e testimonianze?

Si è scritto e si scrive moltissimo sul Mondiale FIFA in Qatar, ma raramente si sentono le voci di coloro che vivono e lavorano nel Paese. GOALS vuole cambiare questa narrazione e dare a quelle persone la possibilità di esprimersi e una piattaforma globale per condividere opinioni sul calcio, la comunità, la cultura e la vita in questo speciale momento storico. È importante notare che GOALS offre una rappresentazione autentica e diversificata del vero Qatar: donne e uomini di 20 nazionalità diverse hanno condiviso le loro storie.

Lo scopo di Goal Click è quello di ispirare la comprensione reciproca attraverso il linguaggio universale del calcio. In ogni progetto che sosteniamo, speriamo che le persone leggano le storie ed esplorino le immagini dei narratori, maturando una prospettiva più ampia riguardo un particolare gruppo di persone, un Paese o un’iniziativa. GOALS ne è un brillante esempio e il feedback che abbiamo ricevuto finora indica che le persone sono uscite dalla lettura di queste storie con una nuova idea del Qatar, della sua gente e dell’effettivo impatto che sta avendo la Coppa del Mondo.

Photo by ©Haya Al Thani
Photo by ©Inamul Hasan Najeem

Che tipo di rapporto c’è, a vostro avviso, tra Qatar e pallone?

Basta leggere le storie per capire quanta passione ci sia per il calcio e quanto sia stato importante nella vita di molti contributor. Avendo pubblicato oltre 300 storie ed essendo stati attivi in più di 100 Paesi, sappiamo che ogni Paese ha le proprie abitudini calcistiche e il Qatar non è da meno.

Come spiega Abdulrahman, che dal 2011 gioca a futsal per la Nazionale del Qatar: la cultura calcistica del Qatar è unica. Abdulrahman racconta di famiglie che si riuniscono ogni settimana e giocano a calcio per ore e ore, a volte senza scarpe, perché vengono usate per costruire le porte. Mahboobeh Razavi è un’allenatrice di calcio iraniana che si è trasferita in Qatar per conseguire un master in Exercise Science. Descrive una cultura calcistica “così piena di energia” e quando gioca nei tornei vede quanto la gente, e soprattutto le ragazze, amino giocare a calcio.

E non è solo la passione per il gioco ad emergere dalle storie di GOALS, ma anche il fandom, la base di appassionati e tifosi. Khalid Al-Ghanim è un superfan della squadra nazionale e spera che la Coppa del Mondo FIFA in Qatar possa essere un catalizzatore per cambiare visione e percezione della cultura del calcio nel Paese. È fiducioso che i turisti del Mondiale possano incontrare un luogo in grado di dare effettivo valore al gioco. Osserva che: “Non è la stessa cultura dell’Europa o del Sud America, ma è una cultura speciale a modo suo”.

Photo by ©Arham Khalid
Photo by ©Raja Aderdor

Quali sono i dettagli e le storie che vi hanno colpito maggiormente?

L’aspetto più importante è l’evoluzione del calcio femminile nei 12 anni trascorsi da quando il Qatar è stato selezionato come Paese organizzatore del torneo, ma anche i piani già in atto per far crescere lo sport femminile dopo la Coppa del Mondo. Molte delle donne che hanno partecipato a GOALS parlano di questo cambiamento. Dowana Ismail Khalifa, 30 anni, rappresenta la squadra nazionale femminile del Qatar. Parla di un Qatar diverso da quello in cui è cresciuta. Un Qatar dove può giocare a calcio ovunque e dove ci sono academy, tornei e campionati dedicati alle ragazze.

Dal suo punto di vista è incredibile osservare come la mentalità stia cambiando. “Abbiamo così tanto sostegno e sono così orgogliosa di viaggiare e rappresentare il Qatar. La mia esperienza mi fa venire voglia di dare una mano alle ragazze del Qatar, perché sono loro il futuro del calcio”, dice. Anche l’estrema passione e la fiorente cultura calcistica in Qatar e in tutta la regione sono dettagli degni di nota. Non si sapeva che esistesse anche qui, ma è evidente che il calcio, e lo sport in generale, sono assolutamente centrali per lo sviluppo e il progresso del Paese.

Infine, la diversità del Qatar è stata fonte di ispirazione. Abbiamo lavorato con 40 partecipanti che rappresentavano 20 nazionalità diverse. In Qatar sono presenti molte identità e culture nazionali distanti tra loro. Questo Paese rappresenta davvero il mondo in un unico luogo e ognuno porta il sapore della propria terra d’origine. Come sottolinea Joris Laenan, belga, trombettista principale dell’Orchestra Filarmonica del Qatar: “È un crogiolo di idee e le persone convivono pacificamente e nel rispetto reciproco. Apprezzo molto la loro gentilezza e ospitalità”.

Photo by ©Richmond Etse
Photo by ©Haya Al Thani

Cosa rappresenta, a vostro dire, il fatto che la maggior parte dei contributor sia di sesso femminile?

I diritti delle donne e delle ragazze sono stati un tema fondamentale nella preparazione di questo torneo e siamo lieti che oltre la metà degli storyteller siano donne. Leggendo la storia di Reem Al-Haddad, scopriamo che: “Il Qatar ha molte leggi a favore delle donne, le donne prendono le proprie decisioni, molte donne assumono ruoli di leadership e hanno un’istruzione di alta qualità”.

Mahboobeh ci dice che il calcio femminile è fiorente nel Paese e che “c’è un futuro brillante davanti a noi”. Forse non siamo troppo lontani da una candidatura del Qatar alla Coppa del Mondo femminile FIFA. Mehreen Fazal, una donna britannico-pakistana che ha avuto esperienze negative con il razzismo calcistico quando è cresciuta nel Regno Unito alla fine degli anni ’80, si è trasferita in Qatar nel 2020 e ha potuto assistere alla sua prima partita di calcio in assoluto durante la Coppa araba, capace di regalarle un’atmosfera incredibile e “scene di gioia in tutto il Paese”. L’impatto del calcio sulla vita delle donne che partecipano a GOALS è stato indubbiamente positivo.

Photo by ©Adriane de Souza
Photo by ©Adriane de Souza
Photo by ©Iman Soufan

All’interno delle varie testimonianze esce questa forte idea di multiculturalismo. Che tipo di rilevanza ha questo tema nella cultura e nel calcio qatariota?

Il Qatar è un Paese estremamente vario e questo spiega perché tra i partecipanti di GOALS sono rappresentate 20 nazionalità diverse. Molti narratori hanno parlato della diversità del Paese e di come questa stia plasmando la società moderna. Haya Al Thani lavora per Teach For Qatar e si concentra sui cambiamenti culturali in Qatar, su come il Paese contemporaneo sia “diverso nelle persone, nell’architettura e nella cultura” e su come, nel corso delle ultime generazioni, “le persone parlino lingue diverse, abbiano un aspetto diverso”.

Joris si è trasferito in Qatar 14 anni fa. Dice che il Qatar è sempre stato un luogo di incontro tra culture diverse: “Ci sono così tante nazionalità in questo Paese, persone provenienti da ogni angolo del mondo, con religioni, abitudini e background culturali diversi… Credo che il Paese debba essere orgoglioso di questo”.

Dai racconti emerge chiaramente come il calcio abbia svolto un ruolo importante nell’unire questa società diversa e multiculturale. Come spiega Ahmed, un egiziano espatriato: “Grazie al calcio ho conosciuto tanti amici di tante nazionalità. Ho amici dalla Tunisia, dal Ghana, dalla Giordania e, naturalmente, tanti egiziani! Attraverso il calcio si gioca con persone che altrimenti non si incontrerebbero mai. Si incontrano amici provenienti da luoghi e culture diverse. Questo è il potere del calcio”.

È un luogo comune, ma innegabilmente vero, che il calcio sia un linguaggio globale e che lo sport abbia il potere di unire le persone. Fahad, 19 anni, è nato e cresciuto in Qatar da genitori indiani. Era l’unica persona di origine indiana nel complesso abitativo in cui è cresciuto e non parlava arabo. Racconta: “Mi sembrava quasi impossibile avvicinarmi agli altri bambini e fare amicizia con loro. Ma c’era una lingua che parlavamo tutti, una lingua che poteva superare tutti gli ostacoli e le barriere della comunicazione, ed era la lingua del calcio! Il nostro comune amore per lo sport del calcio era sufficiente a superare tutti i confini linguistici. “Il calcio in Qatar ha avuto un ruolo importante durante la mia infanzia e ancora oggi. Per molti residenti e cittadini del Qatar, il calcio è uno stile di vita. Fa parte della nostra cultura ed è centrale nelle nostre vite”.

Stando a queste testimonianze pare chiaro, dunque, come la multiculturalità e la diversità del Qatar giochino un ruolo enorme nel delineare l’identità del Paese, sia in ambito sociale che sportivo.

Photo by ©Sirajul Islam

I diritti umani sono un tema bollente di questo Mondiale. Che idee vi siete fatti a riguardo?

Tutti noi abbiamo un’opinione sui problemi che il Qatar deve affrontare. Ma senza le voci delle persone che vivono nel Paese, la conversazione è incompleta. È chiaro che c’è ancora molto da fare, ma da quello che dicono molti dei testimoni, l’impatto della Coppa del Mondo è stato incredibilmente positivo. Mehreen, ad esempio, che ha visitato il Qatar per la prima volta nel 2007 e vi si è trasferita nel 2020, vi dirà che la trasformazione è stata fenomenale, non solo in termini di infrastrutture, ma anche per quanto riguarda la coesione comunitaria, le riforme del lavoro e le politiche sui diritti umani.

For Mehreen, the tournament has enabled the development of an enduring human rights legacy, which should in turn influence positive social reform in the entire region. Much has been said about the treatment of migrant workers – and clearly there have been (and still remain) issues – but if you ask Richmond Etse, an Electrical Technician working at EMCO, he has felt welcome in Qatar and is able to pursue his dream to buy a home for his family in Ghana, while rediscovering his passion for football. Likewise, Sirajul Islam – a Bangladeshi who moved to Doha in 2015 as a construction labourer – found new opportunities to gain a coaching qualification and is now training a team in the Bengali Community League.

Photo by ©Inamul Hasan Najeem

Dopo questo scambio di informazioni visive e testuali, la vostra percezione di questa Coppa del Mondo è cambiata? Se sì, in che modo?

Credo che Haya, a cui abbiamo fatto riferimento prima, riassuma tutto perfettamente quando dice: “A tutti piace credere che il proprio mondo sia quello corretto; ma chi può dire quale sia il mondo giusto?”.

Questa Coppa del Mondo sarà molto diversa dalle edizioni passate, non solo per il momento, ma soprattutto per la cultura del Paese che la ospita. Da ciò che raccontano i contributor pare chiaro che stia avvenendo un vero cambiamento e che molte opportunità stiano diventando più accessibili. Alcuni cambiamenti sono lenti, ma si stanno facendo progressi. Le donne e le ragazze del Qatar sono spesso alla guida del cambiamento e questo sarà uno dei maggiori lasciti del torneo. La verità è che leggendo la serie GOALS ci si può rendere conto di quanto l’impatto e l’eredità della Coppa del Mondo siano già molto più grandi di quanto molti si rendano conto. In molti dei precedenti Paesi ospitanti, il discorso sull’eredità tende a essere legato alle strutture o alla partecipazione. In Qatar, invece, stiamo parlando di un vero e proprio cambiamento sociale che è stato formalmente riconosciuto da Amnesty, Human Rights Watch e dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Si tratta di un dato incredibilmente forte, su cui bisogna riflettere.

Photo by ©Reem Al-Haddad

Creerete anche contenuti o eventi legati all’evento nelle prossime settimane?

Assolutamente sì. La mostra GOALS si terrà dal 16 novembre al 10 dicembre presso la Education City della Virginia Commonwealth University School of the Arts in Qatar. La mostra presenterà 120 immagini, oltre a audio, video, poesie e testi scritti ai tifosi che visiteranno il Qatar durante il torneo, ai media e alle persone che lavorano a tutti i livelli nell’industria dello sport.

Le storie di GOALS continueranno nel 2023 attraverso un programma rivolto allo sviluppo degli allenatori qatarioti. Il programma, della durata di un anno, sarà realizzato da The Sports Creative, che collaborerà con gli allenatori per co-creare attività calcistiche inclusive, supportate dallo storytelling. Attraverso il calcio, i partecipanti esploreranno temi chiave come l’identità, il patrimonio, la parità di genere e la diversità.

Credits: @Goal Click
Testi di Gianmarco Pacione


Another Championship

I campi portoghesi come riflesso del calcio mondiale

Dicono sia la terra del divino Cristiano Ronaldo. Dicono fosse la terra di Eusébio, l’uomo che sul prato verde riusciva ad essere contemporaneamente ‘Pantera’ e ‘Perla Nera’. Dicono. Ma questa terra in realtà non appartiene a uomini o profeti, non appartiene a individui o eroi, appartiene a un’entità superiore che si propaga paese dopo paese, cancha dopo cancha. Appartiene al calcio. Perché in Portogallo tutto ha una forma sferica. Ogni respiro, ogni pensiero, ogni parola, ogni panorama. Non importa se i tuoi occhi incrociano zone desertiche o aspri promontori, strapiombi oceanici o logori quartieri metropolitani: ovunque osserverai la sagoma rettangolare di una porta, ovunque percepirai il verbo della religione più profana e rilevante della società moderna.

Nel più estremo avamposto occidentale d’Europa lo sentirai chiamare ‘futebol’, in questi campi percepirai la presenza di azioni passate, di connessioni presenti, di presenze future. Scoprirai che il Portogallo è un esotico specchio del mondo: un mondo che è pronto ad accogliere, come ogni quattro anni, la più mistica celebrazione del pallone. Sono i Mondiali, sono l’esaltazione dell’elemento più cosmopolita ed eterogeneo della Terra, sono la concretizzazione calcistica di aspirazioni, culture e società, sono la trasposizione elitaria di tutto quello che nasce e cresce in questi piccoli sacrari ritratti dalla lente di Bruno Santos. Siamo in Portogallo, ma siamo ovunque. Siamo semplicemente nel calcio, in quella che Pasolini descriveva come “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”.

Credits: BrunoSantos.com
Text by Gianmarco Pacione


Behind the Lights – Alaric Bey

Il fotografo francese per cui non esiste vera fotografia senza comunicazione e contatto umano

“Quando ho lasciato il mio lavoro a Dubai per tornare a Parigi, ho deciso di pianificare un lungo viaggio nella vecchia Unione Sovietica. La mia ragazza è bielorussa, e volevo visitare dei Paesi che mi permettessero di migliorare il mio rapporto con la sua lingua. Ho scelto dei luoghi poco turistici, che mettessero alla prova le mie conoscenze linguistiche, dove pochi o nessuno parlavano inglese. Poi ho fatto lo stesso in America del Sud, dove ho allenato il mio spagnolo. Quando viaggi da solo hai bisogno di trovare una motivazione, un senso più grande. Per me quella motivazione e quel senso derivano dal miglioramento personale e dalla fotografia. In precedenza avevo sempre fatto il turista ‘normale’, osservavo i monumenti e non mi mettevo in gioco… Tutto questo mi faceva sentire in qualche modo incompleto e solo. E ho deciso di mettermi in una posizione completamente diversa, stimolante”

La lingua e la fotografia. Due forme di comunicazione che corrono su binari paralleli, ma che spesso s’intersecano tra loro, plasmando un connubio di rara importanza e bellezza. È il caso, per esempio di Alaric Bey. Le sue composizioni visive parlano ad ogni spettatore, raccontano storie di uomini e momenti, di luoghi dove il tempo pare cristalizzato, di sport millenari e incontaminati terreni rossi. La lingua per entrare in contatto, il dialogo per comprendere e, solo in un secondo tempo, catturare quello che si trasforma in molto più di un semplice scatto, diventando un profondo romanzo visuale popolato da esseri umani. Questo è il processo che accompagna l’opera documentaristica di questo trentenne francese. Nella propria quotidianità Alaric lavora nel mondo dei profumi, ma lo scorso anno ha deciso di abbandonare routine e ufficio per assaporare l’unicità asiatica e sudamericana con la macchina fotografica in mano.

“Ho sempre amato la street photography, mi è sempre piaciuto rubare scatti. Quando tutto è ordinato non mi convince. Devo sentire l’emozione, devo sapere di ritrarre qualcosa che non è replicabile, che immediatamente dopo il click è destinato a svanire per sempre. Ho iniziato a scattare con l’iPhone ed era facile, nessuno mi vedeva, nessuno mi notava. Con la macchina fotografica, però, tutto è diventato diverso: i soggetti non si fidavano, erano reticenti, e la mia Canon era sprovvista di un obiettivo professionale, quindi non potevo fotografare da lontano o in movimento. Così ho deciso di osare. Sono timido di natura, ma la paura non mi ha bloccato e ho iniziato ad avvicinarmi, a parlare, a presentarmi e ad ascoltare storie personali. Improvvisamente la gente ha cominciato ad aprirsi e a consentirmi di scattare. In quel momento ho capito la bellezza del rapporto tra dialogo e fotografia. In Moldavia, per esempio, ho aiutato una madre a trasportare del mais. Viveva in un villaggio disperso nel nulla e abitato solo da anziani, mi ha spiegato che tutti i giovani erano andati all’estero a cercare fortuna e che uno dei suoi figli era riuscito a laurearsi ad Harvard… Era sinceramente felice perché, nonostante il costante decremento demografico, i membri del villaggio sapevano e sanno che un’intera generazione sta trovando una vita migliore in giro per il mondo”

Kirghizistan, Kazakistan, Moldavia… I passi di Alaric nel cuore dell’ex URSS hanno tastato strade e contesti che non sono stati cambiati dal corso del tempo. La sua ricerca, ispirata dalle poesie visuali di Steve McCurry, si è concentrata principalmente su un secolo che sta rapidamente svanendo davanti alla globalizzazione digitale e ai flussi migratori: il Ventesimo. La sua Canon ha catturato testimonianze che presto diventeranno pagine di libri di storia, ma anche giochi tradizionali in grado di resistere a imperi ed evoluzioni tecnologiche, come il Kok-Boru.

“Ho letto di questo gioco per la prima volta nel libro ‘I Cavalieri’ del giornalista e romanziere Joseph Kessel. Lui l’aveva osservato in Afghanistan, io ho avuto la fortuna di ritrovarlo in Kirghizistan. È un antichissimo gioco mongolo, una sorta di football americano giocato con una carcassa di un agnello. I giocatori solitamente riempiono la carcassa con la sabbia, formano due squadre, e hanno come obiettivo quello di portare la carcassa nella meta avversaria (una zona circolare a forma di ruota). Questo sport è rimasto nel dna di molti popoli nomadi delle terre ex sovietiche. Ho chiesto al capo di un villaggio, una scheggia abitativa circondata da montagne, di organizzare una partita. La mia guida mi ha consigliato di stabilire un premio in denaro, in modo da far competere al meglio i giocatori, e ho cominciato a scattare. Questo gioco continua a rimanere uguale da migliaia di anni: è un qualcosa che mi meraviglia. Avrei solo voluto osservare di più la partita e fotografare di meno, era un momento così incredibile…”

E anche lo sport nella filosofia di Alaric diventa un mezzo di comunicazione e condivisione. In un italiano più che fluente, ennesima dimostrazione di un poliglottismo di alto livello, Alaric spiega di sentirsi un privilegiato e, contemporaneamente, ammette di non aver ancora completamente processato la dicotomia viaggio-vita reale a cui è stato recentemente esposto. Citando ‘Il Postino’ di Troisi e ‘La Grande Bellezza’ di Sorrentino, evita di definirsi esploratore, riferendosi a sé stesso semplicemente come a un fotografo che vuole mostrare la grandiosità della bellezza umana. Una bellezza che può essere ritrovata in una nebbiosa giornata degli Emirati Arabi Uniti, così come davanti ad una vecchia televisione di un villaggio mauritano e ad una scolorita partita della Francia. Una bellezza che questo giovane fotografo francese continuerà a cercare anche nella sua prossima fuga artistica, e non solo, in Estremo Oriente.

“La mia filosofia artistica è guidata in particolare da una frase pronunciata ne ‘La Grande Bellezza’: “È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza”. Credo sia racchiuso tutto qui. E mi sento un privilegiato nell’avere la possibilità e i soldi per osservare questi sparuti incostanti sprazzi di bellezza. Molti di essi vengono prodotti dallo sport e dalle sue valenze sociali. Penso per esempio alle vogatrici inglesi che ho fotografato a Dubai. Spesso c’è molta nebbia in città, tutto diventa bianco. Ho fotografato alcuni dei giganteschi palazzi di centinaia di piani che venivano avvolti, come se fossero delle montagne, da questa coltre. Poi ho camminato per un po’ in mezzo a quell’atmosfera misteriosa e fantastica, e ho scorto quelle ragazze che si allenavano sulla barca… Sono un appassionato di sport, soprattutto di calcio. E il calcio è il miglior mezzo di comunicazione al mondo. Una volta mi trovavo in una zona remota della Mauritania e tutto il villaggio era riunito attorno a una televisione, erano tutti seduti su un tappeto per ammirare i Mondiali e mi hanno subito accolto tra loro. Anche in Oman, nel mezzo del nulla, ho visto persone che giocavano a calcio con vestiti tradizionali… Il calcio è magico. Ora sto organizzando il mio prossimo itinerario: l’anno prossimo andrò in Giappone per la mia luna di miele, non vedo l’ora di scoprire anche quella cultura”

IG: Alaric Bey
Text by: Gianmarco Pacione