Archie Davis, correre è vita

Entrate nel mondo e nelle sensazioni di questo corridore dalla penna ispirata

Come entrare nella mente, nelle gambe, nelle fibre muscolari e sensoriali di un atleta di alto livello? Un enigma spesso irrisolvibile. Spesso, non sempre.

Archie Davis è un corridore di livello internazionale, una giovane promessa dell’atletica britannica, capace di correre gli 800 metri di 1:44.72 e il Miglio in 3:54.27. Archie Davis è uno scrittore.

Con la sua penna ha deciso di condurci all’interno della propria vita, dei propri sacrifici, del proprio sogno olimpico. Un viaggio impreziosito dai meravigliosi scatti di Holger Pooten, Direttore del London Institute of Photography. Buona lettura.

Correre; lo sport più accessibile al mondo. Per la maggior parte delle persone è una una forma di catarsi, di liberazione mentale dopo una dura giornata di lavoro, una sfida per migliorarsi come individui o semplicemente un’opportunità per migliorare la propria salute.

Per me? È vita.

La corsa mi ha portato in giro per il mondo e permesso di competere per il mio Paese. La corsa mi ha condotto in arene affollate, dove ho sfidato alcuni dei migliori atleti della storia. Ma è stato tutt’altro che semplice arrivare dove sono ora, ci sono state molte battaglie lungo la strada che mi hanno formato come atleta e come persona. Il rapporto con la corsa lungo questi 13 anni vissuti da atleta si è ovviamente evoluto, ma il mio amore per questo sport è ancora forte, lo è sempre stato.

Tutto è iniziato alle elementari, quando avevo appena 9 anni. Ho sempre avuto una sorta di vantaggio competitivo, una passione innata per lo spingermi al limite; qualunque sport faccio, devo vincere. Il mio insegnante mi ha iscritto ad una gara sulla lunga distanza in uno dei miei primi giorni di sport scolastico, sono rimasto sorpreso quando ho vinto con un margine impressionante. Immediatamente alcune persone hanno cominciato a chiedermi di unirmi al club di atletica locale. La mia nuova passione correva veloce e non vedevo l’ora di iniziare…

Da ragazzo ero molto orgoglioso di far parte di un club di atletica leggera e, contemporaneamente, ero completamente all’oscuro della mia quantità di talento. Non ho mai realmente considerato la possibilità di diventare un atleta d’élite, non avevo idea di cosa ci sarebbe voluto per raggiungere un livello mondiale e degli ostacoli che avrei dovuto affrontare lungo la strada. Quel periodo della mia carriera è stato puro e innocente. Correvo per amore di questo sport e per la sensazione di libertà che provavo quando entravo in pista. Ricordo di aver visto i miei primi Giochi Olimpici in TV in quel periodo, Pechino 2008. Guardare atleti come Usain Bolt infrangere record mondiali e vincere medaglie d’oro mi ha fatto capire che l’atletica leggera poteva essere molto più di un semplice hobby, anche se non l’avevo ancora immaginata come una parte decisiva del mio viaggio.

Penso che l’ingrediente chiave per avere successo sia la dedizione. Credo fermamente che chiunque tu sia e qualunque cosa tu faccia, tu possa raggiungere la grandezza concentrandoti sulla coerenza e affidandoti totalmente alla concentrazione e all’impegno. Ci sono atleti là fuori che hanno tutto il talento del mondo, ma non sono preparati a dedicare ad esso le ore extra che lo fanno maturare, che lo rendono concreto. Ho avuto la fortuna di imparare cosa significasse tutto questo molto presto nella mia carriera, ovvero quando ho subito il mio primo grande infortunio. Avevo solo 13 anni. Alcune persone potrebbero chiedersi perché mi consideri fortunato nell’aver patito quel brutto infortunio: la realtà è che sono consapevole di aver imparato moltissimo riguardo il concetto di ‘dedizione’. In quei 6 mesi di inattività ho appreso molto più di quanto non abbia mai fatto da allora.

Era l’aprile del 2012 e avevo appena finito la mia stagione di Cross Country Under 15. Per la prima volta avevo iniziato un programma di ‘forza e condizionamento atletico’ – semplicemente un circuito di esercizi di forza e agilità di base – e devo ammettere che, a quei tempi, non ero la persona più coordinata del mondo.
Durante uno degli esercizi ho puntato il piede sul suolo e la caviglia ha fatto un movimento innaturale. Il dolore ha subito pervaso tutto il corpo e ho capito di essermi fatto male seriamente.

La mattina dopo la caviglia aveva raddoppiato le sue dimensioni e il mio piede era completamente nero. Un viaggio in ospedale per una radiografia ha rivelato che mi ero fratturato un metatarso, con ogni probabilità avrei saltato l’intera stagione estiva. Ero sconvolto, ma il mio allenatore mi ha fatto sedere e mi ha illustrato un piano che ha attirato immediatamente la mia attenzione. Sapevamo che sarei andato in giro con un piede fratturato e ingessato per 6-8 settimane, poi avremmo potuto iniziare un programma di riabilitazione che mi avrebbe aiutato a tornare a correre e a gareggiare il prima possibile. Il programma prevedeva una serie di esercizi di rafforzamento che avrei dovuto fare ogni giorno. Il mio allenatore era preoccupato: la dedizione di cui avrei avuto bisogno forse era eccessiva per un ragazzino della mia età. In realtà non vedevo l’ora di affrontare la sfida.

Per farla breve, sono uscito ogni singolo giorno per otto settimane e ho completato la mia riabilitazione con tutta la concentrazione e lo sforzo fisico-mentale possibile. Ho recuperato in fretta e sono persino riuscito a tornare in pista per gareggiare alla fine della stagione 2012, cosa che a cui nessuno credeva. Avevo solo 13 anni e avevo compreso il significato di ‘dedicare sé stessi a qualcosa’.

Da allora il viaggio è stato un vero e proprio ottovolante. Ho partecipato ai miei primi campionati internazionali all’età di 16 anni (gareggiando per l’Inghilterra ai Giochi giovanili del Commonwealth a Samoa, la mia località sportiva preferita fino ad oggi!), poi ho continuato ai Campionati Mondiali Junior e agli Europei Junior Under20. Ho dovuto combattere contro avversità estreme in ognuna di queste occasioni, anche solo per arrivare alla linea di partenza.

Una settimana prima dell’inizio dei Campionati del Mondo Junior, il mio migliore amico è morto. Penso sia una cosa complessissima da somatizzare a 17 anni. Tutto ciò a cui riuscivo a pensare in quel momento era lui, ero sconvolto. Salire su quell’aereo avrebbe potuto significare perdere il suo funerale e questo mi terrorizzava. Mi sono reso conto, però, che più di ogni altra cosa il mio amico avrebbe voluto che andassi là fuori, indossassi quella divisa della Gran Bretagna e gareggiassi in un campionato del mondo. È stata una delle cose più difficili che abbia mai fatto, ho corso per lui. Alla fine sono riuscito a partecipare sia al funerale che ai campionati, il che è stato un enorme sollievo. Ripensando a quel periodo, sono davvero orgoglioso di me stesso e di come ho affrontato quella situazione critica. È stata un’altra grande esperienza di apprendimento, un punto di passaggio che ha reso tanti problemi futuri molto più facili da affrontare.

L’anno successivo, ho sviluppato una patologia chiamata sindrome di Plica. Ha colpito un mio ginocchio e mi ha impedito di correre per l’intero periodo invernale. Mi sono dovuto sottoporre ad un intervento chirurgico per rimuovere della cartilagine, il che mi ha obbligato a stare con le stampelle per un lungo periodo. Sono stato completamente fermo da settembre a febbraio. Ho fatto forza sulla mia precedente esperienza di infortunio per lavorare sodo e ho trovato vie alternative per allenarmi, come la bicicletta e il nuoto. Contro ogni previsione, sono riuscito a rimettermi in forma per la stagione estiva e a qualificarmi per gli Europei, finendo al 5° posto. Dopo due anni davvero difficili, ero convinto di essere pronto per qualsiasi cosa.

Saltando in avanti, al giorno d’oggi, posso dire che non sono mai stato così innamorato della corsa. Ho avuto una vera stagione di svolta nel 2021 e molto di questo è dovuto a una mentalità evoluta e a un forte aumento della fiducia in me stesso. Per essere un atleta di successo bisogna credere nelle proprio capacità. Quando mi posiziono sulla linea di partenza ora mi sento diverso. Penso a ogni sfida che ho superato per arrivare dove sono; mi fa sentire potente. Sento di essere veloce, forte e competitivo quanto tutti i miei concorrenti sulla pista: questa consapevolezza è uno strumento importantissimo, è ciò che forma i campioni.

Quest’anno ho ricevuto le mie prime due convocazioni nella nazionale senior britannica, nei Campionati Europei Indoor e nei Campionati Europei a Squadre. Passare dalla fascia di età junior a quella senior è una sfida enorme e sono felice di aver raggiunto questo livello nella prima stagione da atleta ‘adulto’. Non solo, ho anche migliorato il mio PB di quattro secondi sugli 800 metri e di 6 secondi sul Miglio: le cose stanno davvero iniziando a prendere forma!

Ho lavorato più duramente che mai: io e il mio allenatore abbiamo cercato di concentrarci sui dettagli, sulle mie debolezze e non sulla quantità. Penso ci sia una linea molto sottile tra non fare abbastanza e fare troppo: ognuno ha il proprio equilibrio e l’unico modo per trovarlo è conoscere il proprio corpo, imparare i segnali della stanchezza, capire dove e quando ci si può spingere un po’ più in profondità.

Sono molto eccitato per quello che verrà. L’anno prossimo punterò a far parte delle squadre per i Campionati del mondo e per i Giochi del Commonwealth. Alla luce dell’anno appena trascorso, credo davvero di potercela fare.

Nel 2024? Spero che possiate vedere il mio volto nella squadra del Team GB per i Giochi Olimpici di Parigi…

Credits

Archie Davis
IG @archiejdavis

Ph by Holger Pooten
IG @holgerpooten


‘Mischie e Battaglie’, il rugby è una forma d’arte

Negli accostamenti visivi di Massimiliano Verdino la palla ovale diventa pittura e statuaria

Antico e contemporaneo, artistico e sportivo. Nelle analogie iconografiche di Massimiliano Verdino il rugby si sposa con l’arte classica, ne assume i tratti, ne rivendica i canoni, fondendo definizioni antitetiche solo all’apparenza.

L’antropologo e fotoreporter romano nella serie ‘Mischie e Battaglie’ indaga lo sport ferino e muscolare per definizione. Una pratica tanto rude quanto elegante, racchiusa programmaticamente nelle parole di Richard Burton: “il rugby è uno spettacolo magnifico, un balletto, un’opera”. L’intuito di Verdino accosta gesti e movimenti da campo ai grandi classici di pittura e statuaria, evidenziando significati e significanti degli uni e degli altri, corredandoli con una profonda disamina antropologica.

Abbiamo voluto approfondire questa interessante collezione artistico-fotografica, interrogando l’ideatore stesso. Buona lettura.

‘Mischie e Battaglie’, come nasce l’idea di queste analogie iconografiche tra rugby contemporaneo e arte rinascimentale?

È una idea che nasce dalla mia passione per l’arte, rinascimentale soprattutto. La mia è una formazione classica data dall’aver fotografato anche tanti altri sport, grazie alla professione di foto-giornalista sportivo che mi ha portato a coprire i più svariati eventi sportivi, che sono stati pubblicati su magazine italiani e internazionali. L’accostamento analogico lo abbiamo sperimentato insieme con Katia Stefanucci, la mia compagna, che da photo-editor indaga il mio archivio fotografico alla ricerca del tesoro…

Da esperto in materia, quanta carica artistica è presente nel corpo di un atleta e, nello specifico, nel corpo di un rugbista in azione?

Il corpo dell’atleta è un corpo che viene costruito su una tabula rasa. Antropologicamente diciamo che l’uomo veste il corpo dell’atleta, facendolo diventare habitus con la cura, con l’allenamento specifico, con una particolare dieta alimentare; insomma con uno stile di vita che dobbiamo considerare cultura. Il corpo del rugbista poi è esemplare: parliamo di una disciplina per la quale l’atleta deve possedere qualità atletiche spiccatissime, doti di combattimento innate, spirito di gruppo e lealtà verso l’avversario.

Tutto ciò è necessario per l’azione di cui mi chiedevi in questa domanda: la ricerca del rugbista, ma anche di qualsiasi atleta, tende verso qualcosa che va oltre la meta o il raggiungimento di un risultato: è una ‘tensione verso l’assoluto’, che si raggiunge nell’interazione con l’avversario o con il compagno all’interno di uno spazio ben definito. In una sola parola l’atleta ricerca ‘l’agone’, quella particolare azione che sprigiona una speciale aura. Ecco il punto: ho capito, studiando la storia dell’arte, che nelle mie fotografie cerco di fermare ‘quell’aura’, la stessa che i grandi artisti rinascimentali hanno rappresentato nelle loro opere.

Quanto studio c’è alla base del tuo progetto? Durante la tua ricerca sei stato particolarmente colpito e influenzato da qualche quadro o qualche gesto atletico?

C’è tantissimo studio. Prima di scattare: nelle giornate passate a osservare dalle tribune gli atleti in gara; durante gli shooting: perché è molto difficile, anche tecnicamente, fotografare il movimento e controllare il mio stato d’animo, che è in piena estasi davanti a quelle opere d’arte in movimento; infine a posteriori: in camera oscura o in archivio quando bisogna dolorosamente definire la selezione che concettualizzi quanto ci si era prefissati.

Durante la ricerca fui colpito dalla Battaglia dei Centauri, un piccolo bassorilievo di Michelangelo che studiai in originale a Casa Michelangelo a Firenze nel 1996: da quel giorno passarono 16 anni, prima che il progetto vedesse la luce con la pubblicazione del volume “Inside Rugby”, presentato al Salone del Libro di Francoforte. Durante questo periodo ho girato il mondo a seguito della nazionale italiana di Rugby.

Nella presentazione della tua mostra al Palazzo Ducale di Genova si parla della volontà di trasmettere la cultura del rugby, ma anche il rugby come cultura. Potresti approfondire questo concetto?

Come antropologo mi sono chiesto perché lo sport, da sempre, riveste una importanza vitale nella vita dell’uomo. La risposta è nella parola ‘gioco’ dalla quale il termine sport deriva: ebbene la libera associazione di fantasia che sta alla base del linguaggio, che a sua volta contraddistingue la nostra specie umana, non è altro che un gioco con determinate regole che lo rendono praticabile: la sintassi e la grammatica.

Lo sport non si potrebbe praticare senza regole, sarebbe solo caos. Quindi lo sport e per osmosi il rugby, prendendo a prestito il nocciolo del saggio Homo Ludens di Huizinga, non è lo sport che è anche cultura ma è la cultura (che, come abbiamo visto, nasce dal linguaggio) che non potrebbe esistere senza il gioco e quindi lo sport. In ultimo il termine cultura, antropologicamente inteso come un insieme di pratiche trasmesse e condivise, deriva dal verbo latino ‘colere’ che ha tra i suoi significati abbellire, ornare, prendersi cura: in questa accezione è perfettamente giustificato il ragionamento espresso sopra sul concetto di habitus dell’atleta.

Pensi, in futuro, di espandere questa ricerca anche all’esterno del panorama rugbistico, focalizzandosi su altri sport?

Ho ricevuto molte proposte in questo senso e non nego che la tentazione di reiterare il concept è molto forte. Però questo è un progetto a cui tengo molto e nel quale ho investito tanto: diciamo che finora non ho ancora avuto la giusta ispirazione e non vorrei che venisse snaturato solo per un ritorno economico. Posso dire che ho iniziato a fare ricerche nel mondo della scherma, che è un’altra disciplina classica molto rappresentata nell’arte. Ma siamo appena agli inizi… Ci risentiamo tra qualche anno!

Credits

Ph by Massimiliano Verdino
IG @maxverdino

Testi di Gianmarco Pacione


Confórmi: the forms don’t belong to anyone

Interview with Davide Trabucco, the artist who transforms the pre-existing into novelty

The forms don’t belong to anyone. Davide Trabucco’s artistic philosophy reveals this to us: a philosophy translated into visual combinations, in collages of paintings and snapshots, of statues and objects distant in time and meaning, not in aesthetic continuity.

Confórmi is the visual archive that contains all this, a project contaminated by art, design, architecture and, partially, by sport. A constantly updated catalog, based on the need to start from the pre-existing one to produce novelties, to arouse an unexpected sensorial impact. In Trabucco’s works certainties mix, merge, becoming uncertainty, releasing a profound aesthetic and enigmatic force.

We explored this alternative world, where everything sees its original meaning change, and we focused, in particular, on the many sporting icons and moments present within it.

Hendrick Goltzius, Icarus, from The Four Disgracers, 1588 
VS
 Wainer Vaccari, Calciatori Panini, Logo, 1969

How and why was the ‘Confórmi’ visual archive born? What are the idea and vision behind this project?

Confórmi was born from the need to order my heritage of visual references. The will was to share this system of references on the web, to make everyone participate in some way in my world view.

Gian Lorenzo Bernini, Apollo and Daphne, Galleria Borghese, Roma, Italy, 1623-1625 VS Mano de Dios, Estadio Azteca, Mexico City, 22 June 1986

The images that make up this archive are “stolen” from the web, and to “close the loop” it was normal to think of a way to return them to the web world.

Instagram turned out to be the ideal place to share these images, because more than others it’s the social network that works effectively with images. After all, the texts on Instagram matter very little.

Roberto Baggio penality miss, Brazil – Italy, Pasadena, 1994 FIFA World Cup VS Jean-François Millet, L’Angélus, 1857-1859

What meanings are hidden behind the name ‘Confórmi’ and the mantra “the forms don’t belong to anyone”?

Choosing a name was fundamental for the recognition of the project on social networks. So I looked for a word that could summarize one of the main aspects of ‘Cónformi’: the similarity that binds the images to each other.

“Forms don’t belong to anyone” is a sort of programmatic manifesto: forms pre-exist to the things we create, in some way they’ve always been present in the world around us and we do nothing but reuse them and give them new meanings.

Sputnik 1, first artificial Earth satellite, 1957 VS 1972 Olympic Men’s Basketball Final, Soviet Union defeats USA, first ever loss for USA in Olympic play

How does the sporting act fit into your research and artistic production?

The sporting act, in the case of Confórmi for example, is mainly linked to the body and the position it occupies in space: a body under stress enhances a certain part of the muscles and develops different shapes in its own way.

1988 Olympic Men’s Basketball Semifinal, Soviet Union defeats USA VS Sandro Botticelli, Primavera, 1482

Senna, MJ, Maradona… What kind of artistic-visual inspiration do these icons give and how do you manage to blend them with classical art, fashion and master photography?

Sports champions have always been present in the collective imagination and using their images fills the entire work with numerous meanings.

René Magritte, Le Principe du plaisir, 1937 VS Neil Leifer, Michael Jordan, 1991
Ayrton Senna © Norio Koike
VS
Martin Margiela, Spring Summer 2001 collection (#25)
Diego Armando Maradona, Argentina vs Cameroon | 1990 FIFA World Cup | San Siro Stadium, Milan, Italy, 8 June 1990 VS Giovanni Anselmo, Entrare nell’opera, 1971
Icon Collection Juventus Diego Armando Maradona, Argentina vs Bulgaria | 1986 Fifa World Cup, Estadio Olimpico Universitario, Mexico City, Mexico, 10 june 1986 VS Agesander, Athenodoros and Polydorus, Laocoön and His Sons, 1st century AD

What does sport represent in your personal and artistic life?

For me, sport mainly concerns Inter. It’s the only thing I follow with a certain continuity. I especially like individual sports, and I often watch swimming and tennis.

Sport teaches above all methodicality and regularity, which also become useful in an artistic journey, in which it’s often believed that only flair and creativity count.

Contrary to this it’s often necessary to stay focused on things for a long time before seeing results, like in sports.

Icon Collection Juventus Diego Armando Maradona, Argentina vs Bulgaria | 1986 Fifa World Cup, Estadio Olimpico Universitario, Mexico City, Mexico, 10 june 1986 VS Agesander, Athenodoros and Polydorus, Laocoön and His Sons, 1st century AD

What do you think of the increasingly interweaving between contemporary art/design and sport?

The link between sport and art is an indissoluble link and has distant roots. Just think about the countless representations of sportsmen who have come to us through classical statuary, or the many Greek and Roman architecture linked to the world of sport (arenas or stadiums) that we’ve inherited.

Polychrome terracotta depicting acrobat, IV century BC VS René Higuita, “Scorpion kick”, England-Colombia, Wembley Stadium | London, UK, 6 September 1995

Will sports inspiration find further space in your future productions, even outside the ‘Confórmi’ project?

Sport is part of my imagination so, like all things that interest me, it influences more or less evidently the things I do. It’s always very useful to look at areas that seem to have little in common with your work, because they allow you to look at your world from a different perspective and to take advantages with new expressive opportunities.

Credits

Davide Trabucco
IG @thegreatcaulfield
IG @conformi_

Testi di Gianmarco Pacione


Mur0ne’s dreamlike sporting urbanity

Horizontal asphalt, vertical walls, a colorful sport to unite them. Interview with the Spanish street artist

The balance between design and pop art, between horizontal asphalt and vertical walls, between imaginary worlds and dream associations. Mur0ne, nickname of Iker Muro, since 2002 has found its own virgin canvas in the urban landscape.

Born in Bilbao, his graphic-visual paths have exponentially populated the Spanish cities, quickly arriving to migrate beyond the Iberian borders. The production of this street artist has recently begun to flow into the sports universe and, at the same time, to draw from it.

During a break from brushes and paints, we asked Mur0ne to tell us about his artistic path, about his connection with sport and to lead us into those city views that he has been able to transform into unique panoramas.

How was your artistic passion born and how has it evolved over time?

I have been drawing since I was a child. I studied graphic design in my teens, which combined with street graffiti, led me to paint murals and travel the world. I never had a special interest in art, let’s say it was graffiti that led me later to become interested in more ‘classical’ art.

What role did sport play in your artistic production? Which sports are you particularly fond of?

I painted a tennis court a couple of years ago and I haven’t stopped since. The impact that social networks and the internet have to spread the work is overwhelming. I have no special connection to sports like tennis or basketball, I played soccer as a child like all children in Spain. However, the sports I am really into are sliding sports, like skateboarding, surfing, and snowboarding, those are without a doubt my sports.

Basketball courts, skateboards, tennis courts… How do your colors fit into these contexts and objects?

Well, it is clear that the courts on which I do my art are not intended for a “professional” use. They are usually schools or public courts where the interest lies more in making users (children and adolescents) discover that there are other ways of understanding the functionality of things or the approach they can give to their lives. We always tell our children that they must be doctors or teachers but when they discover that there is a guy painting the floor of the schoolyard and he makes a living out of it, their heads “explode”.

What do you think of the increasingly intense relationship between graphic/visual arts and sport?

Design, illustration, and art have always been closely linked to sport. From advances in sneaker design to the connection between street art and sports. I suppose that the freshness and intensity of both media connect perfectly and that is why sports brands want to have collaborations with urban artists.

“Wall Is My Name” is your latest publication. Would you tell us something about it? 

Wall is my name is the book that compiles at least 15 years of career as a muralist. Although there are previous images of my early days in graffiti, 20 years ago, the bulk of the book is my most current work. We have worked hard for over a year collecting images and designing a book that has a lot of weight and personal value, I cannot be happier with the result, the book has soul.

 

What are your plans for the near future? I saw that most of your works are in Spain, will you expand them more and more outside your country?

Yes, right now I am traveling to Senegal, I had the opportunity in the past to carry out a couple of projects in West Africa and, of course, I will always be ready to continue painting beyond my borders.

Credits

Iker Muro
IG @mur0ne

Testi di Gianmarco Pacione


Chelsea Werner is more than a gymnast

Winning athlete, successful model, pioneer of inclusion. The portrait of ‘Showtimewerner’

A story that can inspire, that can break stereotypes. A story that can change internal and external perceptions, that can change lives.

Chelsea Werner is a winning gymnast, Chelsea Werner is an established model, Chelsea Werner was born with Down syndrome.

For this American athlete, artistic gymnastics meant much more than the two world gold medals and the four Special Olympics national titles: parallels and balance beams have become a way to discover an unexpected life made up of personal satisfactions and evolutions, of a positive impact on the collectivity.

The intense portraits of Alejandro Poveda lead us into the world of ‘Showtimewerner’, a pioneer who, with her deeds, is marking the path of contemporary inclusion. A multifaceted inclusion, which ranges from international competitions to the modeling career that began recklessly and, today, has reached an incredible level of resonance (as demonstrated, for example, by the recent H&M campaign).

We were lucky enough to chat with Chelsea and her mother Lisa, trying to explore a story that goes beyond simple sporting excellence.

What does artistic gymnastics mean to you and what role has it played in your life?  

Gymnastics has been part of my life ever since I can remember. At first it was a fun activity to do with friends. When I started competing with Special Olympics I really loved the crowd cheering for me.  When I started training with a coach who saw past my disability I really started to improve. I learned to work really hard. I became very confident and was at my best under pressure. That’s when I got my nickname ‘Showtimewerner’. I think that confidence and work ethic has helped me in all areas of my life. 

What value did international victories have for you? Did you experience them as simple sporting achievements or as something more?  

I felt very proud of my two World Championship victories! I loved seeing the American Flag being raised and hearing my National Anthem playing.

Gymnastics and medals, the world of fashion and cameras: is there some feeling or emotion inside you that unites these two worlds?  

From a young age I became very comfortable in front of a camera. I loved being in front of a camera. When I did my first modeling job for H&M in Havana, Cuba, I fell in love with modeling. I love the excitement that both competing in gymnastics and modeling bring into my life. 

How important do you think it’s to break the stereotype walls in modern society? And how useful do you think are, from this point of view, media such as sport and the world of fashion? 

 

This question is answered by Lisa, Chelsea’s mother.

As Chelsea’s mom I see the importance and value in what Chelsea has done and is continuing to do. When Chelsea was born there were very few role model’s of individuals with Down Syndrome. The future did not look very promising for Chelsea.

Thanks to media people around the world are able to see what Chelsea has accomplished. It has given so much hope to new parents who are looking for guidance and inspiration for their children. It’s so rewarding to hear how Chelsea is helping so many people around the world. A great example of this is Chris Nikic. Chris just became the first individual with Down Syndrome to complete an Ironman Triathlon. Chris’s father wrote us a letter saying the only reason they thought it was at all possible was because they had followed Chelsea’s story.

 

What are your future projects? Will you still be able to maintain a balance between these two universes in your life? And will there also be time to work on something else?

Because of COVID-19 many events have been canceled. I am now training and competing in USA GYMNASTICS (with my non-disabled peers). I am back with my original coach Dawn, who took me to my two World Championships. I am excited to be learning new skills and my gymnastics has never been better. In addition to my modeling agencies in New York and LA I’m now signed with Milk Modeling Management in London. I will be going to London as soon as restrictions are lifted.  I love my hip hop dance class and hanging out with my friends. I am also an aunt and have 3 nephews and a niece that are the best!

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Testi di Gianmarco Pacione

Photo by Alejandro Poveda
IG @ale_poveda
alejandropoveda.com

Chelsea Werner
IG @showtimewerner

Chelsea Agency
IG @wespeakmodels
IG @milkmodelmanagement


‘To Give and Take’, l’arte di Alvin Armstrong

Lo sport come mezzo di produzione artistica e di riflessione sociale. Intervista all’artista americano

‘To Give and Take’ è la nuova serie di dipinti prodotta da Alvin Armstrong, attualmente esposta all’Anna Zorina Gallery di New York.

Un’immersione visiva nel concetto di icona sportiva afroamericana, una riflessione sulla vulnerabilità della popolazione nera del Paese a stelle e strisce, sulla giustapposizione tra eccellenza atletica e irrilevanza sociale.

Abbiamo raggiunto l’artista nativo di San Diego, per approfondire significati e significanti delle sue opere, per comprendere la posizione assunta dallo sport all’interno della sua vita e della sua produzione artistica.

Il rapporto tra arte e sport: come è nata l’idea di utilizzare lo sport come mezzo di comunicazione artistica?

Penso che per molte persone sia facile connettersi visivamente con lo sport, anche per coloro che non sono  particolarmente interessati a un gioco specifico o alle regole di esso. Lo sport è quasi come un linguaggio universale. Trovo sia particolarmente interessante trasmettere l’energia sprigionata da esso attraverso le arti visive, indipendentemente dal mezzo specifico. Ovviamente non sono il primo artista a essere ispirato dall’azione, dalla potenza e dall’aspetto socio-politico veicolato dagli sport agonistici. Vista la mia esperienza come atleta praticante, poi, questa probabilmente continuerà ad essere una linea guida fondamentale nel mio lavoro.

Noi pensiamo che lo sport sia cultura. Per te, invece, cosa rappresenta?

Mio padre ha ottenuto una borsa di studio completa per il college grazie al basket. Quell’opportunità ha cambiato la sua vita: gli ha permesso di uscire da una zona critica come South Central, a Los Angeles. Io e i miei fratelli abbiamo sempre visto lo sport come una via da percorrere verso il successo e la stabilità. Abbiamo capito fin da piccoli che eccellere nello sport poteva potenzialmente significare istruzione gratuita e, di conseguenza, miglioramento delle nostre condizioni. Lo sport è stato lo sfondo costante della mia vita e ha stabilito degli standard di risultati che si sono tradotti nella mia pratica pittorica. Penso che gli sport, in particolare quelli professionistici, svolgano un ruolo complesso negli Stati Uniti. Gli americani vengono spesso uniti dallo sport, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

Il tuo lavoro mette in risalto l’eccellenza atletica degli sportivi afroamericani da un lato e la vulnerabilità della loro comunità dall’altro. Puoi dirci qualcosa riguardo la critica sociale che viene si evidenzia in “To Give and Take”?

Le caratteristiche degli atleti neri – forza, velocità, agilità, capacità di lottare e di dominare – vengono celebrati quando sono in campo, ma quando non è presente un’uniforme (sportiva), quegli stessi attributi diventano minacce per la società. Il titolo deriva dall’idea che gli afroamericani, in questo Paese, devono essere straordinari per ottenere diritti umani fondamentali come il rispetto e la sicurezza personale. La dualità intrinseca nei neri americani, così celebrati come atleti e, contemporaneamente, così vessati dalla polizia e privati di risorse per emergere, è stata l’ispirazione per “To Give and Take”.

Quali sono le influenze alla base del tuo stile pittorico e da cosa dipende l’uso di certi colori? Ti sei ispirato ad altri artisti che hanno analizzato il tema sportivo per lavorare a questa serie?

Per gli artisti che sono venuti prima e per i miei contemporanei nutro enorme rispetto, gratitudine. Penso che chiunque si renda tanto vulnerabile da esprimere il proprio pensiero al mondo, accettando di essere osservato e criticato dal pubblico, meriti il nostro rispetto. Alcuni dei miei eroi artistici sono Henry Taylor, Benny Andrews e Noah Davis. Ciò che apprezzo di più, oltre al loro incredibile talento, è la loro impavidità. Il loro lavoro mette in mostra un connubio di rischio e capacità espressiva. Nel mio lavoro cerco di non nutrire paura, cerco di fidarmi del mio intuito, di muovermi all’interno di esso e di esternarlo.

Cosa ne pensi dell’esponenziale impegno socio-politico degli atleti di alto livello? Sportivi e artisti possono cambiare la società con le loro azioni, parole e opere?

Penso che sport e arte possano influenzare la società in modo significativo. Artisti e atleti, quando hanno successo, possono far forza su un prezioso seguito, su piattaforme che possono essere utilizzate per denunciare le condizioni dei più emarginati. Penso che da un grande potere derivino grandi responsabilità, non credo che artisti o atleti possano avere il lusso di rimanere fuori dal discorso socio-politico, soprattutto negli USA del 2021.

Credi che lo sport fungerà da ispirazione anche per la tua futura produzione artistica?

Lo sport influenzerà sempre la mia pratica: se non letteralmente, anche solo nel modo in cui dipingo. Mi piace però restare aperto a vari scenari e ispirazioni riguardo al futuro. Mi entusiasma l’energia collettiva che sento trapelare da tanti miei contemporanei, in particolare dagli artisti afroamericani. Non vedo l’ora di continuare a crescere ed evolvermi; le possibilità sono infinite.

Credits

Alvin Armstrong
@eyesrevive

Testi di Gianmarco Pacione

Ph by Anna Zorina Gallery
IG @annazorinagallery
annazorinagallery.com

Portrait by Jordan Lee courtesy of the artist and Anna Zorina Gallery


Nicolò Martinenghi, atipico come il suo nuoto

Ranista dei record, grande speranza olimpica tricolore. Il ventunenne che sfrutta primati e medaglie per maturare come essere umano

“Conosco ogni angolo del mio mondo natatorio, vorrei cominciare a conoscere tantissimo anche al di fuori di esso. Mi auguro di esplorare sempre più tutto ciò che mi circonda, tutto ciò che c’è oltre la vasca, oltre questa meravigliosa bolla in cui mi trovo”

Di Nicolò Martinenghi stupiscono la maturità, le capacità e qualità riflessive, la volontà di contestualizzarsi in un panorama più ampio rispetto a quello acquatico, rispetto all’etereo mondo dell’agonismo natatorio.

Costume da competizione, arena Bishamon

In fondo questo interprete prodigioso della rana non ne avrebbe bisogno, potrebbe limitarsi a limare secondi e imperfezioni, a focalizzare il suo pensiero sui cinque cerchi, a godere di uno status impreziosito dal doppio record nazionale stabilito a Riccione poche settimane fa, coprendo in 26”39 i 50 metri e in 58”37 i 100.

Potrebbe, per l’appunto. Eppure il classe ’99 pare essere atipico per indole, per natura: un’atipicità riassunta dall’inconsueto stile scelto per competere ai massimi livelli internazionali, scelto per divorare metri fendendo correnti, fatica e cronometri.

“Ironicamente dico che non sono io ad aver scelto la rana: è la rana ad aver scelto me. Credo che questa sia la specialità più folle del nuoto, è molto tecnica, è estremamente atipica, non prevede una nuotata perfetta in senso assoluto: ognuno deve adattarsi secondo le proprie caratteristiche…”

Costume da competizione e cuffia, arena Bishamon / Occhialini, arena

Nicolò quelle caratteristiche le ha scoperte in tenera età, affrontando e superando un’iniziale repulsione per l’elemento che, con lo scorrere delle stagioni, avrebbe iniziato ad ospitarlo quotidianamente, monopolizzandone la vita. Preferiva giocare a pallacanestro, l’espansivo classe ’99, preferiva seguire le orme paterne nel florido territorio cestistico varesino. Poi l’epifania della linea nera, la volontà d’incidere totalmente sul risultato, di affrontare in prima persona, come unico attore protagonista, glorie e delusioni.

“Da piccolino odiavo l’idea di entrare in acqua, amavo stare sui parquet, ero spinto dal desiderio di emulare mio padre Samuele e i suoi trascorsi da guardia nella Ignis Varese. Ad un certo punto quell’odio è svanito e sono presto arrivato ad un punto di non ritorno: non potevo continuare ad intrecciare entrambi gli sport. Per scegliere mi sono basato sui risultati oggettivi e sul fatto che, in vasca, glorie e delusioni le potevo avere tutte per me stesso: nella corsia tutto sarebbe dipeso da me”

Dopo questa presa di coscienza, il climax sportivo di Nicolò inizia ad essere vertiginosamente ascendente, inizia a regalare risultati superlativi, a veder caricare le sue bracciate di aspettative e attenzioni mediatiche: ombre emotive frenate da un maturo e saldo contatto con la realtà.

“Ho sempre cercato di restare fedele al Nicolò quattordicenne, al ragazzo che non vuole semplicemente andare forte in acqua, ma che vuole restare a contatto con il mondo esterno, con gli amici di sempre. Ripeto, so di essere stato risucchiato da tempo dentro questa bolla magica: nella mia carriera agonistica tutto è e sarà perfetto al di là dei risultati, tutto è e sarà teso al distacco dalla realtà: rendersene conto e provare a restare connessi ad essa credo sia fondamentale. In questo critico percorso adolescenziale mi ha sicuramente aiutato l’allenarmi vicino a casa e il poter fare affidamento dai 12 anni in poi su un unico allenatore”

Il rapporto con Marco Pedoja, difatti, esula dal classico legame coach-atleta. È un sorta di rapporto fraterno, quello dei due, coltivato con costanza da circa un decennio: un rapporto colorato da un accrescimento reciproco vissuto a pelo d’acqua. Al fianco di questa figura Nicolò ha visto aggiungersi altri tipi di aiuto, come quello essenziale di uno specialista della mente, di un esperto in grado di far incidere il fattore psico-emotivo sul gesto muscolare.

“Marco mi ha visto crescere, credo sia una carta vincente il fatto di aver condiviso e condividere tantissimo tempo con una persona che mi conosce così a fondo. Quando ha iniziato a seguirmi aveva poco più di vent’anni e lo vedevo come un fratello maggiore, poi il nostro rapporto si è ulteriormente evoluto. Un’altra carta vincente è la presenza di un mental coach, Lorenzo Marconi: a questi livelli lotti contro i minimi dettagli e psicologicamente non è facile. Sono arrivato ad un punto della maturazione agonistica dove, se voglio migliorare, devo concentrarmi su miliardi di cose, miliardi di vere e proprie piccolezze. Devo stare molto attento a quello che penso, perché ogni parola e ogni riflessione possono tramutarsi in grandi problemi: la serenità mentale è l’unica chiave per raggiungere grandi risultati”

Occhialini e cuffia, arena

Serenità mentale e grandi risultati, un’equazione che Nicolò ha risolto alla perfezione nelle acque di Riccione, da cui è uscito con un doppio record italiano nel palmarés e con un inequivocabile segnale lanciato ad Adam Peaty e colleghi in vista delle Olimpiadi illuminate dal Sol Levante.

“Volevo andare forte, non lo nego, ma migliorarmi in quel modo è stato stupendo, sono uscito dall’acqua quasi allibito… È bello essere consapevoli di quello che si può fare, ma è ancora più bello superarsi. Questi tempi non mi danno maggiore benzina, semplicemente aumentano la serenità in vista di Tokyo. Mi aiuta vivere il nuoto in questo modo, con una leggerezza che mai si tramuta in mancanza di serietà, con la consapevolezza di essere fortunato nel lavorare divertendomi…”

Non è un peso, per Nicolò, entrare in vasca ogni mattina, non sono un peso le interminabili ore scandite da respirazioni e virate. Nelle parole di quest’eccellenza Azzurra allenamenti e conseguenti medaglie sembrano più che altro mezzi: mezzi di scoperta, mezzi di formazione.

“Il nuoto mi permette di viaggiare per il mondo, di conoscere posti, culture, di ampliare la mente. Toccando così tanti contesti differenti mi arricchisco, analizzo e capisco cose che anche solo il giorno prima mi sembravano assurde o sbagliate. Se in un futuro dovessi avere un figlio, non vorrei parlargli semplicemente di etica lavorativa e di sacrifici sportivi, vorrei dimostrargli di avere una visione molto più ampia”

Sono concetti penetranti, quelli sviscerati dal ranista tricolore. Concetti intimi, preziosi come i gioielli trattati sapientemente da suo padre nello studio orafo di famiglia. E il nuoto di Nicolò, in fondo, sembra ricalcare l’attività paterna, sembra trovare fondamento nella medesima passione e cura del dettaglio.

Un’associazione implicita, un’associazione doverosa, messa in risalto dal trasporto con cui l’atleta varesino ci parla di quest’antica arte tramandata di parola in parola, di artigiano in artigiano, di Martinenghi in Martinenghi.

“Un mestiere del genere non lo impari studiando, lo impari facendo, è molto manuale e nozionistico. Se chiudo gli occhi e penso a un mio futuro non mi dispiacerebbe trovarmi al posto di papà. È sicuramente stimolante l’idea di poter tramandare questa tradizione familiare: non lo nego, sono pensieri che di tanto in tanto mi attraversano. Pur rimanendo consapevole della mia età, voglio comunque pensare a dei piani, a degli interessi, a delle certezze su cui fare affidamento quando il mio fisico arriverà al limite. Ma manca ancora molto tempo prima che arrivi questo momento, posso stare tranquillo…”

Icon Collection Juventus Felpa con banda laterale logata, arena ICONS / Costume con banda laterale logata, arena ICONS
Costume e pantalone con banda laterale logata, arena ICONS
Cuffia, arena Bishamon / Occhialini, arena Towel, arena /Pantalone con banda laterale logata, arena ICONS
Costume da competizione e cuffia, arena Bishamon / Occhialini, arena
Polo, LAB Pal Zileri / Pantaloni in denim, Pal Zileri / Rider Rain Jacket in tessuto riciclato con cappuccio staccabile, Moose Knuckles / Sneakers con tomaia in pelle e suola in gomma,PUMA

Sì, a mancare è ancora moltissimo tempo e Nicolò ce lo lascia intendere sorridendo. All’appena ventunenne mancano innumerevoli medaglie da indossare e record da conseguire, luoghi da visitare e piscine da dominare. Mancano, soprattutto, monumentali obiettivi da centrare.

Per il momento questo lombardo dalle stupefacenti bracciate può rimandare l’appuntamento con diamanti e gioielli: può focalizzarsi sul più prezioso dei metalli, questo sì, provando ad incidere l’oro con i cinque cerchi, con l’eterno simbolo d’Olimpismo e leggenda sportiva.

Credits

Ph RISE UP
IG @riseupduo
riseupstudio.com

Arena Italia
@arenaitalia

Arena Water Instinct
@arenawaterinstinct

Dao
@dao_sport

Nicolò Martinenghi
IG @nicolomartinenghi

Text Gianmarco Pacione


Scatto fisso è sinonimo di design

A Copenaghen il ‘brakeless’ è un’ispirazione quotidiana. A spiegarcelo è Karl Tranberg

Forme pulite ed evocative. Sfondi urbani animati da oggetti rapidi ed eleganti, da pezzi d’artigianato minimalista. Nella capitale danese lo scatto fisso rappresenta molto più di un vezzo ciclistico. A rivelarcelo è Karl Tranberg, il designer che trasforma le proprie bici in opere d’arte da costruire e fotografare, in mezzi di trasporto da trattare come preziose e ispirate costruzioni personali. Vi portiamo all’interno del suo mondo, dei suoi ritratti, delle sue parole. Buona lettura.

Come sei entrato in contatto con la bici a scatto fisso e perché hai scelto di utilizzarla?

A Copenaghen lo scatto fisso è stato molto popolare dalla metà degli anni 2000 fino al 2013 circa. Come tanti altri ragazzi sono stato ispirato dai film di MASH SF e ho trovato intrigante l’idea di potermi costruire una bici da solo e di riuscire a padroneggiare la totale assenza di freni. All’epoca avevo già un trascorso con la mountain bike (una Cannondale Caffeine hardtail da 26″, di cui sono innamorato ancora oggi), quindi è stato molto naturale provare questo diverso tipo di bici. Durante un viaggio a New York, nel 2012, ho setacciato un numero infinito di negozi di biciclette, alla ricerca di una bici da pista o di un telaio da portare a casa: dopo lunghe ricerche ho finalmente trovato il mio telaio Masi Speciale Sprint nel retrobottega di Continuum Cycles, un accogliente negozio di biciclette nell’Avenue B ad Alphabet City. 

Che ruolo gioca questo tipo di bicicletta nel contesto urbano di Copenaghen e che tipo di comunità si è creata negli anni?

Copenaghen ha un’incredibile cultura ciclistica. La viabilità della città è in gran parte progettata a misura di ciclista e in molti luoghi le piste ciclabili sono più larghe delle strade. La normale conseguenza è che tutti possiedono una bicicletta e le piste ciclabili vengono spesso affollate da pendolari e turisti. Ciò significa che, guidando senza freni, hai una grande responsabilità, non puoi permetterti di mettere in pericolo l’incolumità altrui. Andare in bici a Copenaghen vuol dire anche scivolare giù dalle colline (nonostante ce ne siano pochissime), in quel caso in mezzo utilizzando la normale carreggiata. Qui, però, le cose si complicano: i conducenti non sono abituati a condividere la strada con i ciclisti e il risultato è spesso un caotico mix di clacson, frenate e imprecazioni…

Fatta eccezione per alcune riconosciute figure locali e alcuni testardi nerd (categoria di cui faccio parte), la scena dello scatto fisso a Copenaghen è stata praticamente in letargo per quasi un decennio. Al momento, tuttavia, stiamo riscontrando un crescente interesse che spero possa coincidere con un ripopolamento della comunità. Va detto anche che la scena attuale si presenta in maniera molto differente. In passato si mescolavano telai e ruote colorate per creare combinazioni divertenti, mentre ora le persone sembrano concentrarsi su componenti di qualità superiore e costruzioni più semplici, basiche.

Except for some of the local messengers and a few stubborn nerds (myself included), the fixed-gear scene in Copenhagen has pretty much been in hibernation for almost a decade. At the moment we’re experiencing a local growing interest in fixed-gear, though, and I’m hoping it could mean the community is slowly returning. It’s a very different scene now, however. It used to be about mixing colourful frames and wheels in fun combinations whereas now people seem to focus on higher quality components and simpler builds.

Cosa rappresenta per te questo tipo di bici? Pensi che questo oggetto abbia anche un’anima artistica?

La bici a scatto fisso rappresenta per definizione il minimalismo ciclistico: è impossibile rimuovere un singolo componente della bici senza compromettere in modo critico la sua funzionalità complessiva. A Copenaghen studio Furniture and Object design: la mia ispirazione accademica si radica nel funzionalismo e nel minimalismo scandinavo-giapponese. Amo un tipo di design artigianale, visivamente leggero, e apprezzo quando la forma abbraccia la funzionalità. Adoro le linee semplici e pulite dei vecchi telai in acciaio e alluminio. Nutro una fascinazione particolare per la bici da pista, perché è di gran lunga la bici più facile da mantenere: la linea della catena è diritta e la trasmissione è più voluminosa per resistere a un enorme trasferimento di potenza, quindi è destinata a durare più a lungo. L’unica parte che sostituisco molto spesso nelle mie bici sono le gomme posteriori.

Cosa rappresenta per te questo tipo di bici? Pensi che questo oggetto abbia anche un’anima artistica?

La bici a scatto fisso rappresenta per definizione il minimalismo ciclistico: è impossibile rimuovere un singolo componente della bici senza compromettere in modo critico la sua funzionalità complessiva. A Copenaghen studio Furniture and Object design: la mia ispirazione accademica si radica nel funzionalismo e nel minimalismo scandinavo-giapponese. Amo un tipo di design artigianale, visivamente leggero, e apprezzo quando la forma abbraccia la funzionalità. Adoro le linee semplici e pulite dei vecchi telai in acciaio e alluminio. Nutro una fascinazione particolare per la bici da pista, perché è di gran lunga la bici più facile da mantenere: la linea della catena è diritta e la trasmissione è più voluminosa per resistere a un enorme trasferimento di potenza, quindi è destinata a durare più a lungo. L’unica parte che sostituisco molto spesso nelle mie bici sono le gomme posteriori.

Cosa rappresenta per te questo tipo di bici? Pensi che questo oggetto abbia anche un’anima artistica?

La bici a scatto fisso rappresenta per definizione il minimalismo ciclistico: è impossibile rimuovere un singolo componente della bici senza compromettere in modo critico la sua funzionalità complessiva. A Copenaghen studio Furniture and Object design: la mia ispirazione accademica si radica nel funzionalismo e nel minimalismo scandinavo-giapponese. Amo un tipo di design artigianale, visivamente leggero, e apprezzo quando la forma abbraccia la funzionalità. Adoro le linee semplici e pulite dei vecchi telai in acciaio e alluminio. Nutro una fascinazione particolare per la bici da pista, perché è di gran lunga la bici più facile da mantenere: la linea della catena è diritta e la trasmissione è più voluminosa per resistere a un enorme trasferimento di potenza, quindi è destinata a durare più a lungo. L’unica parte che sostituisco molto spesso nelle mie bici sono le gomme posteriori.

Credits

Alberto Grasso
IG @alberto.grasso
albertograsso.com

Magnus Bang
IG @magnus_bang

Karl Tranberg
IG @fixiekarl

 

Testi di Gianmarco Pacione


Carmen Rocchino, danzare nell'acqua

Vent’anni e 24 ori. La giovane Azzurra che in vasca tende le punte, creando una forma d’arte

Scandire la grazia in otto tempi, scandire la grazia tendendo punte, sfiorando con esse acqua e sinfonie musicali. Sono corpi dalle linee nobili, quelli delle sincronette, strutture flebili, muscolarmente raffinate. Sono menti alla costante ricerca della perfezione sincronica, della combinazione impeccabile.

Carmen Rocchino ha solo vent’anni e 24 ori nazionali in bacheca, è una danzatrice acquatica che sta rincorrendo, esercizio dopo esercizio, l’immagine dei cinque cerchi a pelo d’acqua. Una rincorsa partita, per puro caso, in età infantile all’interno delle piscine genovesi.

“Da piccola facevo dei semplici corsi di nuoto, poi, quasi per sbaglio, mi sono capitati dei volantini tra le mani. Parlavano di nuoto sincronizzato e per gioco ho iniziato quest’avventura. Avevo all’incirca 7 anni, ricordo che i primi tempi ero sempre l’ultima della fila, non avevo ben chiaro cosa fosse questo sport, avevo solo visto qualche immagine durante le manifestazioni olimpiche… Con il passare del tempo sono iniziate le prime gare e verso i 13 anni sono passata alla Rari Nantes Savona: un punto di svolta per il mio rapporto con questa disciplina”

Un rapporto che diventa presto totalizzante, continuando ad esserlo ancora oggi. Nella fase adolescenziale l’acqua si tramuta nella seconda, anzi, nella prima casa di Carmen. Un’abitazione fluida, dove ad alternarsi sono allenamenti infiniti e note da inseguire energicamente.

“L’acqua può cambiare volto, alcuni giorni è amica, altri nemica. A volte ti fa sentire benissimo, ti permette di galleggiare senza fatica, altre volte hai la sensazione di affogare, vorresti uscire, è quasi soffocante. Credo sia comprensibile questo legame ambivalente: da anni trascorro quasi tutte le mie giornate dentro la vasca. D’altro canto, se resto un paio di giorni lontana da questo elemento, sento di perdere la mia acquaticità, percepisco la velocissima perdita di abitudine del mio corpo a quella che, nel tempo, è diventata una casa”

Una casa da condividere con giovani coinquiline, mosse da un eguale desiderio di eccellenza. Il collettivo delle Azzurre del futuro, una sorta di cantera acquatica nazionale, vede ragazze appena maggiorenni che, tra le increspature dell’acqua, provano a comporre ispirate pièces sportivo-teatrali, a colmare il gap con chi di questa energica forma artistica ha scritto la storia.

“Viviamo tutte insieme. Le nostre giornate si dividono tra condizionamento atletico, pesi, ginnastica ritmica, nuoto normale o specifico e cura dei dettagli tecnici. Ore ed ore che diventano propedeutiche per l’esecuzione di un singolo esercizio: una lunga preparazione necessaria per automatizzare ogni passaggio, per pulire l’esecuzione dai minimi errori, per evitare di andare in affanno nel tanto tempo che passiamo con la testa sott’acqua. Se nelle esibizioni singole prende il sopravvento la mia personalità, in quelle di squadra sento un’intensa connessione collettiva. Una connessione che dobbiamo migliorare costantemente, con l’unico obiettivo di limare il divario che ci separa da superpotenze come Cina e Russia”

Quest’opera di miglioramento, a cui diede il là nei lontani anni ’70 la pioniera del sincro Romilde Cucchetti, trova oggi in profili come quello di Carmen Rocchino la naturale e rispettosa prosecuzione.

Una nuova generazione, o meglio, una nuova ondata di giovani acrobate delle vasche capaci di osservare diligentemente chi sta posando le basi per un ciclo futuro, capaci di sognare razionalmente le acque transalpine di Parigi 2024.

“Siamo state selezionate e stiamo crescendo come squadra Nazionale B, questo ci dà una certa visibilità e ci carica di responsabilità per il prossimo futuro. Il nostro obiettivo è riuscire a diventare il nucleo della Nazionale Maggiore che verrà. Per il momento prendiamo ispirazione dalle ragazze che si esibiranno a Tokyo e lavoriamo duramente per scendere in vasca a Parigi tra tre anni. Prima dei cinque cerchi ci saranno altri eventi come i Mondiali e gli Europei assoluti, dove proveremo a continuare la scalata che, nell’ultimo periodo, ha visto arrivare la scuola italiana a ridosso delle migliori interpreti di questa disciplina”

Scandire la grazia in otto tempi, scandire la grazia con sogni vividi e imponenti. Carmen Rocchino ha solo vent’anni, ma nelle sue punte tese ha già la consapevolezza di chi, in quegli otto tempi, vuole trovare la grandezza sportiva. Vasca dopo vasca. Esercizio dopo esercizio.

Credits

DMTC Sport, Carmen Rocchino
IG @carmynna12

 

Intervista di Gianmarco Pacione


Hillary Allen, the voice of resilience

Touch death and the desire to run again. The endurance runner who defeated destiny with words and willpower

The sky can become a chasm in a few steps, in a few seconds. The clouds, barely touched, can become crevasse, fear, pain, darkness. It’s right there, in the dark mountainous bowels of the Trømso Hamperokken Sky Race, where everything can become a tragedy, where a life can change by changing that of others as well.

Hillary Allen is an international endurance runner and North Face athlete. In 2017 she was at the top of the prestigious Sky Running World Series, then, on the sharp Scandinavian heights, she slipped off a steep rocky ridge, miraculously remaining alive after falling over 150 feet.

Less than a year later, after numerous operations and intense rehabilitation, she tied her running shoes again and came back to skim the sky at maximum speed. The story of this Colorado athlete is a story of courage and resilience: a tale that she has decided to tell in a book, ‘Out and Back’, finding in writing a means to help herself and others.

“Writing is a safe place for me. I have a master’s degree in Neuroscience and through my studies I have discovered the power of this action. During the long recovery I wanted to be honest with myself, with the process I was going through: writing was cathartic, it became therapeutic. The apex of this process was when I came back to Trømso for racing again: that’s why I dedicated the last chapter of the book to that experience”

Survival, the power of self-confidence and passion, the ability to bend adverse opinions and conditions. ‘Out and Back’ page after page transcends autobiography, becoming an intimate metaphor of human strength, of the battle against limits and fears, of the acceptance of them.

“I think my favorite chapter is ‘The Power of Belief’. Given my critical condition, sometimes I thought it was useless to tell myself that every day should be a better day. But this mantra has accompanied me for a year, it has accompanied every little detail of my daily life. I believe that the ability to believe in yourself is there, inside you, even if you can’t see it: it’s hidden, like the roots of a tree, but it’s what gives strength to that tree to grow. I’ve never completely lost this component, I just had to find it again. I’ve faced dark times, I’ve worn the cast for three months, I’ve lived through pain, but that spark of ‘belief’ was finally ignited when I reurned to running for the first time: thirty, simple, seconds were enough. A few months later I won the Lavaredo Ultrarail and it was incredible”

Hillary’s relationship with running and with that natural context is also incredible: an element, the natural one, that has never ceased to be the cornerstone of her life. A deep love, generated already in her childhood, thanks to excursions in Colorado and campsites around the USA.

“On the trails I practically learned to walk. I grew up in the Rocky Mountains of Colorado and my parents introduced me to the natural beauty of the United States from an early age. I’ve always loved running out there. I live my sport as a form of communion with nature: in those landscapes I feel insignificant and, at the same time, I am connected with myself, with the world and the people around me. When I have to train I don’t think about fatigue, I think about spending a day in the mountains admiring and respecting Mother Nature”

A respect that in Hillary’s words extends itself to human nature, to the intimate existence of men and women who, distant from each other, are united by the desire and strength to overcome challenges and adversities.

“I think we, as humans, are the most resilient species. We just have to discover it and use our challenges to improve, to grow. On this path I’ve discovered a lot of myself, I’ve opened myself to vulnerability, I’ve found unknown strengths and attitudes. I don’t really like talking about a ‘comeback’: the reality is that a completely different woman emerged from this personal ascent”

A woman who today, in addition to competing at the highest levels of endurance run, combines her sporting activity with university teaching, the role of coach and a notable activity as a blogger.

Between social posts and personal works, Hillary has built around her a positive community, interested in personal growth, as well as sports.

“In my blog I deal with topics such as athletic and mental preparation, physical and emotional recovery and ‘positive self talk’. My story doesn’t have to be a story of physical recovery, I want it to be a testament to human resilience. For me it’s about people first, in all walks of life, from teaching to coaching. The messages, letters and closeness I received from people all over the world were the driving force that inspired me to be a voice”

A voice stronger than the tragedy. A voice that deserves to be heard.

Credits

Hillary Allen
IG @hillygoat_climbs
hillaryallen.com

PH
Luke Webster
Blair Speed Creative
Jose Miguel Muñoz

Text Gianmarco Pacione

Thanks to bluestarpress.com