The Speed Project, dove il running diventa partecipazione radicale
Nils Arend, fondatore dell'evento The Speed Project, racconta la sua visione del running e il nuovo, suggestivo capitolo cileno del suo evento
NO RULES. NO SPECTATORS. The Speed Project non è una gara di corsa, è una collettiva esperienza radicale, è la bellezza della fatica applicata al contesto naturale, è un provante viaggio dentro e fuori sé stessi. Nato da un'estemporanea epifania di Nils Arend, questo evento estremo sta festeggiando il decimo anno di vita e, per l'occasione, ha abbandonato la Death Valley, il bollente deserto tra Los Angeles e Las Vegas divenuto casa per i suoi runner. Il nuovo, simbolico traguardo di quest'edizione è situato invece nell'esotico Sud America, lungo la suggestiva route cilena dell'Atacama. Le parole di Nils Arend introducono l'essenza di una gara unica al mondo e ci parlano di quest'innovativo e atipico capitolo di The Speed Project.




Come nasce la tua passione per il running e qual è stata la genesi del The Speed Project?
Il primo contatto con il running si perde nel tempo. Avevo 14, 15 anni, ed studiavo in un collegio. La notte evadevo per suonare con una band punk rock, e portavamo sempre con noi delle scarpe da running. Quando rientravamo ci cambiavamo le scarpe e i vestiti, facendo finta di essere tornati da una corsa all'alba... All'epoca ero più interessato a sport come lo snowboard e il wakeboard, solo verso i 20 anni, quando ho deciso di trasferirmi dalla Germania agli USA, il running ha iniziato a giocare un grande ruolo nella mia vita. Per celebrare il mio passaggio oltreoceano, io e il mio coinquilino abbiamo deciso di correre la maratona di Amburgo, e per la prima volta mi sono sentito realmente immerso in questo sport. Quando sono arrivato ad LA non conoscevo nessuno, non avevo soldi e la mia lingua era basica. Quindi il running è diventato uno strumento essenziale per esplorare la città. Dopo un paio d'anni ho partecipato a un primo grande evento, una maratona, e mi sono reso conto di quanto fosse regolamentato. La cultura della gara, nel running, mi sembrava all'opposto rispetto a ciò che avevo vissuto in altri sport. Allora ho deciso d'iniziare delle avventure a piedi a modo mio.



La bollente Death Valley come s'inserisce in questo processo di studio, comprensione ed evoluzione della running culture?
La prima idea è stata quella di correre da un punto A a un punto B. Lo facevo in pausa pranzo con un mio collega. Poi, durante le vacanze, ho deciso di correre da casa mia a casa sua, attraversando tutta Los Angeles. Sono partito da Venice per giungere a Long Beach, passando attraverso porti e paesini di pescatori. Ho amato le giustapposizioni, i contrasti di quella corsa. E durante quelle ore ho iniziato a maturare l'idea The Speed Project. All'inizio ho organizzato alcune wild ride con i miei amici, abbiamo anche girato un film, e mi sono reso conto di quanto questo tipo di esperienze potessero avere un impatto sulle persone. Così mi sono preso la responsabilità d'invitare altre persone, di condividere queste run. Non promettevo loro enormi cambiamenti personali, garantivo solo un'esperienza radicale, che ho fatto coincidere con il deserto della Death Valley. La community e la sua espansione sono le principali ragioni, poi, per l'esistenza e lo sviluppo di The Speed Project.



Avresti mai immaginato che saresti riuscito a coinvolgere crew e runner di tutto il mondo in questo tuo progetto?
Assolutamente no. Sono meravigliato da quante persone negli anni siano state attirate da questo evento. È estremamente bello e appagante. Così come è bello vedere il lavoro creativo che stanno portando avanti. Non posso negare che la prima volta che abbiamo invitato runner esterni alla nostra community originaria ero nervoso, le persone volavano da diverse parti del mondo, prendevano ferie e spendevano soldi solo per essere parte del The Speed Project... A volte sento ancora questa sensazione nello stomaco. La cosa che più mi eccita è il coinvolgimento creativo di questi runner e di chi li accompagna. Ogni edizione emergono così tante prospettive e storie differenti... Penso che questo evento sia una sorta di casa per l'evoluzione del running, che ormai non può più essere semplicemente definito come un movimento sportivo. E il concetto di partecipazione radicale indica proprio la nostra volontà di andare oltre l'elemento atletico e i limiti fisici.



A proposito di evoluzione, questa volta avete deciso di affacciarvi su un nuovo Paese, il Cile...
Siamo qui perché ci piace comunicare con la nostra community. Ascoltiamo ogni idea, anche se poi non riusciamo a concretizzarla. Durante la pandemia abbiamo creato un photo contest con Laica, coinvolgendo runner da 50 Paesi differenti. Un fotografo cileno ha vinto ed è stato invitato a Las Vegas con il suo team. Così ci ha raccontato di questa route cilena e abbiamo deciso di provarla. Quest'esperienza è parsa da subito l'ideale passo in avanti per The Speed Project. Il 10º anniversario è parso il momento migliore per introdurre una versione alternativa, sviluppata ad Atacama. L'evento è sicuramente ancora più difficile e radicale, e abbiamo scelto un piccolo gruppo di partecipanti di cui abbiamo massima fiducia per affrontare quest'esperienza. È un vero e proprio esperimento. Ovviamente il nostro viaggio non si limita al running. Durante questi mesi di organizzazione abbiamo esplorato e provato a comprendere la cultura locale, così come i problemi che affliggono questa zona geografica. La natura nei pressi d'Iquique è gravemente danneggiata dall'afflusso di vestiti che arrivano da altri Paesi e che qui vengono smaltiti nelle dune del deserto... Per questo abbiamo deciso di collaborare con associazioni locali, sensibilizzando la nostra community riguardo questo tema, e creando del merchandise speciale, prodotto riutilizzando questi capi. È un piccolo gesto che, però, ci rende orgogliosi di avere portato in Cile The Speed Project.
Francesco Puppi e Cesare Maestri, il running è un'emozione condivisa
Grazie a Nike Trail viaggiamo nelle storie e nei pensieri dei due runner più rappresentativi dell'universo trail italiano
Alcuni atleti riescono a cambiare la percezione del proprio sport, portandolo in una dimensione futura e inesplorata. Francesco Puppi e Cesare Maestri ci stanno riuscendo sul suolo italiano, mostrando da anni gli eterogenei significati del trail, le sue potenziali diramazioni sportive e professionali, e il suo innato legame con l'elemento naturale. Sono runner, divulgatori (più o meno consapevoli), attivisti e, soprattutto, amici. Sono uomini pensanti, capaci di condividere esperienze e ragionamenti atipici, ponendoli sempre in relazione con una passione totalizzante. Sono pioneristici atleti Nike, che abbiamo avuto la fortuna d'incontrare in occasione della presentazione delle innovative Ultrafly Trail, venendo introdotti alla solidità di un legame umano iniziato nel lontano 2013 e destinato a durare nel tempo. Le loro voci hanno dato vita ad un ritratto di coppia che parla di umiltà, maturazioni parallele e un'intensa attenzione verso l'elemento naturale.

Ricordate le prime esperienze e i punti di riferimento che vi hanno fatto innamorare del running? E come si è evoluta nel tempo la vostra identità sportiva?
Francesco Puppi: "Ho iniziato a correre prestissimo, da bambino, ad appena 6 anni. La corsa mi ha accompagnato lungo tutto il percorso di crescita, dividendosi tra campestri, pista e atletica classica: ambienti che sento ancora molto affini. Ho sempre seguito l'atletica, guardando meeting, Olimpiadi e Mondiali, e leggendo quante più cose possibili. Da ragazzo simpatizzavo per Paul Tergat, con cui ho anche avuto la fortuna di correre durante un evento a Brescia. Mi affascinava la sua atipica storia sportiva e il fatto che fosse un underdog, costantemente oscurato da Gebreselassie. Ho avuto la fortuna d'approcciarmi all'endurance molto presto, cosa che mi ha anche creato dei problemi: la prima mezza maratona, per esempio, l'ho dovuta correre in Svizzera, perché ero troppo giovane per i regolamenti italiani. Nonostante tutto la passione ha sempre continuato ad essere fortissima e, una volta arrivato il periodo universitario, ho iniziato a definire quello che sarebbe diventato il mio percorso professionale nel trail e nella corsa in montagna. Ancora oggi mi ritengo un nerd e un appassionato assoluto del running. Ovvio, sento responsabilità maggiori dovute al professionismo e al fatto di essere pagato per correre... Ma la gioia d'allenarmi è rimasta intatta. Credo che potrei essere un atleta senza gareggiare, ma non senza allenarmi: fa parte del mio stile di vita, è la mia forma di libertà, che s'irradia anche nella dimensione artistico-creativa"
Cesare Maestri: "Al contrario di Francesco ho iniziato a correre tardi, verso i 17 anni. In precedenza facevo sci di fondo nel mio Trentino. Sono stato scoperto durante le corse campestri scolastiche da Marco Borsari, una persona molto importante per la mia carriera, e in un attimo mi sono ritrovato a condividere le sessioni d'allenamento con i Crippa. Mi sono istantaneamente innamorato dell'atmosfera e dell'ambiente running, e ho capito che la corsa in montagna sarebbe stata la mia specialità. D'altronde mi veniva più naturale correre nei boschi e nei sentieri, era una questione di origini e abitudine... Stefano Baldini e Kílian Journet sono due atleti che sicuramente mi hanno ispirato. Ricordo ancora di aver incontrato il primo nel mio paese: dopo averlo visto vincere ad Atene in TV pensavo fosse un mito inavvicinabile. Il secondo, invece, mi ha dato la possibilità di sognare. All'epoca il trail era una nicchia quasi invisibile, Journet ha aiutato me e tanti altri a conoscere questo sport e le sue peculiarità. Durante i primi anni di attività sentivo il bisogno di fare determinate tipologie d'allenamento per convincermi che potevo andare forte, finendo per infortunarmi. Ora ho imparato ad ascoltarmi e gestirmi, a farmi spaventare di meno da ciò che mi circonda o attende, e la mia corsa si è evoluta in maniera naturale"


Parlando di figure chiave nello sviluppo di un movimento sportivo, è innegabile il vostro apporto nell'apertura del trail ad un pubblico italiano sempre più ampio. Cosa significa per voi essere delle fonti d'ispirazione per i runner nostrani?
Francesco Puppi: "Penso che ogni atleta abbia una propria inclinazione, non è strettamente richiesto che abbia una missione di 'evangelizzazione' sportiva. Come runner possiamo incidere su vari livelli: quello agonistico, dove io e Cesare abbiamo dato un grosso contributo in termine di vittorie e tipologie di gare effettuate, uscendo dalla dimensione locale e nazionale del trail; quello professionale, dove siamo stati tra i primi a rendere questo sport un lavoro in Italia, mostrando, grazie Nike, percorsi alternativi rispetto a quelli canonici dei corpi sportivi; infine quello divulgativo, a cui tengo molto e dove mi sono sempre sentito a mio agio. Raccontare esperienze, studiare le dinamiche del mio sport, gli attori che gli danno forma e comprendere le sue future direzioni è un qualcosa che mi è sempre piaciuto. Sotto questo punto di vista sento di aver portato un contributo attraverso il mio blog e podcast, ma anche costituendo un'associazione che riunisce gli atleti professionisti di quest'ambiente (Pro Trail Runners Association)"
Cesare Maestri: "A livello social e di attività divulgative non sono così costante come Francesco. Non sempre mi sento di condividere quello che penso o provo, cerco piuttosto di raccontare quello che faccio come atleta, spiegando allenamenti e sensazioni, motivando la scelta di una gara e mostrando il mio avvicinamento ad essa. Negli anni siamo riusciti a trasmettere il concetto che un atleta debba stare bene in primis con sé stesso e trovare un proprio equilibrio fisico e mentale. Contemporaneamente abbiamo sfatato tanti falsi miti, per esempio dimostrando che gli ultrarunner possono essere competitivi anche su strada, e viceversa. Pensate all'Italia di una decina d'anni fa: chi correva in pista aveva una mentalità chiusa, e lo stesso valeva per chi era impegnato nel trail. Noi abbiamo dimostrato che questi due universi possono convivere, che si può essere runner completi e polivalenti..."

Quali sono stati gli step più importanti, fino ad oggi, nella vostra carriera e come si sono inseriti nella costruzione del vostro rapporto di amicizia?
Francesco Puppi: "Potrei citare tanti momenti, a partire da quella prima mezza maratona svizzera, corsa a 13 anni. Spesso dall'esterno le persone immaginano che esistano vittorie o piazzamenti in grado di cambiare diametralmente il corso di una carriera... Non è il mio caso. Penso invece di aver vissuto una serie di cambiamenti piccoli e graduali. Per me, come per Cesare, il cammino nel trail è stato diverso rispetto a quelli di tanti atleti contemporanei, che hanno molte più opportunità. Negli anni abbiamo accumulato performance che hanno contribuito a farci diventare quello che siamo oggi, ma non ci sono stati eventi o gare spartiacque. Il Mondiale in Patagonia del 2019 ha sicuramente un particolare valore, io e Cesare abbiamo vinto l'argento in specialità diverse, e quei risultati ci hanno permesso di entrare realmente in contatto con Nike. La nostra amicizia nasce ben prima di questo evento, ma in Patagonia è sicuramente cresciuta, ci siamo ritrovati accomunati da un'esperienza vissuta parallelamente e da un'affine lunghezza d'onda di pensiero. Come altri momenti peculiari potrei citare le Golden Trail World Series 2021 o l'UTMB di quest'anno, dove sono arrivato a podio nella 50km. Tendo, però, a non dare importanza alle singole, eclatanti imprese che ottengono grande risonanza sulla stampa e sul web. Preferisco pensare che io e Cesare abbiamo dimostrato solidità e continuità lungo tutta la nostra carriera"
Cesare Maestri: "Anche nella mia visione tutto tende ad essere progressivo e lineare. Un anno chiave è stato senza dubbio il 2015, quando ho recuperato da un grosso infortunio che mi ha fermato per 7 mesi. L'anno successivo ho conquistato la convocazione in Nazionale e mi sono ritrovato a duellare spalla a spalla con i gemelli Dematteis in varie gare. Prima di quella stagione li pensavo irraggiungibili, è stato un segnale particolarmente significativo, che ha decisamente aumentato la mia consapevolezza. Il Mondiale in Patagonia è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita, ed è stato particolarmente bello condividere quel risultato con Francesco. L'origine del nostro legame risale in realtà al 2013, quando ci sfidammo in volata durante la Scalata della Maddalena, gara di 7km in salita sull'asfalto. Provo sempre grossa soddisfazione nel correre gare atipiche o iconiche come il Campaccio e i Cinque Mulini, anche se non sono propriamente connesse al trail e alla corsa in montagna. Io, poi, sento ancora un forte attaccamento alla maglia Azzurra: rappresentare l'Italia in grandi palcoscenici, insieme a compagni-amici, smuove sempre qualcosa di speciale dentro di me"


Il vostro rapporto umano e le vostre esperienze individuali sono segnate anche da una spiccata sensibilità verso il tema ambientale, ce ne parlereste?
Francesco Puppi: "È un tema importante e complesso, soprattutto in un periodo storico in cui viene sempre più cavalcato per ottenere attenzioni e pubblicità. Come atleti siamo personaggi pubblici e abbiamo un ruolo, dobbiamo fungere da esempi, senza dimenticare che ognuno di noi, poi, ha la propria coscienza e impronta ecologica. L'ambiente mi sta particolarmente a cuore perché, grazie alla mia attività sportiva, vivo costantemente in sinergia con la natura. Inoltre parte dei miei studi universitari si sono concentrati su questo argomento. Al contrario di Cesare, che è impegnato professionalmente nell'ambito delle energie rinnovabili, affronto il tema ambientale con il punto di vista di un atleta che pratica uno sport green come il trail e, conseguentemente, è tenuto a chiedersi che tipo di messaggi stia trasmettendo in merito. Io e Cesare ci scambiamo quasi ogni giorno dei lunghi audio su WhatsApp e, quando c'è l'occasione di vedersi, condividiamo le nostre opinioni a riguardo. Siamo profondamente legati alla montagna, l'impatto che hanno certe attività sui suoi ecosistemi ci tocca: penso, per esempio, all'innevamento artificiale nell'industria dello sci. In generale è bello osservare come sempre più atleti e organizzazioni stiano prendendo in considerazione questa tematica. Mi sento di dire che sti sta procedendo nella giusta direzione"
Cesare Maestri: "Prima che come atleta, questo tema mi tocca come persona. Me ne sono appassionato alle superiori, ho scritto anche la tesina sulla sostenibilità ambientale, e all'università ho studiato Ingegneria Energetica. Attualmente lavoro part-time come ingegnere nell'ambito della progettazione, e sono concentrato sul fotovoltaico. Spero, almeno in parte, di dare un contributo tangibile, anche se parliamo di una guerra estremamente difficile da combattere... La mia speranza è che a livello globale si agisca per trovare coralmente delle soluzioni efficaci. Il nostro sport, poi, non fa che sublimare il contatto con la natura, le montagne e l'ambiente esterno. Per questo è necessario sensibilizzare in occasione di ogni evento. Al di fuori delle gare imprescindibili, cerco sempre di valutare a fondo ogni manifestazione e di scegliere quelle che condividono al meglio i valori ambientali. Io e Francesco siamo accomunati da questa sensibilità, il legame con Nike ci permette di svilupparla con consistenza e d'incidere positivamente con differenti modalità e attività. Quando condividiamo un progetto con il brand, il nostro primo pensiero va sempre all'ambiente e a creare qualcosa di coerente con la nostra filosofia e con il nostro pensiero"


Abbiamo già toccato il connubio tra voi e Nike Trail. Com'è stato plasmare questo rapporto e quanto ha cambiato le vostre prospettive? Le nuove Nike Ultrafly Trail sono il manifesto di un brand che vuole sempre più parlare di running in natura?
Francesco Puppi: "Nike è stata la prima grossa occasione lavorativa correlata allo sport, qualcosa di veramente grande, che ho avuto la fortuna di portare avanti insieme a Cesare. Quando siamo entrati in contatto con il brand eravamo atleti simili, ora partiamo da presupposti simili, ma a livello di attività ed espressione abbiamo preso strade leggermente diverse. La mission di Nike è chiara, aiutare gli atleti ad esprimere al massimo la loro performance, e le Nike Ultrafly Trail s'inseriscono appieno in questa volontà. Rispetto al reparto road e all'atletica classica, nel trail è veramente difficile produrre una scarpa. Le variabili in gioco sono infinite e un singolo prodotto deve servire al maggior numero di atleti nel più vasto spettro di situazioni... Non credo possa esistere una scarpa trail perfetta, esiste invece la scarpa trail adatta a determinate condizioni per uno specifico atleta. Le Ultrafly Trail sono interessanti, sono un prodotto focalizzato prevalentemente sulla competizione e sviluppato da runner americani d'élite, che hanno dato alla scarpa una chiara impronta US"
Cesare Maestri: "Quando pensi a Nike, pensi al top mondiale, ma per noi è stato quasi un salto nel buio. Prima del Mondiale 2019 abbiamo deciso di provare a costruire questo rapporto, poi siamo stati fermati dalla pandemia. I referenti Nike, però, hanno sempre creduto nel nostro progetto atletico e nel 2022 ci hanno permesso di diventare parte del brand. Siamo fortunati, perché questa sinergia non si limita al prodotto, ma ci dà la possibilità di proporre e condividere idee riguardo l'evoluzione delle scarpe trail: cosa tutt'altro che scontata. Le Nike Ultrafly Trail mi hanno reso molto contento, avevo già provato un prototipo simile l'anno scorso, che mi aveva piacevolmente sorpreso, e ora sto usando questa scarpa in molte gare. Più di questo, mi rende felice il fatto che Nike abbia una visione innovativa legata al trail, che non si limita alle scarpe. C'è tanta sperimentazione in corso e sto assistendo a dei progressi annuali... Mi sento veramente onorato di far parte di questo brand e spero che i progetti comuni continuino ad evolversi nel futuro"
Watchlist - Higuita: The Way of Scorpion
Netflix racconta la vita del più estremo e controverso portiere della storia del calcio
“Il calcio è come la vita, attraversi momenti buoni e momenti cattivi”. Il trailer di ‘Higuita: The Way of Scorpion’, nuova serie Netflix dedicata ad uno dei portieri più iconici della storia del calcio, racchiude in questa frase l’essenza di un atleta ed essere umano tanto controverso e criticato, quanto spettacolare e amato. René Higuita è stato la definizione più estrema di guardiano dei pali. Colorato, temerario e incosciente, le parate di questo giocoliere colombiano apparivano come continui miracoli profani e sfide ad una secolare, immutabile tradizione sportiva.

Genio o follia, mai è stato chiaro il confine tra queste due componenti in uno dei più esotici artisti del fútbol, capace di teorizzare l’immortale signature move dello ‘Scorpione’ e segnare oltre 40 gol su punizione in carriera, ma allo stesso tempo di ammettere pubblicamente l’amicizia con Pablo Escobar, così come di finire in prigione per sette mesi a causa di un sequestro di persona. Nulla è stato chiaro nella vita d’Higuita. Troppo, sicuramente, è stato scuro, o meglio oscurato dalla magia della sua personalità, dei suoi voli d’autore e dei suoi dribbling spericolati.
Forse sarà Netflix, tornando indietro nel tempo e scavando nelle turbolente memorie d’Higuita, a spiegarci la reale via dello Scorpione. Per il momento non possiamo che rievocare la sua figura mistica con una galleria d’immagini.


Testi di Gianmarco Pacione
Photo credits: IMAGO Magic / HJS / Buzzi
A Georgian Myth , Kazbbegi trail with techunter
TECHUNTER takes us to the Kazbegi Mountain Marathon and the Georgian outdoor universe
The TECHUNTER team ventured into the mountains of Georgia, specifically the region around mount Kazbek, to explore its surroundings, history, geography and the legendary Kazbegi Mountain Marathon. Along with runners and friends Jodie and Giuliano, the team took on the 10km and 30km distances of this breathtaking skyrace. They also spent some quality time in the mountains prior to the race and decided to share their experience with us. Enjoy.



Mount Kazbek is a stratovolcano. It consists of many layers (strata) of lava and other material that comes out of a volcano during eruptions, and it usually cools and hardens before spreading too far from its source. This is a reason for the steep profile of such mountains. The summit of the great mountain was first climbed in 1868 by D. W. Freshfield, A. W. Moore, and C. Tucker of the Alpine Club, with the guide François Devouassoud. They were followed by female Russian alpinist Maria Preobrazhenskaya, who made the climb nine times starting in 1900.

The Mountain is situated in the middle of the Greater Caucasus. Standing 5054 meters above sea level, Mount Kazbek is the 6th tallest in the whole Great Caucasus and is the 2nd tallest volcanic-type peak in the Caucasus, outmatched only by the mighty Mount Elbrus. Mount Kazbek is the 5th highest ultra-prominent peak (1.500 m. above its surroundings) in all of Europe and is taller than any other peak in the continent, except the Great Caucasus mountains. It is located to the west of Stepantsminda town (formerly known as Kazbegi) and together with a nearby Gergeti Trinity Church dominates the landscape.



The Georgian name for the mountain is “Mkinvartsveri”, meaning, not directly, “the Glacier Peak” and in a language of local Nakh people – “Molten Mount”.
The mountain finds itself a center for many legends from all around the world. One of the most famous ones is of Prometheus. As the story goes, after giving the fire to mankind, Zeus ordered Prometheus to be chained to Mount Caucasus, where a raven was sent to peck at his liver. It is not confirmed whether Prometheus was chained to Mount Kazbek exactly, as authors refer to a peak in the Caucasus without naming the exact place, yet there is an interesting parallel to Georgian legend, where another god-like being – Amirani, challenged God and after losing the battle was chained to what Georgians call Mkinvartsveri – modern Kazbek.



Within the mountain itself lies probably the most mysterious place in all of Georgia – Betlemi cave. There is a legend among the local peoples, that when Mongols invaded Georgia, young warrior-men rushed with horses to the cave to hide the most important treasures of the country. Willing to keep the secret at all costs, men took their own lives. The cave, closed by an iron gate, would be accessed only by the one of pure heart, when a chain tied to the mountain revealed itself, which granted access to the cave. Another connection to Prometheus. The cave is even related to Abraham’s tent and the Golden fleece, which according to the legend was hidden in Colchis (modern day Georgia). This is where Jason and the Argonauts set out to look for it.




Kazbegi Mountain Marathon is an annual skyrace held in Georgia in September. The marathon is included in the UTMB® World Series Qualifiers, certified by the International Trail Running Association (ITRA) and courses through the Caucasus Mountains in the northern part of the country. The starting and finishing points are in the town of Kazbegi located on the historical military road. The Kazbegi Mountain Marathon is both the largest as well as the first mountain racing event held in the Caucasus.
Over the years the race offered different routes: 4km Fun run (elevation gain 300m), 10km Trail run (e.g. 900m), 15km Skyrace (e.g. 1,300m), 30km Extreme distance (with elevation gain of 2,500m, which requires pre-qualification for each runner).




The marathon is organized by TrailLab and attracts athletes from USA, Germany, England, France, Italy, Japan, Germany, Kazakhstan, Israel, Kenya, the toughest local runners, as well as runners from the immediate neighboring Armenia, Azerbaijan, Turkey and Russia. The breathtaking Extreme route takes the elite participants from the Gergeti village at the 2000m altitude through the stunning Gergeti glacier up to the Bethlemi Hut and weather station at the 3700m of elevation, where mountaineers take refuge before summiting Kazbek itself.
This first and the main accent is going straight from the starting line to the top, which means you’re getting 95% of your altitude gain during the first 10km. If you were fortunate enough to reach the weather station within the cut-off time, a long downhill awaits you from the peak to the valley below. Roughly, the race is like you attempting to climb the Kazbek, at a running pace, and at the base camp you realise you forgot all of your mountaineering equipment and swiftly run back.
The race was a culmination of the TECHUNTER team exploration of the Kazbegi region, and their athletes were fortunate enough to face all of the skyrace’s high-altitude difficulties and successfully finish this adventure. The entire journey was portrayed through Ivan Dzhatiev’s lens.
Testi di Gianmarco Pacione
Content creators: Techunter Magazine
Vibram, la tradizione della suola diventa progresso e sostenibilità
Da Vitale Bramani alle innovazioni tecnologiche e all’impatto ambientale, viaggio nell’universo giallo della sicurezza outdoor
Albizzate è una località sospesa nel tempo, ha il volto del tipico paese del varesotto, antitetico se paragonato alle vicine frenesie milanesi. Eppure, l’essenza di questo placido luogo è attraversata da innovazioni e tecnologie, da una virtuosa ricerca futuristica iniziata nel lontano 1937 e tesa, oggi più che mai, verso la condivisione di una cultura fondata sulla performance, sicurezza e sostenibilità. È qui che ha sede Vibram, la visionaria azienda plasmata da Vitale Bramani e dal suo desiderio di connettersi al meglio con la montagna e la natura tutta. È qui che viene racchiusa l’essenza di un’eccellenza globale della creazione, così come della riparazione, di suole destinate all’universo outdoor e ai suoi eterogenei protagonisti.

“Il nostro fondatore era un grande alpinista e venne scioccato da un fatto preciso, avvenuto nel 1935. Stava affrontando una via sulla Punta Rasica insieme ad altri scalatori. A causa di condizioni meteo estremamente avverse, alcuni di loro non riuscirono a fare ritorno a casa”, racconta Federico Clerici, Sports&Outdoor Marketing Coordinator, accogliendoci tra mura che trasudano tradizione e progresso giallo, “Bramani cominciò ad analizzare le cause di quella tragedia e individuò uno dei maggiori problemi nella bassa qualità dei materiali delle scarpe. A due anni di distanza dall’incidente, grazie alla sinergia con Pirelli, venne creata la gomma che diede vita all’iconica suola carrarmato. Suola che nel 1954 entrò nella storia sportiva, equipaggiando gli scarponi Dolomite e conquistando il K2 insieme alla Spedizione Italiana”
Pubblicazioni specializzate e attrezzature tecniche circondano le parole di chi dà l’impressione di rappresentare non tanto un brand, quanto una filosofia. Paiono tasselli di un museo in costante divenire, dedicato all’incidenza che Vibram ha, fin dalla sua genesi, nel rapporto tra l’essere umano e ciò che lo circonda, lo sovrasta e lo sfida, affascinandolo e appagandolo. “Ora produciamo circa 300 modelli diversi di suole all’anno, nonostante la crescente connessione con il mondo lifestyle continuiamo ad orientare le nostre attenzioni verso la performance e la sicurezza. Per questo motivo testiamo, testiamo e testiamo. Vogliamo garantire prodotti di estrema qualità e, per farlo, ci affidiamo a 3 fasi complementari: il laboratorio e i relativi studi chimico-fisici, l’analisi in ambienti controllati e le prove in situazioni reali, legate al nostro Team di atleti e tester”



Quando fa riferimento al pool di sportivi legati a Vibram, Federico Clerici chiama implicitamente in causa anche sé stesso e i propri colleghi. Perché gli ampi spazi della sede di Albizzate sono attraversati da profonde energie e competenze atletiche. Chi lavora per Vibram lavora per la propria passione, e viceversa. Questa è l’originale impressione veicolata dalle molteplici testimonianze di professionisti che, nel tempo libero, si trasformano in sportivi outdoor. Esperti a tutto tondo, uomini e donne che vivono per e attraverso lo sport, traducendo esperienze e sensazioni personali nel proprio lavoro.
A rimarcare il concetto è il Tester Team Manager Vibram Giordano De Vecchi, scienziato alla costante ricerca della suola adatta ad ogni superficie, pendenza e condizione atmosferica: “È essenziale la nostra conoscenza sportiva. Nel nostro reparto, in particolare, dobbiamo interfacciarci quotidianamente con i tester esterni: ogni anno attiviamo circa 200 figure divise tra guide alpine, runner e altre tipologie di atleti. È fondamentale parlare il loro linguaggio, serve per processare al meglio ogni feedback e trasformarlo in nuovi design e miscelazioni”, rivela immerso in un ufficio uscito da un film Marvel, popolato da rampe di ultima generazione, simulatori di terreni e rilevatori di dati. “Lavoro qui da 8 anni e ho osservato vertiginosi progressi da un punto di vista tecnologico. Abbiamo introdotto tantissime migliorie, che permettono alle nostre suole di affrontare percorsi apparentemente inaccessibili. O meglio, che risultavano tali fino a poco tempo fa… Grazie ai test svolti qui e in ambienti esterni riusciamo a confrontare le misurazioni scientifiche con le percezioni umane. La valutazione soggettiva del livello di sicurezza è fondamentale, soprattutto se effettuata da atleti esperti. ‘Tester do it Better’, in fondo questo è il claim che accompagna il nostro lavoro”





Il Team Vibram, però, non si limita a testare le celebri suole dal dettaglio giallo. Successi e record sono difatti un altro capitolo centrale dell’azienda e dei suoi testimonial: lampi di superiorità atletico-tecnologica che, da un lato, spingono sviluppatori e designer al continuo miglioramento e, dall’altro, li ripagano concretamente, come conferma Lorenzo Cogo, Component Design & Development Coordinator: “È un’emozione vedere vincere gli atleti che utilizzano le suole su cui lavoriamo. Penso per esempio alle imprese di leggende come Kilian Jornet… Il prodotto finale che osserviamo in televisione o sui giornali è qualcosa su cui normalmente riversiamo per mesi le nostre attenzioni. Ecco perché ci sentiamo parte di queste imprese. Per i nostri design diamo la priorità alla funzionalità, ovviamente, soprattutto nel caso delle suole utilizzate per il trail. Sapere che i runner Vibram utilizzano le suole per 400, 500km, o addirittura oltre, ci garantisce costantemente di avere delle statistiche importanti su cui riflettere”.
Parlando di statistiche, numeri e palmares non hanno reso rarefatto o elitario l’ambiente di Albizzate. Inoltrandoci tra laboratori all’avanguardia, enormi e minuti macchinari, colorati stampi di gomma ed esperte mani, notiamo come la genuina tradizione Vibram tenga ancorata l’intera azienda ad una dimensione familiare. “È tutto unito, qui”, affermano coralmente gli esperti calzolai impegnati sia nella formazione di una nuova generazione di colleghi specializzati, che nella presenza attiva in occasione di manifestazioni sportive, vissuta a bordo dello speciale Mobile Truck di cui dispongono: “Abbiamo la sensazione che tutti i settori dell’azienda lavorino insieme. Vibram è un blocco unico, ognuno si sente coinvolto. Questo è un pregio insito nell’azienda fin dai suoi albori. Il nostro compito è quello di legare una pratica classica al nuovo corso delle cose. Il mercato della riparazione delle suole si è evoluto enormemente negli ultimi decenni e i nostri prodotti hanno giocato un ruolo chiave in questo sviluppo trasversale. Non è un caso che parte del nostro lavoro sia dedicato all’insegnamento. Al momento abbiamo certificato circa 200 calzolai premium sul suolo italiano: tutte figure preparate nella riparazione delle suole Vibram. Ma i nostri corsi sono ramificati in tutta Europa e in altri continenti, come Africa e Asia…”.







E la pratica di risuolatura è un sinonimo di sostenibilità: altro fondamentale pilastro della vision Vibram, che avevamo già avuto modo di esplorare e conoscere in occasione dell’evento organizzato congiuntamente con NNormal (rivoluzionario brand spagnolo legato al già menzionato Kilian Jornet) per celebrare la campagna ‘Repair if you Care’, lanciata quest’anno. Dare una seconda vita alle scarpe significa ridurre la produzione di rifiuti e il loro impatto sull’ambiente, aveva spiegato in quell’occasione lo Sport Innovation Global Director Vibram Jerome Bernard. Dare una seconda vita alle scarpe, significa fornire un servizio alla natura e perseguire concretamente l’approccio ‘The Sustainable Way’: parte integrante e costitutiva del pensiero Vibram, che oggi si sta espandendo in tutto il mondo, grazie ad un sempre più folto network di calzolai specializzati.





È un’onda gialla, quella di Vibram. Una propagazione d’intenti e volontà ormai giunta ad ogni latitudine del globo. Se lo storico polo di Albizzate risulta ancora essere il cuore pulsante del marchio dal logo ottagonale, l’intero universo outdoor è ormai divenuta la sua apolide patria. Una patria dove esportare conoscenze secolari, sofisticati avanzamenti e sensibilità ambientale: connubio cruciale per garantire una coscienziosa sicurezza a chi del mondo outdoor fa il proprio, adrenalinico, palcoscenico sportivo, ma anche a chi ne sta sempre più facendo la propria, rilassante, seconda casa. Suola dopo suola.
Testi di Gianmarco Pacione
Photo credits: Riccardo Romani
Youth in the Mediterranean: The Rowers
Maturing in the water, not only as athletes, thanks to the right leader
Glauco Canalis’ reportage has the flavor of fatigue and personal growth. It’s a photographic journey on the threshold of the Mediterranean sea: on the waves painted by vascular arms, by a coach-mentor and by teenagers looking for a reason to improve as athletes, as men. Buona visione.


This story is an extension of my ongoing research on youth in the Mediterranean. This time the focus is on the rowers: a tribe of blossoming teenagers building their bodies on land and shaping their minds in the sea waters.



The coach, Diego, is one of a kind. A Pirate-like character, long hair and narrow goatee, aka “il Dragone”. His methods are spartan but always uplifting and encouraging. He’s more interested in the content of his practices than in the form of them. He managed to raise ferocious athletes who gained gold medals nationally and internationally.




This photographic series aims to highlight the work dynamics within a team, but also the friendship and connection created by the group, by these young people, in order to achieve a goal that goes beyond the simple result of the competition: the construction of the various personality, of conscious men. A construction based on individual effort and mutual trust.
This story wants to celebrate the beauty of human maturity and the importance of having good leaders in a crucial and delicate moment such as adolescence.



Credits
Ph & Text by Glauco Canalis
IG @glaucocanalis
glaucocanalis.com
Creative Direction Giuliana Minaldi
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La nuova serie Netflix è un’ode al wrestling indipendente e alle sue irrazionali stelle
Quanti di voi conoscono la violenza glitterata WWE? E quanti di voi hanno assistito alla dinamica ascesa dell’AEW nella catena alimentare del wrestling? Probabilmente tutti voi avete incrociato, anche solo per un momento, una diretta televisiva di queste due potenze dell’entertainment. Ma chi tra voi ha mai assistito ad un pay-per-view della OVW, l’Ohio Valley Wrestling? Probabilmente nessuno. Perché questa lega indipendente è la storica sorella sfortunata delle grandi major del wrestling americano, è il paradiso dei puristi del ring e delle sue regole, tradizioni e leggende, è una fucina di talenti, che ha creato celebrity come John Cena, Randy Orton e Batista, ma è anche un’attività in equilibrio sul precipizio del fallimento.



La risurrezione economica di questa scalcinata, eppure affascinante promotion è al centro della serie ‘Wrestlers’, recentemente uscita su Netflix. L’avvento dei due businessman Matt Jones e Craig Greenberg ci permette di scoprire un universo parallelo, scritto e diretto dalla sola (impressionante) immaginazione dell’ex wrestler professionista Al Snow: un universo dove l’heritage conta più del profitto, dove la credibilità e l’ispirazione snobbano consapevolmente le leggi di mercato, e dove decine di atleti sognano di vivere grazie alla propria arte, collidendo spesso con una durissima realtà fatta di secondi lavori e difficoltà economiche. ‘Wrestlers’ è un’ode al wrestling indipendente e ai suoi eroi: esseri umani pieni di demoni, fratture emotive, contraddizioni familiari e passati controversi, che nell’adrenalina delle tre corde riescono a trovare risposte anche alle più complesse domande esistenziali.



Greg Whitley dirige una serie magica, che ci fa esplorare le tumultuose identità di performer di ogni dove (India compresa), così come la grande bellezza di una disciplina troppo spesso sminuita. Una forma d’arte che richiede tempi e qualità recitative. Un romanzo senza fine che cerca solo e unicamente la reazione dello spettatore e la sua fedeltà. Un teatro del dolore, plasmato da impatti acrobatici e interpretazioni tutt’altro che superficiali. ‘Wrestlers’ è una summa contemporanea di ambizioni, sacrifici, fallimenti e, soprattutto, irrazionale passione. La passione che spinge uomini e donne a sfidare i propri corpi e le proprie menti per vestire temporaneamente i panni di supereroi. Anche davanti a 30 persone. Anche per una manciata di dollari. Ecco perché ‘Wrestlers’ entra di diritto nella nostra Watchlist.
Credits
Netflix
Photo Credits
Gianmarco Pacione