Watchlist: The Chosen Few – Captains

Il documentario che mette a confronto 6 capitani, 6 culture e 6 sogni mondiali

È recentemente uscito il documentario ‘The Chosen Few | Captains’, prodotto in collaborazione tra FIFA e Netflix. Pierre-Emerick Aubameyang, Andre Blake, Brian Kaltak, Hassan Maatouk, Luka Modric e Thiago Silva sono i 6 protagonisti di questo viaggio tra spogliatoi, stadi e paesi completamente differenti, uniti dall’unico obiettivo della qualificazioni ai Mondiali qatarioti. C’è poco di superficiale all’interno di questa produzione che ci porta alla scoperta di culture calcistiche e intere società attraverso le testimonianze di questi capitani così differenti per pedigree e status.

Gabon, Giamaica, Isole Vanuatu, Libano, Croazia e Brasile: questa eterogenea selezione di luoghi e personalità ci consente di osservare il percorso mondiale con altri occhi, di comprendere le debolezze, l’orgoglio e le riflessioni che accompagnano questi uomini-simbolo d’intere nazioni. Questi focus, distribuiti su 8 puntate, danno eguale importanza a tutti i protagonisti e utilizzano l’elemento calcistico per descrivere dinamiche molto più ampie: dalla guerra dell’ex Yugoslavia e le tragedie degli ultimi decenni libanesi, alla bellezza di scoprire il mondo attraverso il pallone, partendo da un piccolo stato insulare dell’Oceania, dall’enorme desiderio di rappresentare una nazione africana e di vederla evolvere grazie all’esempio sportivo, all’effetto che i flussi migratori stanno avendo sui ‘Reggae Boyz’.

Ecco perché ‘The Chosen Few | Captains’ entra nella nostra Watchlist. Ecco perché questo prodotto deve essere assolutamente guardato prima del calcio d’inizio di Qatar2022.


7 is more than just a number

Da Best a Ronaldo, e oltre. Manchester United e Adidas celebrano la legacy del numero 7

La numerologia è sempre stata una scienza irrazionale legata al calcio, capace di tratteggiare e definire figure leggendarie e miti senza tempo. Misticismo, identità, responsabilità. Ogni numero ha il suo significato, ogni numero ha la sua tradizione e il suo valore. Ad Old Trafford il numero per eccellenza è e sarà sempre il 7. Ecco perché Manchester United e Adidas hanno deciso di celebrare una legacy introdotta dal mancino tanto benedetto, quanto maledetto di George Best, raggruppando i 7 più iconici dell’immaginario Red Devils passato e contemporaneo.

Intelligence. Consistency. Skill. Speed. Speed of the mind. Score. Top left. Red. It’s got to be Red. 7.

Comincia con questa rapsodica composizione poetica il meraviglioso e intimo video prodotto nel Teatro dei Sogni del football mondiale. Da Bryan Robson a Eric Cantona, da David Beckham a Cristiano Ronaldo, per arrivare ad Ella Toone, prima donna a raccogliere e tramandare la magia del 7… Le testimonianze di queste figure chiave esaltano la potenza e l’influenza di quello che continua ad essere molto più di un semplice numero, descrivendo il suo rapporto con il popolo United, con l’universo calcistico e con la città di Manchester, descritta da ‘The King’ Cantona come luogo per eccellenza dei numeri 7: dove vige la legge della creatività, della libertà e della leggerezza.

Aneddoti e riflessioni. Ricordi e speranze. Gustate il video prodotto dalla sinergia tra lo United e il brand delle tre strisce per penetrare questa legacy destinata all’eternità.

Credits: Manchester United e Adidas
Testo a cura di Gianmarco Pacione


Liberate Brittney Griner

Il gioco politico internazionale non può costare 9 anni di prigione ad una delle giocatrici più dominanti della pallacanestro moderna

Sta continuando nel peggiore dei modi il processo che coinvolge la stella del basket femminile Brittney Griner. A poco più di due mesi dalla sentenza di primo grado, la Corte d’Appello di Mosca ha confermato la condanna a 9 anni per una delle giocatrici più influenti del panorama cestistico WNBA e mondiale. Paiono sgretolarsi all’apice la vita e la carriera della texana classe ’90, vincitrice di due ori olimpici, un torneo NCAA, un titolo WNBA, quattro Euroleghe e, surreale a dirsi, 4 campionati russi.

Griner era stata fermata lo scorso 17 febbraio alla dogana dell’aeroporto Sheremetyevo di Mosca con 0,72 grammi di olio di hashish contenuti in alcune cariche liquide per sigarette elettroniche. Il centro di oltre due metri d’altezza stava tornando in Russia per proseguire la tipica annata ‘splittata’ in due stagioni, che vede molte giocatrici professioniste impegnate sia in WNBA, che nei maggiori campionati europei: in questo caso in quello Russo, con la squadra-potenza dell’Ekaterinburg. La difesa sostiene che Griner fosse in possesso di una prescrizione medica per l’utilizzo terapeutico di cannabis.

Figlia di un veterano del Vietnam, afroamericana dichiaratamente omosessuale, attiva sostenitrice dei diritti Lgbtq+ e della presidenza Biden, Griner più che apparire come una criminale, sembra semplicemente essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato: ovvero nel mezzo delle tensioni ucraino-russe e di un’apparentemente insanabile frattura socio-politica internazionale. Per questo il suo identikit è risultato da subito sinistramente ideale e funzionale per un’oscura partita a scacchi tra il Cremlino e la Casa Bianca.

Pedina di scambio, perseguitata internazionale, vittima sacrificale… La condizione di Griner è transitata rapidamente da quella di super atleta globale a quella di “ostaggio politico”, come dichiarato dalla moglie Cherelle ai microfoni CBS. Parole confermate dai numerosi contatti che da mesi stanno intercorrendo tra la Casa Bianca e il Cremlino. Sarebbe difatti il trafficante d’armi Viktor Bout, meglio conosciuto come il Mercante della Morte, l’altro pedone che garantirebbe la libertà alla due volte medaglia d’oro olimpica nella complessa scacchiera russo-americana.

“Brittney Griner, dopo un altro processo farsa, continuerà ad essere ingiustamente detenuta sotto circostanze intollerabili”, ha dichiarato il consigliere per la Sicurezza nazionale USA Jake Sullivan. Parole condivise pubblicamente dallo stesso Joe Biden, che ha richiesto il rilascio immediato di Griner e ha affermato che continuerà a lavorare fino a quando questa situazione non verrà risolta.

Inerme e al centro di questo delicato gioco di equilibri politici internazionali, Brittney Griner continua ad essere detenuta nei pressi di Mosca, impossibilitata a comunicare e, almeno per il momento, destinata a vivere i prossimi 9 anni in una colonia penale russa per una condanna che, stando alle parole dell’avvocato difensore Alexander Boykov, “non risulta essere in linea con il diritto penale russo”.

Griner nel frattempo ha trascorso il 32esimo compleanno in prigione ed è intervenuta in videoconferenza durante l’udienza di ieri, scusandosi per la propria ingenuità e dicendosi speranzosa di veder concludere nel migliore dei modi un “processo estremamente stressante e traumatico”speranza che per il momento si è infranta contro il muro invalicabile della cortina di ferro contemporanea.

Credits: Lorie Shaull, commons Wikimedia.
Testo a cura di Gianmarco Pacione


Mike Rostampour: sostenere le donne iraniane vuol dire sostenere l’umanità

Abbiamo raccolto le parole di denuncia di un volto di spicco del basket e dello sport iraniano

È difficile penetrare la coltre di silenzi e irreperibilità che sta soffocando le maggiori personalità sportive iraniane. Nelle ultime settimane di proteste e sollevazioni popolari abbiamo letto le pesanti parole di Sardar Azmoun, il ‘Messi d’Iran’ che aveva utilizzato i propri canali social per sfogare la propria sofferenza. Oltre alle sue parole, poche testimonianze di atleti di alto livello hanno raggiunto i media internazionali. D’altronde non è facile esporsi, non è facile guidare con l’esempio una (necessaria) rivoluzione sociale che sta creando paura, dolore, sofferenza, morte.

Michael Rostampour ha deciso di farlo. ‘Mike’, nato nel Minnesota ma di chiarissima origine iraniana, è stato per lungo tempo un punto di riferimento della la Nazionale iraniana e un giramondo del basket (ha giocato, per esempio, in Slovacchia, Messico e Canada). Con il ‘Team Melli’, soprannome persiano della sua Nazionale, ha partecipato recentemente alle Olimpiadi di Tokyo e ai Mondiali cinesi del 2019. Ora sta per compiere 31 anni e, dopo aver vinto il primo titolo nazionale nella storia dello Shahrdari Gorgan, squadra dell’omonima città iraniana, ha deciso di lasciare il parquet e chiudere la carriera professionistica.

La sua testimonianza è un fondamentale atto di coraggio, è l’urlo di un uomo di sport conosciuto in tutto il proprio Paese, è una consapevole confessione che abbiamo avuto la fortuna di raccogliere.

Cosa sta succedendo nella società iraniana?

“Il popolo iraniano vuole la libertà. Ascoltate le voci nei video che girano sui vari media, ascoltatele bene e capirete cosa chiedono. Tutto questo è stato sotto la nostra pelle per tanti anni, ma oggi gli iraniani sono disposti a morire per la propria libertà. Non vogliono la fine di sanzioni internazionali, non vogliono un accordo nucleare. Vogliono la libertà. Un basilare diritto umano. Ecco perché ci si può schierare solo da una parte”.

Come mai questo desiderio di rivoluzione sociale è esploso solo nelle ultime settimane?

L’omicidio di Mahsa Amini ha colpito le donne di tutto il Paese. Quasi tutte, se non tutte loro hanno vissuto esperienze negative con la polizia della moralità. Sanno che tutto questo è possibile, lo sanno per esperienza personale. Ora si è creato un effetto a catena in tutto il mondo, non solo all’interno dell’Iran. Ovunque si stanno svolgendo manifestazioni per richiedere il rispetto dei diritti umani di base in Iran”.

Sei nato nel Minnesota, USA, e grazie alla pallacanestro hai avuto l’opportunità di viaggiare ed esplorare molti altri Paesi e culture. Come valuti le condizioni delle donne iraniane?

“Le donne del Medio Oriente hanno per distacco le peggiori condizioni di vita al mondo. Non è una novità. Iran e Afghanistan sono sul fondo di questa classifica. Queste donne desiderano vivere la loro vita come le donne europee o americane. Quanto è triste che gli uomini di questi Paesi permettano che tutto questo accada alle loro madri, sorelle, amiche, cugine e mogli? Dovrebbero provare un grande senso di vergogna. Se non sei a favore dei diritti delle donne, non sei a favore dell’umanità”.

Cosa significa essere un atleta iraniano oggi e rappresentare il Paese a livello internazionale?

“Non ha significato. Ora bisogna concentrarsi unicamente sulla richiesta del popolo iraniano di ottenere dei diritti umani basilari. Se sei un atleta, se rappresenti questo Paese, devi sentirti in dovere di parlare per coloro che sono senza voce. Le persone non sono stupide. Coloro che parleranno e si esporranno saranno ricordati per sempre, quelli che non lo faranno saranno dimenticati”.

Hai avuto modo di osservare la protesta della Nazionale di calcio iraniana e di ascoltare le parole della stella Sardar Azmoun? Cosa ne pensi?

“Come ho detto in precedenza, ci si può schierare solo da una parte: dalla parte dei diritti umani. I diritti che sta reclamando il popolo iraniano. Vestire la maglia del ‘Team Melli’ è il più grande onore che abbia avuto nella mia vita. Il mio coach mi ha sempre detto questa frase: “Noi giochiamo per il nostro popolo”. Oggi migliaia di miei connazionali vengono vessati nelle strade. Ho il dovere di parlare per loro. Rappresentare l’Iran ai Giochi Olimpici per me è stato un sogno. Ora devo fare la mia parte per far sì che il popolo che ho rappresentato abbia la possibilità di realizzare i propri sogni”.

Pensi che ci sarà un futuro migliore per le donne iraniane e che otterranno quello che stanno chiedendo?

“Assolutamente, senza dubbio. Può accadere oggi, domani o chissà quando… Ma la volontà del popolo iraniano alla fine si concretizzerà, come la storia ha sempre dimostrato”.

Credits: Ashkan Mehriar
Testi di Gianmarco Pacione


Il calcio non può più ironizzare sul tema del coming out

I tweet di Iker Casillas e Carles Puyol ci ricordano, ancora una volta, quanto il calcio debba evolversi

Il siparietto tra Iker Casillas e Carles Puyol, due leggende del pallone internazionale, ha riportato a galla un fiume carsico che, negli ultimi tempi, sembrava essersi fortunatamente prosciugato. “Sono gay, rispettatemi”, questo il tweet dell’ex portiere di Porto e, soprattutto, Real Madrid, che ha scoperchiato un autentico vaso di Pandora. Stando a quanto riportato dai media spagnoli, il tweet, immediatamente cancellato da Casillas, avrebbe dovuto e voluto essere una semplice battuta di cattivo gusto: una caustica replica alle voci che lo vorrebbero impegnato in una lunga serie di liaison dopo la separazione con la storica partner Sara Carbonero. L’ex portiere ha poi parlato di un hackeraggio del profilo, scusandosi con la comunità LGBT, ma non è riuscito a diradare la cupa nebbia di dubbi e polemiche scaturita dal destabilizzante statement. Nebbia alimentata goffamente dal compagno di Nazionale e rivale di club Carles Puyol, che ha prontamente replicato a Casillas twittando simpaticamente (almeno a suo avviso) “È il momento di raccontare la nostra storia”.

Questa tragicommedia social alla spagnola è sicuramente frutto di leggerezza e disattenzione, forse di un oscuro agente esterno, forse di una sfortunata serie di eventi. Forse. Eppure ci permette, ancora una volta, di riflettere su un tema che ritenevamo ormai superato. L’uscita “goffa e fuori luogo”, com’è stata descritta dallo stesso Puyol, tasta difatti un polso ancora vivo: quello di un calcio che non riesce ad adeguarsi al progresso e all’accettazione, ma che invece resta popolato da enormi tabù e da un retrogrado senso di repulsione verso l’eterogeneità sessuale.

“Vedere Iker Casillas e Carles Puyol scherzare e ridere sul tema del coming out nel calcio è deludente. È un viaggio difficile che ogni persona LGBTQ+ deve affrontare. Vedere delle leggende ridere di questo va oltre la mancanza di rispetto”, ha commentato il calciatore australiano Joshua Cavallo. L’anno scorso il terzino dell’Adelaide United era diventato l’unico calciatore professionista dichiaratamente omosessuale in attività. Pochi mesi dopo, il suo esempio era stato seguito in un altro continente da Jake Daniels. “I calciatori vogliono essere associati al concetto di mascolinità, di virilità e l’essere gay per molti equivale ad essere debole”, aveva dichiarato il giovanissimo attaccante del Blackpool ai microfoni Sky, divenendo il secondo calciatore omosessuale della storia calcistica britannica. Prima di lui solo Justin Fashanu nel lontano 1990 aveva annunciato oltremanica la propria orientazione sessuale al mondo. Alcuni anni dopo il proprio coming out, Fashanu venne ritrovato morto suicida in un garage londinese, al suo fianco una lettera citava: “Sono fuggito dall’Inghilterra per come mi ha trattato la gente dopo ciò che ho detto. Non voglio imbarazzare ulteriormente la mia famiglia. Spero che qualcuno lassù mi accolga: troverò la pace che non ho avuto in vita”.

Per questi e per molti altri motivi il calcio deve fare un ultimo, decisivo passo in avanti. I suoi protagonisti del passato, del presente e del futuro devono modificare una cultura plasmata da bomber e wags, da una mascolinità totalizzante, fondata sugli ideali di donna oggetto, di predazione seriale e derisione del ‘diverso’, di omologazione obbligata. Lo spogliatoio non può più essere terra d’insicurezze e silenzi, di limitazioni e dolore. I costumi e la mentalità devono cambiare, le consapevolezze devono cambiare. L’intero sistema deve cambiare. Perché ciò avvenga c’è bisogno del coraggio di chi, nel gota del calcio, non vuole aprire la propria condizione a tutti, per paura di vedersi emarginato o abbandonato. “Nelle squadre in cui ho giocato c’erano almeno due omosessuali a stagione. Si aprivano con me privatamente, ma non lo facevano pubblicamente”, ha affermato Patrice Evra di recente.

Ecco perché questa battaglia, questa rivoluzione può essere vinta solo attraverso l’esempio. Un esempio che, ad oggi, sta continuando a latitare nei paradisi del football, spuntando solo in serie minori o leghe poco conosciute e mediatiche. Un esempio che Iker Casillas e Carles Puyol, più o meno volontariamente, hanno evitato di dare.


Watchlist: Human Playground

Netflix ci porta alla scoperta del legame infinito tra l’uomo e il gioco

“Noi umani amiamo giocare, fin dagli albori della nostra esistenza. I nostri campi da gioco sono come specchi che ci aiutano a scrutare noi stessi e il mondo che ci circonda. Lo sport è il modo migliore per conoscere il proprio corpo e la propria mente. E sono gli sport più pericolosi a farci superare i nostri limiti. Sport impegnativi, dolorosi, addirittura letali, ci aiutano a scoprire ciò di cui siamo veramente capaci. Ognuno ha un motivo personale per sottoporsi a queste sfide”

Comincia con questa frase, pronunciata dalla profonda voce di Idris Elba, questo viaggio dedicato all’evoluzione del gioco e dello sport nel mondo. Antiche tradizioni e moderne diramazioni, deserti bollenti e rituali atavici, dolore e redenzione, asfalto e neve. In questa galleria antropologica ideata da Hannelore Vandenbussche e prodotta da Netflix, trovano spazio tutti i significati dell’elemento sportivo, tutti i suoi scenari, tutti i suoi più disparati protagonisti.

La docuserie, girata praticamente in tutto il globo, è una gustosa definizione visiva dell’Homo Ludens huizingiano divisa in 6 episodi. Ci racconta dei tuffatori di Acapulco, pubblicati nella Issue 7 del nostro magazine, come dei wrestler senegalesi, dei falconieri del Kirghizistan come della Parigi-Roubaix femminile, dei motorsport come delle arti del sumo e del kung fu, stilando una vasta enciclopedia del gioco in tutte le sue forme e derive.

Le testimonianze dei vari atleti/giocatori rendono questo prodotto ancora più rilevante e godibile, penetrando l’esperienza soggettiva e facendo comprendere cosa spinga un essere umano a perseverare nella sfida a sé stesso, all’avversario (anche animale) e all’elemento naturale. Per tutti questi motivi ‘Human Playground’ entra con grande merito nella nostra Watch List. Non perdetelo.


I diritti femminili contano più di un Mondiale

Il calcio iraniano si è schierato al fianco delle proprie donne, sostenendo un popolo in rivolta

“Nel peggiore dei casi verrò allontanato dalla Nazionale. Non c’è problema. Sacrificherei questo anche solo per un capello delle donne iraniane. Vergognatevi per aver ucciso così facilmente. Lunga vita alle donne iraniane”

Le parole di Sardar Azmoun, il ‘Messi d’Iran’ attualmente in forza al Bayer Leverkusen, hanno squarciato un velo di omertà divenuto ormai impossibile da sostenere. Il punto di riferimento della nazionale allenata da Carlos Queiroz ha utilizzato questo durissimo statement social per protestare contro l’omicidio della 22enne Masha Amini, uccisa, stando a ricostruzioni esterne agli apparati statali, dalla polizia religiosa iraniana per aver indossato impropriamente il velo.

The mass demonstrations that followed this event led to about 100 deaths and more than 1,500 arrests in the squares of Tehran and many other cities. The protests involved thousands of women who symbolically decided to remove their veils and cut off locks of hair. This wave of reactions led to the murder of one of the prominent faces of the popular uprising, 20-year-old Hadis Najafi, who was killed by six gunshots.

Il rumorosissimo silenzio degli sportivi iraniani è stato interrotto da Azmoun e, precedentemente, da una leggenda dell’intero calcio asiatico, il ‘Maradona d’Asia’ Ali Karimi. L’ex giocatore del Bayern Monaco e dello Schalke 04 ha invocato una presa di posizione attiva da parte degli oltre 12 milioni di follower. Strenuo oppositore dell’attuale governo, Karimi ha chiesto di diffidare delle bugie governative e ha supplicato l’esercito di evitare lo scontro con i civili. Ora Karimi è stato definito ‘rivoltoso’ da alcune agenzie filogovernative ed è tornato a rischiare per la propria incolumità, come già accaduto in molto altre battaglie sociali combattute, per esempio, a favore dell’ingresso delle donne negli stadi e contro il supporto statale a gruppi di milizie radicali in Libano, Iraq e Gaza.

L’erede Azmoun, insieme ai compagni di Nazionale, ha fatto seguire alle parole di denuncia un significativo atto dimostrativo. Poco prima della partita giocata contro il Senegal, l’undici di Queiroz ha coperto con giacche nere simboli e riferimenti al proprio Paese, inscenando di fatto un lutto collettivo. Azmoun è tornato ad esprimersi ieri, con un lungo post Instagram dedicato alla pallavolo femminile iraniana, elogiando le giocatrici per il coraggio dimostrato nell’affrontare e sovvertire quotidianamente tabù e pregiudizi. “Spero che le donne del mio Paese possano smettere di soffrire”, questa la chiosa del suo testo.

L’attaccante del Leverkusen in questo momento rischia seriamente la partecipazione ai Mondiali qatarioti: un sacrificio che, stando alle sue parole, sarà orgoglioso di fare per un bene più grande. Nell’Iran contemporaneo, d’altronde, paiono ben altre le questioni da affrontare e le partite da giocare. L’elite calcistica del Paese ha preso una posizione decisa in questo momento di precarietà sociale, ha preso le parti delle donne iraniane e dei loro diritti: a dimostrarlo anche l’oscuramento volontario delle immagini profilo di quasi tutti i membri della Nazionale. Voltando le spalle al pavido silenzio e all’omertà, Azmoun, Karimi e l’elite calcistica iraniana hanno dimostrato, ancora una volta, come lo sport e gli sportivi possano essere il più potente strumento d’ispirazione, di conforto e di trasmissione di coraggio collettivo: coraggio che, ad oggi, non sappiamo dove potrà condurre.

Youtube
Testi di Gianmarco Pacione


Watchlist: ‘América vs América’

La serie Netflix che danza tra storia e presente del leggendario Club América

“En momento como este es cuando dices: ah que bonito es el fútbol, porque es un deporte donde la imaginación justifica los resultados”. Immaginazione e risultato. Mistica e razionalismo. Elementi apparentemente così distanti, eppure così compenetranti nell’universo calcistico messicano. Per osservare la serie Netflix ‘América vs América’ bisogna essere consapevoli di questo concetto, soprattutto bisogna essere consapevoli di non trovarsi di fronte ad un semplice documentario sportivo, ma a qualcosa di più complesso.

Questa produzione è difatti un viaggio nella società messicana, nella sua evoluzione lungo il XX secolo, è una lente d’ingrandimento sul formichiere umano di Città del Messico, terra di equilibri politici ed economici, d’istrionici imprenditori e tifosi passionali, è l’insieme di folcloristiche biografie e geniali soprannomi: filoni narrativi che convogliano continuamente e irrimediabilmente nella mitica divisa azulcremas del Club América.

Da ‘Canarios’ a ‘Aguilas’, da squadra minore a top club continentale. Grazie ad un convincente dualismo tra passato e presente, le sfaccettature del Club de Fútbol América vengono rappresentate in quella che pare una novella uscita dalla penna di Osvaldo Soriano. O meglio, una telenovela. Già, perché la moderna grandezza delle ‘Aquile’ deve tanto, se non tutto, al re delle soap opera e delle televisioni messicane: Emilio Azcárraga Milmo, affarista che nei primi anni ’60 raccolse il Club dai bassifondi della Primera División, cambiandone per sempre la storia.

Saltando tra la costruzione del monumentale Estadio Azteca, anch’essa finanziata e voluta dal ‘Tigre’ Emilio Azcárraga Milmo, e focus contemporanei dedicati alla turbolenta panchina dell’elegante Santiago Solari o a quella dell’irascibile ‘Piojo’ Herrera, ‘América vs América’ è un gustoso compendio di un’esotica e folle storia di calcio, un romanzo visivo che merita di far parte della nostra Watchlist e di essere assaporato in tutte le sue sfumature.


Mike Powell, 8.95 è per sempre

Insieme a Karhu abbiamo incontrato il più grande lunghista della storia

Esistono momenti sportivi che si riflettono sul corso della storia, che ridefiniscono i paradigmi della fisica, che rielaborano i limiti umani, rendendo la realtà immaginazione e l’immaginazione realtà. Sono rapidi strappi temporali, istantanee e imprevedibili transizioni verso nuove ere atletiche, verso nuovi mondi inesplorati.

“Competere con Carl Lewis non era facile, sapete?”, scherza Mike Powell allargando le braccia e regalando un sorriso ironico al media center del Ratina Stadium di Tampere, “Era una leggenda vivente. Il mio unico focus era batterlo. E per batterlo sapevo che avrei dovuto fare una sola cosa: infrangere il record mondiale”

30 agosto 1991, Mondiali di atletica leggera a Tokyo, finale di salto in lungo. L’uomo chiamato ‘Figlio del Vento’ si abbandona ad una corrente ascensionale e, contemporaneamente, orizzontale. Sono quasi 3 metri al secondo di aiuto ventoso. Il suo corpo fugge dalla sabbia poco dopo, lasciando l’impronta a 8 metri e 91 centimetri. Bob Beamon nella rivoluzionaria kermesse di Città del Messico ’68 si era fermato un centimetro prima, polverizzando il record mondiale del sovietico Igor’ Ter-Ovanesjan e ridefinendo l’intera disciplina.

“Tre giorni prima di quella finale ho fatto la mia ultima sessione d’allenamento e mi hanno chiesto di firmare un autografo. Ho scritto il mio nome, Mike Powell, e a seguire ‘1991 World Champion, 8.95’. All’epoca il mio personal best era 8.66 e non sapevo nulla di centimetri, ragionavo sempre in pollici… Però quel numero era nella mia testa. Doveva succedere”

Il corpo di Mike Powell si appropria della pedana del National Olympic Stadium. Attorno alla lunga vena di tartan solo un nipponico silenzio assoluto. L’allora 27enne di Philadelphia sbuffa a cadenza regolare, pare fissare lo sguardo su una dimensione esterna, a noi sconosciuta, disegna i tipici tre-quattro passi scenici introduttivi alla sua rincorsa, poi si lancia in un ossessivo ed elegante moto rotatorio di gambe e braccia. Powell fende la terra, poi l’aria. Tutto si ferma, tempo e vento compresi.

“L’atletica è ritmo. Il salto in lungo è una danza: ti carichi, voli e… splash. Nei secondi precedenti alla rincorsa, è fondamentale la visualizzazione. Io non mi vedevo come un robot, ma come un animale, sentivo l’energia che si appropriava del mio corpo, pensavo ad un ghepardo e alla sua velocità, alle sue linee: volevo muovermi nello stesso modo”

8.95. È una danza animale. È un primato mondiale destinato a durare per trent’anni, e per chissà quanti altri ancora. Powell festeggia correndo all’impazzata, abbracciando idealmente l’intera tribuna: fiumi di persone che non riescono a reagire, meravigliate, quasi atterrite, da un gesto atletico che nulla ha di umano. Grazie a quei 9 metri di planata, Powell ha appena assaporato una rivincita attesa da tutta la vita, ha scritto con il proprio corpo un qualcosa che non può e non potrà essere cancellato, ha semplicemente dichiarato di essere il più grande saltatore in lungo della storia sportiva.

“Quel salto non riguardava solo il Mondiale. Riguardava tutta la mia vita, tutti coloro che non avevano creduto in me: gli addetti ai lavori che pensavano fossi troppo magro, le ragazze che si erano rifiutate di uscire con me… In quel salto c’era tutto. Stavo dicendo al mondo ‘I’m Here!’. Ero, anzi, continuo ad essere felice e orgoglioso. Sono stato in grado di entrare nella storia sportiva e io, da sempre, sono prima di tutto un fan assoluto di questo sport. Sono un ‘athletic geek’ e vedere tutte queste persone che ancora oggi mi fermano per chiedere una foto, o anche solo per complimentarsi, mi fa essere grato nei confronti del salto in lungo”

Camminare al fianco di Mike Powell sarebbe complesso in un normale contesto cittadino, figurarsi in una città finlandese popolata da amanti del track & field. Nel villaggio World Masters Athletics di Tampere, dove Powell svolge il ruolo di ambassador, ogni passo per questo mito vivente equivale ad un selfie, ogni saluto equivale ad una forte emozione provocata. Oggi Mike Powell ha 58 anni. Sono passate tre decadi dal suo capolavoro aereo, eppure tutti continuano ad essere attirati dall’aura di un uomo speciale, nel vero senso del termine.

“Per me è naturale stare in mezzo alla gente. Per alcuni atleti non è facile, me ne rendo conto, ma per me è gratificante. Più di tutto amo stare a contatto con gli atleti che alleno. Con loro il mio obiettivo principale è instillare fiducia e divertimento. Avere fiducia come atleta equivale ad avere fiducia come persona, e la fiducia è uno strumento fondamentale per giovani ragazzi che cercano di definirsi come esseri umani, che lottano per trovare un proprio posto nello sport e nella società. Quando vedo gli atleti Masters, poi, capisco di essere nel posto giusto: sono pazzi quanto me. Dico sempre che è vecchio solo chi non si muove: io mi alleno, alleno i giovani, ballo, mi sento giovane nella mente. L’età è solo un numero”

Mentre sorseggia un bicchiere di Lonkero, drink inventato in occasione delle Olimpiadi di Helsinki ’52, in compagnia di Emanuele Arese, Chief Operating Officer di Karhu, official sponsor dei WMA di Tampere, Mike Powell emana una sensazione di grandezza controllata, di autentica umiltà. Ci comunica che non è arrivato in Finlandia solo per stringere mani e fare pubbliche relazioni, ma per suonare, per vestire i sempre più graditi panni di DJ nella festa serale aperta a tutti gli iscritti WMA.

“Ve l’ho detto, la musica e l’atletica sono connesse. Per me il salto in lungo è hip hop. Io sono cresciuto con il flow della Sugar Hill Gang e ancora oggi ballo insieme a mia figlia. Tanti miei amici ascoltano il jazz, ma io ho bisogno di altri beat, soprattutto quando sono in pista. Fare musica mi piace, da sempre, per questo ho iniziato e sto continuando a fare il DJ. La musica è positività e la positività è un segreto nella carriera di uno sportivo. Come persone tendiamo ad essere negative, ma con i miei ragazzi faccio l’esatto opposto: continuo a ripetere loro quanto siano meravigliosi e grandi. In fondo si tratta di questo, che sia un record mondiale o qualsiasi altro obiettivo: se puoi vederlo, se puoi sentirlo, se puoi pensarlo, allora puoi farlo… No?”

This project is supported by Karhu Karhu Running 
Photography Rise Up Duo
Video Youtube
Testi di Gianmarco Pacione


The Eighth Issue

Il rapporto tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e la comunità, tra l’uomo e sé stesso. Tutto incorniciato dall’immaginario culturale sportivo. Vi presentiamo Athleta Magazine Issue 8. La copertina dipinta dalla lente di Achille Mauri introduce la prima storia ‘I Want To Live In Real Madrid’, un viaggio di Alessandro Simonetti tra le bollenti dune di Fuerteventura, divenute centro calcistico per migranti africani. Dune che diventano interiori con Giuliano Pugolotti e il suo ‘Inner Dunes’, suggestivo saggio visuale dedicato all’ultratrail desertico. Elemento naturale che ritorna anche in ‘Una Inmensa Stepa Verde’, dove la poesia fotografica contemporanea di Achille Mauri si sublima nel contesto outdoor. Le due ruote si sublimano invece in maniera molteplice nel doppio reportage ‘Ice & Fire’ di Eric Scaggiante/Niccolò Varanini e ‘No Temas, Somos Los Chilangos’ di Jeoffrey Guillemard: da una parte osserviamo l’affascinante dolore sportivo del ciclocross, dall’altra indaghiamo il valore sociale del Chilangos Lowbike Club México, community che usa la connessione tra arte e ciclismo per debellare la piaga della criminalità organizzata. Di community in community, da Città del Messico a Venice Beach, dove l’empowerment femminile (e non solo) si amplifica sulle tavole da skate di ‘There Is No “I” In Grl’, ritratte da Giulia Fassina. Conversiamo poi con Charlie Dark e Sanchia Legister, coppia di creativi londinesi che nella corsa e nello yoga hanno trovato gli strumenti per cambiare le vite proprie e altrui, e con Virgil Dey, b-boy e performer di fama internazionale con una visione antropologica e culturale della breakdance. L’editoriale di Julien Da Costa a base di football americano e fashion parigino ‘Easy To Pick Up, Hard To Put Down’ è l’ultimo tassello di questo nuovo capitolo di Athleta Magazine: l’unico luogo dove lo sport è arte e cultura.