The Seventh Issue
Muscoli e pensieri, viaggi rapidi e interminabili, poesie sportive. Athleta è di nuovo qui, con un’inedita veste grafica, con la consueta volontà di penetrare l’immaginario culturale sportivo. La copertina firmata da Neil Gavin introduce Athleta Magazine Issue 07 e gli ‘Stomping Grounds’ newyorchesi, cattedrali urbane consumate da mani e trazioni. Le stesse mani che abbracciano i macigni baschi dell’Harri Jasotzea: tradizione che si fonde, ad un oceano di distanza, con quella dei tuffatori di Acapulco, i ‘Los Clavadistas’. Di storia in storia, di tradizione in tradizione. Le flebili leve dei corridori kenyoti di ‘Home of Champions’ si muovono veloci come le rovinate lamiere dei Demolition Derbies, disordinati santuari dove l’America rurale trova il proprio paradiso. Rurale paradiso è anche quello dell’Atlas Race, viaggio esteriore e interiore nel suggestivo deserto marocchino: un itinerario sensoriale ricreato parallelamente nei panorami urbani di ‘Riding the Floating City’ e ‘Ballin Somewhere’, grazie alla forza artistica di skateboard e pallacanestro. Infine un salto nel futuro, nella meraviglia ingegneristica di Rizoma, l’atelier dei motori, il luogo capace di unire high-tech ed eleganza. Godetevi il viaggio.












Must watch: ‘Colin in Black & White’
Cultura, razzismo e classismo in una vita da quarterback, quella di Colin Kaepernick
Creata da Ava DuVernay, prima donna afroamericana a ricevere una nomination al Golden Globe per ‘Selma – La strada per la libertà’, e Colin Kaepernick, ex quarterback NFL dei San Francisco 49ers, passato alla storia come primo atleta dei majors sports USA ad inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale, ‘Colin in Bianco e Nero’ è una nuova, stimolante miniserie biografica disponibile su Netflix.
All’interno dei 6 episodi, la voce narrante dello stesso Kaepernick accompagna scene della propria adolescenza e profondi ragionamenti sociali. Il quarterback, ostracizzato dai campi NFL per il gesto di ‘kneeling’, forma di protesta contro la repressione delle minoranze statunitensi, mette a nudo la genesi del proprio pensiero, dei propri ideali, descrivendo una parabola cominciata con l’adozione infantile.
Cresciuto da agiati genitori bianchi, Kaepernick elenca una lunga serie di episodi di razzismo, più o meno evidenti, subiti in tenera età e in fase adolescenziale da persone a lui vicine, come allenatori e membri della piccola comunità californiana di Turlock. Episodi che, solo dopo l’acquisizione di una determinata consapevolezza culturale e sociale, hanno permesso a Kaepernick di formulare un lungo viaggio introspettivo e di porre le basi per il suo attivismo ormai noto in tutto il mondo.
Interpretato da Jaden Michael, Kaepernick descrive la sua lunga battaglia per diventare quarterback, una battaglia ostacolata da stereotipi razziali e, paradossalmente, dalla sua fenomenale predisposizione per un altro sport, il baseball. Durante questa difficile trafila sportiva, Kaepernick scopre e abbraccia la ‘black culture’, ispirato da personaggi come Allen Iverson e Spike Lee.


I diversi quadri narrativi ambientati tra casa Kaepernick e la Pitman High School, vengono intervallati da monologhi dello stesso Kaepernick che, impegnato ad osservare il suo percorso umano, crea connessioni tra il suo vissuto ed episodi che hanno segnato la storia afroamericana, non solo a livello sportivo. Le frasi di Kaepernick sono coltelli che s’infilano nelle piaghe della società americana, annotazioni di stampo antropologico dirette ed efficaci, che arrivano a proporre metafore significative, come quella tra lo schiavismo e le condizioni dei giocatori di football attuali.
“Non potevo ribellarmi perché non sapevo come fare. Ora lo so, e lo farò”. La ribellione di Kaepernick è passata dai campi NFL al piccolo schermo. Una ribellione che deve essere guardata, che deve essere compresa.

Il potere del gioco in Steve McCurry
I 10 migliori ritratti ludici del celebre fotografo americano
Cos’é il gioco per Steve McCurry? Cos’é il gioco per una delle lenti più famose della fotografia moderna? Nell’opera del nativo di Philadelphia questo concetto riveste un ruolo fondamentale, sprigiona tutta la propria forza primordiale, la propria capacità evocativa, il proprio fascino rituale.
Quella di McCurry è una rappresentazione huizingiana del gioco, una pratica libera, istintiva, tendente ad un piacere naturale, intrinseco all’essere umano. Classe 1950, il fotoreporter statunitense lungo i suoi numerosi viaggi ha documentato largamente questo fenomeno, studiando popoli e culture anche attraverso il mezzo ludico.

Membro dal 1986 del cenacolo Magnum Photos, McCurry è stato reso immortale dallo scatto ‘Ragazza Afgana’, realizzato in un campo profughi pakistano e rapidamente divenuto la fotografia più riconosciuta nella storia di National Geographic. Alcune delle sue moltissime mostre personali, organizzate a livello globale, hanno visto proprio il gioco come protagonista principale.
Un filo conduttore che qui abbiamo deciso di omaggiare, selezionando 10 scatti emblematici, altamente evocativi, capaci di definire la fotografia ludica di McCurry. Immagini, momenti che uniscono il Madagascar all’India, Il Myanmar al Brasile, in unico enorme parco giochi.








Shawn Stüssy e la genesi dello streetwear
Dalle onde californiane allo skate, dalle strade al ghota del panorama fashion. Storia di un visionario
“Avevo tutto quello che volevo, ma c’erano anche grandi responsabilità. E qual è il senso di avere tutto, se non puoi godertelo?”
Strana scalata, quella di Shawn Stüssy. Strano percorso, quello di un uomo che partendo dalle tavole da surf californiane è arrivato a vestire panorami underground e strade di tutto il mondo, generando di fatto il concetto di streetwear.
Strana scalata, quella di Shawn Stüssy. Strano percorso, quello di un ragazzo prima immerso tra cultura hippy e onde, poi divenuto guru della scena fashion globale, infine allontanatosi da tutto, da fama e riconoscimenti, per crescere i propri figli.
Una scalata anomala, un percorso che, da oltre trent’anni, continua ad ispirare sottoculture e celebri case di moda, skater e designer, stile ed estetica collettiva.

TRA TAVOLE E T-SHIRT, TRA CALIFORNIA E GIAPPONE
Erano i primi anni ’80 a Laguna Beach, erano gli anni di una ribellione già cominciata, mai codificata. Si surfava, si viveva sulla cresta di un’onda fatta di libertà e psichedelia, si cavalcavano creatività e capelli lunghi.
Shawn Stüssy di quello scenario era partecipe e artefice. Nato nel 1954, nipote di un emigrante svizzero, Stüssy aveva presto iniziato a stare in equilibrio sull’oceano e a lavorare su quelle tavole che gli permettevano di scivolare sull’acqua.
Poco più che venticinquenne aprì la propria attività in una sorta di comune hippy. Privo di soldi, ma traboccante di idee, questo artigiano della vetroresina si fece conoscere grazie al passaparola e alla distintiva firma con cui cominciò a contrassegnare ogni prodotto: quel logo scritto a mano, influenzato da tag e graffiti, e quella u arricchita dall’umlaut sarebbero stati la chiave di volta per l’esplosione del brand. Illuminazioni grafiche alla base di tutto, dunque, ma non solo.

Nel 1981 il giovane Shawn ricevette un’offerta lavorativa dal Giappone, da una casa produttrice di tavole da surf che aveva avuto modo di osservare e studiare i suoi gioielli acquatici. Le trasferte nipponiche diventarono per il californiano un modo per affacciarsi all’alta moda, per battere i negozi di tendenza di Tokyo, per assimilare tendenze e gusti estetici.
Ad un anno di distanza il definitivo punto di non ritorno. Stüssy partecipò ad una fiera californiana, l’Action Sports Retail. Lì espose le sue tavole e, contemporaneamente, iniziò a distribuire maglie personalizzate.
“Non ero mai stato a quel tipo di fiera. Quindi mi sono detto di stampare la scritta ‘Stüssy’ bianca su alcune t-shirt nere. In quei giorni vendetti 24 tavole”

UNA TRIBÙ VESTITA STÜSSY
Stüssy divenne fashion designer senza accorgersene. Nel 1984 venne avvicinato da Frank Sinatra Jr. (nessun legame di parentela con ‘The Voice’) e gli venne proposto di lanciare una linea d’abbigliamento.
I suoi prodotti ebbero immediatamente un impatto epidemico su tutta la selva underground di surfer e skater. Il primo, iconico cappello da pittore divenne un oggetto di culto, un must have, così come le t-shirt e le giacche affrescate da grafiche dissacranti, da immagini rubate da altri brand e reinterpretate. La genialità di Shawn Stüssy si esaltò proprio in questo processo di appropriazione e reinvenzione dell’elemento alta moda. L’opera simbolista di Stüssy attinse da Rolex e Chanel, dalla corona e dal celebre No.4, smitizzando l’aura leggendaria aleggiante su questi marchi. Tra punk e Warhol, tra onde e asfalto, la umlaut travalicò prima i confini californiani, con il primo, storico negozio monomarca aperto a New York, poi le acque oceaniche, giungendo in Giappone ed Europa.


Fu un’ascesa vertiginosa, fu la nascita del concetto di streetwear.
Un processo che venne certificato e ingigantito mediaticamente dalla costituzione della cosiddetta International Stüssy Tribe: un cenacolo elitario, formato da guru dello streetwear europeo e mondiale come Luca Benini (Slam Jam), Jules Gayton, Alex Turnbull e Hiroshi Fujiwara. Nomi che ai profani dell’ambiente diranno poco, ma che rientrano a pieni meriti nel gotha delle figure più influenti in questo processo evolutivo del mondo fashion.





TOCCARE L’APICE PER DIRE ADDIO
Come i più grandi rivoluzionari, una volta sedutosi sulla vetta, una volta raggiunti i vertici di un ambiente che casualmente l’aveva accolto e venerato, Shawn Stüssy decise di lasciare la propria azienda.
Una scelta presa a soli 41 anni. Una scelta dettata dal desiderio di passare il maggior tempo possibile al fianco dei proprio figli: “Volevo essere tanto puro nel crescere i miei figli, quanto lo ero stato nel crescere il mio business”.
Stüssy vendette le quote a Sinatra Jr. nel 1995, chiuse la porta e da allora non si voltò più indietro. Oggi continua a vivere tra Francia, Spagna e Hawaii, in una sorta di buen ritiro permanente. Le sue collaborazioni, le sue firme estetiche, continuano ad essere richieste dai giganti della moda, così come da case di produzione di tavole da surf.
Stüssy non può essere definito eremita a tutti gli effetti, dunque, ma visionario che, a quasi 70 anni, riesce ancora a stuzzicare, ad ispirare, a far desiderare il proprio genio sovversivo, la propria umlaut dipinta da oceani, strade e rivoluzioni culturali, il proprio status di leggenda vivente.

I 6 migliori film di basket della storia
Da ‘He Got Game’ a ‘Chi non salta bianco è’. Quando il basket diventa leggenda sul grande schermo
“Il basket è come il jazz”, diceva Kareem Abdul-Jabbar. È una forma artistica, dove ritmo e ispirazione scandiscono ogni palleggio, ogni azione.
Il basket è una musa ispiratrice per il mondo della moda, grazie al suo spirito underground, all’universo cool NBA, al suo heritage visivo. Il basket è un soggetto sempre più utilizzato nell’arte contemporanea, ammaliata dalle innumerevoli sfumature del Gioco inventato da James Naismith. Il basket è anche punto di riferimento e spunto ideale per la grande cinematografia
Vi proponiamo quindi una raccolta di film, 6 per l’esattezza, che riteniamo i più grandi capolavori cestistici comparsi sul grande schermo. Buona visione.
He Got Game
La regia di Spike Lee, le interpretazioni di Denzel Washington e Ray Allen. Bastano tre nomi per comprendere la grandezza di una pellicola. In questa chicca divenuta cult, Jesus Shuttlesworth (interpretato da Allen, al tempo giocatore dei Bucks), è uno dei maggiori prospetti liceali della nazione. Fama, donne, oscuri procuratori e grandi college arrivano a bussare alla porta di questo ragazzo privo di genitori. Jesus, difatti, seppur minorenne, deve fungere da uomo di casa e padre per la giovane sorella. Alle sue spalle un terribile episodio: la morte della madre. Jake Shuttlesworth (Denzel Washington), padre di Jesus, è in carcere proprio perché responsabile del tragico omicidio casalingo e, improvvisamente, si trova a tornare tra i campetti di Coney Island per conto del proprio direttore. L’obiettivo? Far scegliere al proprio figlio l’università di Big State, alma mater del governatore statale. Ad innescarsi è una vorticosa serie di eventi, culminata in un complesso e duro riavvicinamento tra un figlio pieno di astio e un padre divorato dai rimorsi. ‘He Got Game’ venne presentato alla Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia nel 1998. Da segnalare la meravigliosa colonna sonora in cui s’intrecciano brani di Aaron Copland e ispirati pezzi dei Public Enemy.


Glory Road
La storia dei Texas Western Miners è una pietra miliare nell’evoluzione sociale americana. Il piccolo college texano, grazie alle visionarie decisioni di coach Don Haskins, fu la prima squadra a schierare un quintetto di soli giocatori di colore in una finale NCAA: quella giocata nel 1966 contro la quotatissima Kentucky, corazzata guidata dal conservatore Adolph Rupp. Atti intimidatori, insulti razziali, resistenze pubbliche e desiderio di cambiamento popolano questa pellicola, diretta magistralmente da James Gartner, e l’intera marcia dei Miners fino alla terra promessa del titolo nazionale. Il film, fondamentale testimonianza storica, oltre che sportiva, venne nominato per il celebre Humanitas Prize, premio per la scrittura di film destinati a promuovere la dignità umana e la libertà, e vinse l’ESPY Award nel 2006.


White Men Can’t Jump
A Los Angeles il playground è folklore e trash-talking, è dollari in palio e outfit sgargianti. Lo era già negli anni ’90, come testimoniato dalla mitica pellicola White Men Can’t Jump. Nell’iconico campetto di Venice Beach s’incontrano Billy Hoyle (Woody Harrelson) e Sidney Dean (Wesley Snipes): streetballer agli antipodi, non solo per il colore della pelle. Tra i due nasce un’amicizia particolare, un’affinità cestistica che li condurrà in un ironico e vincente viaggio tra i playground più noti della Città degli Angeli: un viaggio alla ricerca di soldi facili. Come sfondo della storia un pregiudizio da sempre presente nella pallacanestro: la mancanza di atletismo nei giocatori bianchi. È solo un’agognata schiacciata a porre fine, forse, a questa diatriba secolare.


La legacy di Space Jam
Da Michael Jordan a LeBron James, da una pallacanestro giocata al ritmo dei grandi Bulls alla contemporaneità ipertecnologica vissuta come un videogame, dai Looney Toons ai Looney Toons. Il secondo capitolo di Space Jam (A New Legacy), da poco uscito nella sale, ha fatto storcere il naso a molti puristi, eppure sembra incarnare l’evoluzione 2.0 di una pellicola che ha deliziato generazioni di appassionati della palla a spicchi. James, ‘Re’ del basket attuale, indossa la corona consegnatagli da ‘Sua Altezza Aerea’ MJ anche sul grande schermo, trovandosi a salvare il mondo al fianco della compagine cartoonesca griffata Warner Bros. In questo nuovo capitolo i vari Charles Barkley, Patrick Ewing, Larry Johnson, Muggsy Bogues e Shawn Bradley vengono sostituiti da Anthony Davis, Damian Lillard, Klay Thompson, Nneka Ogwumike e Diana Taurasi. La presenza femminile nella Goon Squad è solo una delle tante novità innestate nel secondo Space Jam, ambientato in un mondo totalmente cibernetico, in cui prendono forma i sempre divertenti Bugs Bunny, Daffy Duck, Porky Pig e soci.


Coach Carter
Altra pellicola ispirata ad una storia vera, in questo spaccato biografico Samuel L. Jackson interpreta il coach Ken Carter, impegnato nel migliorare come giocatori e, soprattutto, come studenti e uomini, i ragazzi della Richmond High School. Carter sparge tra i suoi giovani atleti, vicini ad ambienti violenti e criminali, il verbo dell’istruzione, ponendo i risultati scolastici davanti a quelli sportivi. Gli Oilers, squadra dall’indiscusso talento, si trovano addirittura a dover saltare delle partite per concentrarsi sullo studio: scelta che pose coach Carter in mezzo ad una bufera di polemiche, ma che consentì a tantissimi suoi ragazzi di ottenere borse di studio universitarie. Anche in questo caso il basket diventa strumento per raccontare una meravigliosa storia sociale.


Hoosiers
Film più datato rispetto a quelli già elencati, Hoosiers è un capolavoro del 1986, diretto da David Anspaugh e candidato ai Premi Oscar per il miglior attore non protagonista (Dennis Hopper) e per la colonna sonora. Gene Hackman interpreta coach Norman Dale, allenatore messo ai margini dal sistema collegiale, che si ritrova a dirigere la squadra di una piccola scuola dell’Indiana, conducendola ad un inatteso successo statale. La storia, ispirata a quella della Milan High School, narra di rapporti umani ed intrecci sociali all’interno della comunità di Hickory. Ne viene fuori un intenso affresco dei criptici Stati Uniti rurali, un ritratto talmente intenso dall’essere stato scelto dalla United States National Film Registry come “opera d’arte culturalmente, storicamente e esteticamente significativa”, risultando, proprio per questo, soggetto alla preservazione della Biblioteca del Congresso.


Le donne che hanno cambiato l’estetica del tennis
Dagli abiti Vittoriani alle sorelle Williams. Chi ha rivoluzionato il tennis femminile?
Corsetti, busti, gonne enormi che sfioravano terra. Il tennis femminile in epoca Vittoriana non lasciava spazio a creatività e libertà di movimento. Il tempo ha però cambiato radicalmente l’idea di outfit tennistico per il gentil sesso: un cambiamento arrivato grazie a dei momenti di rottura, ad alcune figure che sotto rete hanno coraggiosamente deciso d’infrangere tabù sociali e visivi, calpestando l’erba di Wimbledon e i terreni degli altri Slam vestite di novità, di ribellione, di evoluzione.
Qui abbiamo deciso di elencarvi alcune delle donne capaci di cambiare l’immaginario di abbigliamento sportivo femminile, spesso incappando in critiche e boicottaggi: idealiste spinte da un vento femminista, da un vento progressista. Atlete che hanno segnato il proprio sport non solo grazie alla racchetta.
Suzanne Lenglen
La ‘Divine’, la divina francese che dominò il tennis negli anni ’20, conquistando 25 titoli del Grande Slam, un oro olimpico ad Anversa e perdendo solo 7 partite in carriera. Prima celebrità femminile del tennis, per la stampa d’oltralpe e internazionale fu inesauribile calamita d’attenzioni: il suo gioco tendente al futuro, unito alla sua passione per il mondo glamour e all’intensità umorale mostrata in campo, portò le grandi masse a seguire il tennis femminile, prima di allora vissuto solo marginalmente.
In particolare, nel gran gala bianco di Wimbledon 1920, la Lenglen stupì organizzatori e spettatori presentandosi con un vestito che non copriva avambracci e polpacci: scelta assolutamente incomprensibile per l’epoca. In occasione di quel torneo londinese, la ‘Divina’ venne anche osservata bere del brandy alla fine di ogni set.
Di lì a qualche anno avrebbe smesso di giocare, non ancora trentenne: “In dodici anni in cui sono stata campionessa ho guadagnato milioni di franchi, e ne ho spesi altrettanti per viaggiare e disputare i tornei. Non ho guadagnato un centesimo dalla mia specialità, dal mio percorso di vita, dal tennis. Secondo assurde e antiquate idee solo una persona ricca può competere ad alti livelli e solo le persone ricche riescono a farlo. È giusto? Questo fa progredire il nostro sport?”, furono le sue laconiche parole.


Gussie Moran
Tennista di certo distante dai risultati straordinari della Lenglen, questa californiana resta cristallizzata nella storia sportiva per un particolare crossover avvenuto in occasione di Wimbledon ’49.
L’atleta statunitense, allora 26enne, chiese al celebre stilista Ted Tinling di disegnare il primo abito corto nella storia del tennis femminile. Rigorosamente bianco, come previsto dal ferreo regolamento di Wimbledon, l’abito della Moran venne creato in modo da far risaltare delle mutandine con risvolti in pizzo.
Lo scandalo fu enorme, e l’esibizione della ribattezzata ‘Gorgeous Gussie’, arrivò addirittura all’interno del Parlamento britannico. La prima musa ispiratrice di Tinling, legatissimo anche all’italiana Lea Pericoli, venne accusata dall’All England Lawn Tennis and Croquet Club di aver introdotto “volgarità e peccato nel tennis”.


Billie Jean King
Tornando nel gotha del tennis, non si può evitare di nominare l’immensa Billy Jean King, vincitrice di 78 titoli WTA e, soprattutto, figura di riferimento nella lotta contro il sessismo sia nella società, che nello sport.
Durante il match del 20 settembre 1973 giocato contro Bobby Riggs e passato alla storia come il più importante dei tre capitoli della ‘Battaglia dei Sessi’ tennistica (recentemente trasposto anche sul grande schermo), la King indossò un vestito disegnato proprio dal già citato Ted Tinling.
Quell’outfit divenne simbolo della rivalsa tennistica femminile: una rivalsa certificata dalla vittoria della King ai danni di Riggs, davanti ad oltre 30mila presenti e 90 milioni di persone incollate alla televisione.


Anne White
Wimbledon, 1985 edition: when Anne White took a leap into the future. The American athlete showed up in the green temple of world tennis with a one-piece suit, branded Pony, entirely made of Lycra. The outfit enchanted audiences and photographers, and sparked a huge wave of controversy.
L’incontro venne fermato sul punteggio di un set pari, al calare della sera, e l’arbitro intimò alla White di cambiare abbigliamento per il giorno seguente, optando per un completo più ‘appropriato’. La White acconsentì alla richiesta e perse la partita. Le foto della sua tuta ‘spaziale’, però, vennero pubblicate da tutte le maggiori testate del mondo.


Venus & Serena Williams
Un altro salto temporale, questa volta direttamente nel XXI secolo, dove una coppia di sorelle è stata in grado di raccogliere tutti questi lampi del passato, unendoli tra loro e liberando definitivamente il corpo delle proprie colleghe da preconcetti e demonizzazioni estetiche.
Lingerie e colori, personalità ed eleganza, Reebok e Nike: è così che Venus e Serena hanno definitivamente abbattuto il muro dell’ortodossia visiva tennistica, elevando i concetti di libertà decisionale e di femminilità atletica, impreziosendoli con oltre 300 settimane (combinate) trascorse in vetta alla classifica WTA.
Atipiche e iconiche, come il loro percorso, iniziato nella difficile realtà di Compton: una lunga marcia tra stereotipi e pregiudizi di ogni tipo, che queste due giganti della racchetta sono riuscite a polverizzare grazie a talento ed etica lavorativa.


5 film imperdibili sulla boxe
Le più affascinanti biografie del ring raccontate dalla settima arte
Abbiamo deciso di rendere omaggio alla nobile arte del ring, un’arte in grado di regalare affascinanti storie umane, oltre che sportive. Storie che hanno ispirato grandi registi e alcuni dei più luminosi capolavori comparsi sul grande schermo. Ne abbiamo selezionati 5, attingendo dalla cinematografia contemporanea e passata: tutti sono ispirati a biografie di pugili realmente esistiti. Buona visione.
Hurricane – Il grido dell’innocenza
Film basato sulla vita di Rubin Carter, per l’occasione interpretato da un sublime Denzel Washington. In questa pellicola diretta da Norman Jewison viene descritta la scalata mondiale di Carter, preceduta e seguita da un complesso rapporto con la giustizia. Carter, accusato di triplice omicidio all’apice della sua carriera, si trova vittima di un incredibile errore giudiziario, riuscendo a dimostrare la propria innocenza solo al termine di una lunghissima battaglia personale.


Toro scatenato
Capolavoro di Martin Scorsese, con Robert De Niro nei panni di Jake LaMotta. L’interpretazione di De Niro, premiata con l’Oscar, raggiunge picchi di rara intensità, mostrando i lati più brillanti e più bui del leggendario peso medio italo-americano. Con ogni probabilità il miglior film sportivo della storia, questa perla analizza demoni e vittorie del ‘Raging Bull’ del Bronx, narrandone la vita estrema.


Bleed – Più forte del destino
Film più recente rispetto ai due precedenti, Bleed ripercorre la vita di Vinny Paz, il ‘Pazmanian Devil’ campione del mondo dei pesi leggeri e superwelter. La pellicola ruota attorno al gravissimo infortunio stradale che rischiò di paralizzare completamente il pugile di Cranston, obbligandolo ad un recupero impossibile da pronosticare e ad una lotta con i limiti imposti dalla medicina, oltre che dal proprio corpo.


The Fighter
Un complesso affresco familiare, una drammatica dipendenza, un intenso legame fraterno. Mark Wahlberg e Christian Bale interpretano in questa pellicola i fratellastri Micky Ward e Dicky Eklund. Eklund, entrato nel vortice del crack dopo un’ottima ma breve carriera pugilistica, prova a spingere il proprio fratellastro al vertice del panorama pugilistico mondiale, instaurando però un rapporto deleterio e distruttivo. La redenzione, il riavvicinamento e la conquista del titolo mondiale WBU dei pesi leggeri arriveranno solo al termine di una detenzione e di una durissima presa di coscienza.


Lassù qualcuno mi ama
La vita da romanzo di Thomas Rocco Barbella, per tutti Rocky Graziano, viene interpretata da Paul Newman in questo film prodotto nel 1956. Furti e risse, gang e carcere, esercito e ring: il vortice umano di questo mitico pugile italoamericano funge da plot per questo capolavoro vincitore di due Academy Awards.


5 playground dove il basket diventa design
Nike, Hennessy, Puma, Adidas e Pigalle. Brand e pallacanestro sposano la creatività
In un periodo storico in cui è sempre maggiore la febbre da design sportivo e, soprattutto, cestistico, abbiamo selezionato 5 campetti dall’enorme impatto visivo.
Costruiti o rinnovati recentemente, queste perle del basket urbano sono tutte state commissionate da grandi brand mondiali: una pratica virtuosa, atta a riqualificare zone difficili o, semplicemente, a spargere il verbo del Gioco nel modo più estetico possibile.
Sheki Lei Grind Court, Hong Kong
Situato nel quartiere popolare di Kwai Chung, questo playground, inaugurato da Nike lo scorso giugno, è situato in una zona nevralgica dell’ex colonia britannica. Nelle sue prossimità, difatti, sono presenti 14 scuole elementari e medie. I motivi cartooneschi sono stati dipinti dell’artista britannico James Jarvis.


NBA Hennessy basketball court, Sidney
Il noto brand di liquori Hennessy, global spirits partner NBA, ha confezionato una perla cestistica sulla costa di Sidney. La vernice nera voluta dallo Studio Messa ha preso il posto delle piscine del rinomato Bondi Icebergs Club, creando una suggestiva visione sportiva.


Children’s Village Community Center, New York
In occasione del lancio delle signature DON 3, la stella degli Utah Jazz Donovan Mitchell, supportato da Adidas, ha regalato una serie di campetti alla comunità del Children’s Community Village di Dobbs Ferry, New York.



Puma Unity Corner, Kiev
L’apertura del campo Puma Unity Corner, nel cuore di Kiev, è coincisa con il lancio della campagna globale UNITY. All’interno di questo scorcio urbano ucraino si alternano le immagini di monumenti di tutto il mondo, sottolineando il messaggio alla base della campagna ideata dal brand tedesco.

Pigalle playgrounds, Parigi e Pechino
La collezione Nike Pigalle Converse ha dato il là all’ennesimo processo creativo di Stéphane Ashpool e soci. Oltre al rinnovamento dello storico e caratteristico campo parigino, roccaforte del brand francese, Pigalle per la prima volta ha varcato i confini europei, arrivando a Pechino. Un nuovo capitolo dedicato interamente alle nuove generazioni, come dichiarato da Ashpool stesso.


Testi di Gianmarco Pacione
5 docufilm sul tennis da vedere
La racchetta raccontata sullo schermo. Avete altri consigli?
È recentemente uscito su Netflix lo speciale della serie ‘Untold’ dedicato a Mardy Fish. Un viaggio nell’intimità del tennista statunitense, un intenso approfondimento relativo ai problemi mentali che ne hanno condizionato carriera e vita privata: dinamiche trattate con particolare attenzione soprattutto nel tennis moderno, come dimostrato dal recente caso Osaka.
Abbiamo deciso di selezionare alcuni ritratti visivi, documentari e film, che possano aiutarci a comprendere più a fondo questo lato della racchetta, che esaltino e analizzino la solitudine della riga di fondo, che descrivano spaccati di storia tennistica ed individuale.
UNTOLD: BREAKING POINT
Le aspettative di un’intera nazione ancora inebriata dai vari McEnroe, Sampras, Agassi e Courier. Il rapporto d’amicizia e aiuto reciproco con Andy Roddick. La rapida ascesa nella top 10 mondiale e l’inattesa paralisi psicoemotiva. ‘Breaking Point’, ennesimo capolavoro della collana Netflix ‘Untold’, ritrae la parabola di Mardy Fish. Una parabola, quella dell’ex numero uno USA, segnata dalla battaglia contro sé stesso, contro la propria mente. Un lavoro introspettivo di enorme spessore, fondamentale per comprendere pensieri e problemi risultati troppo a lungo tabù nel circuito ATP.

ANDY MURRAY: RESURFACING
Questo documentario disponibile sulla piattaforma Prime Video si focalizza sulla lunga e logorante odissea vissuta da Andy Murray. Anni trascorsi tra sale operatorie e centri riabilitativi per curare un infortunio gravissimo. Anni in cui il tennis, per il tennista britannico, si è tramutato in un’oscura spirale.

BORG MCENROE
La rivalità per eccellenza del tennis romantico, un affresco di due personalità rimaste scolpite nella leggenda sportiva. L’epica di questa dualità, sublimata nella finale di Wimbledon 1980, viene raccontata dalla lente di Janus Metz in un film tanto attuale, quanto dal sapore nostalgico.

NAOMI OSAKA
La docuserie Netflix dedicata a Naomi Osaka ci regala uno spaccato di una delle tenniste più dominanti sul campo e, contemporaneamente, più ricche di sfumature psicoemotive, più capaci d’incidere sulla società globale. Puntata dopo puntata la giapponese viene seguita dalle telecamere nelle sue battaglie sociali e sportive, nelle pressioni esterne e nei frenetici viaggi. Un modo per comprendere ancora di più, soprattutto alla luce delle ultime significative azioni pubbliche, il carattere e la sensibilità dell’ex numero uno al mondo.

VILAS: TUTTO O NIENTE
Eduardo Puppo è un noto giornalista argentino pronto a dedicare una consistente parte della propria vita per rendere merito ad un mito della racchetta, Guillermo Vilas. L’obiettivo delle instancabili ricerche di Puppo? Regalare a Vilas la vetta del ranking ATP nel 1977, un primato che gli era stato negato per un’inspiegabile serie di eventi. Il fascino di questa pellicola Netflix, però, non sta solo nella ricerca di dati e testimonianze storiche, ma esonda nella descrizione biografica del re sudamericano della terra rossa. Una vita da scoprire, da assaporare, come un tempo era il suo tennis.

Testi di Gianmarco Pacione