WATERCROSS

Dalla neve all’acqua: lo shortdocu di Adam Amengual ci fa scoprire un’atipica disciplina sportiva

Se non sapete cos’è il Watercross, non preoccupatevi, non siete i soli. Immaginate veloci motoslitte, create ovviamente per la neve, che fendono l’acqua a quasi 100 km/h. Suona strano, vero? Eppure da tempo questo incrocio di scenari e motori ha creato un microcosmo sospinto dalla pura passione. ‘Watercross’ è anche il titolo dell’intimo cortometraggio diretto da Adam Amengual, un poetico e dinamico viaggio documentaristico tra le parole, i rumori e le emozioni dei giovani rider che stanno evolvendo questa atipica forma di competizione. Dalla neve all’acqua. Dalle montagne ai laghi. Il regista statunitense ci aiuta a scoprire un tanto irrazionale, quanto accattivante cortocircuito visivo e cognitivo, introducendoci una pellicola che parla di fluidità, amore, potenza e, soprattutto, comunità.

“Ho incontrato questo sport quasi per caso una decina d’anni fa. Stavo facendo delle ricerche su internet e ho visto che c’era un evento nel New Hampshire, nella cittadina di mio padre. È stata una pura coincidenza. All’epoca ho scattato solo una serie fotografica, d’altronde non ero ancora focalizzato sulla produzione video. Ora le cose sono cambiate, e ho pensato di tornare a ritrarre questa atipica community sportiva, creando uno documentario. Questa disciplina nasce come hobby offseason per coloro che vanno sulle motoslitte e, nel tempo, si è trasformata in molto più. Quando entri in contatto con questi atleti, percepisci la passione totalizzante che nutrono verso questo sport. Non lo fanno per soldi, social e fama. L’essenza del Watercross risiede semplicemente nell’amore per questi mezzi e nella condivisione di questo legame. È un piccolo mondo, dove i giovani rider sono circondati da genitori, fratelli, sorelle e parenti. Tutti sembrano parte di una grande famiglia, dove la competizione è forte, ma non è tutto. Credo che questo sport sia estremamente estetico per la sua fluidità e intensità, le motoslitte raggiungo velocità molto elevate e i rider devono gestirle tra curve e manovre acquatiche. Non c’è differenza tra ragazzi e ragazze, la partecipazione è eterogenea, così come il desiderio di sporcarsi le mani lavorando su motori e dettagli meccanici. In questo cortometraggio ho provato a ritrarre le caratteristiche e i volti di un microcosmo sconosciuto a molti, sottolineando la tangibilità dell’evento, delle storie che lo popolano e dei rapporti umani che lo circondano”


Rob Cairns, una piattaforma per il mondo fixie

Community, produzione visuale ed evoluzione, il creativo inglese che vive in simbiosi con le due ruote

“La fixie è una forma di libertà, permette di esprimere ciò che sono e il mio amore per le due ruote. É così semplice ed estetica, è una forma di movimento unica. Quando avevo 11-12 anni ho iniziato ad andare in BMX, poi, dopo un periodo di pausa ciclistica, ho scoperto questo mezzo grazie ad un amico meccanico. Subito mi sono chiesto cosa fosse e perché non avesse i freni. Appena ho capito qualcosa in più, il mio cervello è esploso. La sua semplicità, la possibilità di controllarla nelle strade di città, la presenza di una sola catena… Mi sono immediatamente innamorato di quest’oggetto, della sua funzionalità, del suo design e della community che ruota attorno ad esso. Da quando ho ricominciato a pedalare, non ho più smesso. La fixie ora è il soggetto principale della mia produzione artistica ed è il motivo per cui so di avere amici in ogni città del mondo”

Da Barcellona a San Pietroburgo, da Copenaghen a Berlino, le bici a scatto fisso per Rob Cairns ha ruoli molteplici. Questo rider e content producer londinese ha deciso di dedicare tutto sé stesso e la propria creatività ad un oggetto che rappresenta molto più di un mezzo di spostamento. Community dopo community, Rob sta intessendo una tela fatta di contatti umani, trick virali e sviluppo di un movimento consistente ad ogni latitudine del globo, riuscendo a intrecciare lo spirito underground di una scena di nicchia e la volontà di esplicitare le sue peculiari caratteristiche sociali, sportive e terapeutiche.

“Ho lavorato a lungo per una production company, poi ho avuto un periodo difficile e ho deciso di concentrarmi sulla mia salute mentale e fisica. Per questo mi sono nuovamente interessato al ciclismo, dedicandomi alla scatto fisso. Mi sono sentito un uomo nuovo. Ho avuto la fortuna di entrare a contatto con questo universo durante un periodo di grandi evoluzioni dettate dai social e, durante il lockdown, ho capito che per la mia salute non aveva più senso creare contenuti per altri, volevo creare contenuti per me stesso, legati alle mie passioni, e allo stesso tempo costituire una piattaforma che mi permettesse da un lato di elevare e raccontare la vasta community fixie, dall’altro di entrare in contatto con brand che abbiano visioni brillanti e credibili. All’inizio facevo tutto da solo, ora sto coinvolgendo sempre più rider e alcuni tra loro stanno imparando a fare foto e video… Mi sto divertendo e tutti i tasselli stanno andando al loro posto. La regola è semplice, più tempo dedichi a una cosa, più riesci a migliorarla. E questo mantra vale sia per skid e spin, che per la produzione visuale”

Dopo aver plasmato una chiara identità visuale, oggi il nativo di Newcastle sta trasformando la fixie in uno strumento di narrazione, spargendo i propri contenuti nelle piattaforme social e intercettando i pionieri, così come i novizi di quest’arte urbana. È un processo di propagazione di un’intera sottocultura, dei suoi valori, del suo stile e delle sue prospettive future. È una crescita organica, concentrata sulla celebrazione ed esaltazione delle due ruote nella loro forma più semplice e pura.

“Ci è voluto del tempo per trovare il giusto flow e ho avuto la fortuna di coltivare il mio occhio insieme ai ragazzi di FxD.BLN, con cui ho trascorso delle preziose settimane nella capitale tedesca, assistendo alla formazione di un fenomeno internazionale. Ora sto producendo contenuti giornalieri e documentari, sto aiutando nella conduzione di un podcast specializzato, ‘Slow Spin Society’, e a breve pubblicherò un libro. Non voglio semplicemente comunicare il valore estetico delle fixie, voglio raccontare l’atmosfera e le vibrazioni che circondano i rider, voglio creare contenuti che sviluppino precisi concetti e significati, voglio creare uno spazio positivo, narrativo e funzionale per la nostra community… Ed è sinceramente fantastico”

Photo Credits: Rob Cairns
Text by: Gianmarco Pacione


Behind the Lights – Alessandro Simonetti

La fotografia come catalogazione del genere umano, come viaggio tra culture e controculture

La galleria fotografica di Alessandro Simonetti è un’opera magna di ricerca sociale, è una catalogazione del genere umano, come citava una sua tesi accademica, che nell’elemento sportivo ha trovato una musa e una tela ideale. Dai playground newyorchesi al surf giamaicano, dal calcio migrante di Fuerteventura al leggendario wrestling senegalese, il raffinato occhio di ‘Zuek’ riesce a conciliare estetica e contenuto grazie ad un senso dell’istante e del contesto. Tutto parte dal desiderio e dall’urgenza di raccontare l’essenza dell’essere umano e le diversità di un mondo che resiste all’omologazione, fa subito comprendere Simonetti, parlandoci di una ricerca iniziata nel nordest italiano e proseguita nel vortice della Grande Mela.

“Ho cominciato a fotografare a circa 16 anni. È stato un processo naturale e osmotico. Bassano del Grappa, la città dove sono cresciuto, non era esposta ad enormi input, ma era insolitamente ricca a livello culturale. Skate, graffiti e musica formavano uno scenario trasversale, che ha funto da preludio per la mia ricerca artistica. Sono stato allevato da concerti hardcore, hip hop, punk e reggae, frequentavo centri sociali e in questo tipo di ambienti ho capito quanto fosse importante stare tra la gente. La mia fotografia si fonda su questo ideale sociale, sulla necessità di osservare e parlare di chi mi circonda. ‘Fuck you all’ di Glen Friedman è stata la mia bibbia, perché incarnava l’eclettismo di quegli anni ’90 ed evidenziava le infinite connessioni tra le diverse scene underground. Ma anche il cinema mi ha dato tanto. ‘L’Odio’ e ‘Do the Right Thing’ hanno fatto scattare un meccanismo estetico nella mia mente, così come ‘Wild Style’ e ‘Style Wars’, due produzioni dedicate all’universo del writing. Lo sport mi ha dato meno, in casa avevo due donne e non ho mai visto una Gazzetta o un GP di Formula 1 in televisione. Gli unici contatti con questo mondo erano le schedine che mio padre, ex pugile e figlio di un pugile, compilava al bar, oltre alle attese di mio nonno per eventi come il Giro d’Italia o il Palio di Siena… Ho giocato con reale passione e continuità solo a baseball, probabilmente sono stato attratto dall’esotismo di questo sport e sono stato interbase dei Crows, la squadra del mio paese, per anni. In generale sono cresciuto in un ambiente decisamente più artistico, ho anche frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, dove ho avuto modo di spaziare dall’approccio classico a quello più sperimentale. Quando ho incontrato la fotografia, però, ho immediatamente capito che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita”

E la fotografia ha determinato scelte enormi nella vita di ‘Zuek’, come il trasferimento oltreoceano, dove, poco più che ventenne, ha ricevuto una chiamata umana e artistica impossibile da ignorare. Nel turbinio della New York a cavallo tra due millenni, Simonetti ha trovato la propria Eldorado, superando un monumentale clash culturale e entrando a far parte di un ispirato circolo popolato da pionieri delle sottoculture urbane e artisti destinati alla leggenda. Nella città dove tutto parla di movimento e contaminazione, la ricerca estetica e culturale del fotoreporter italiano si è affinata, costituendo un riconoscibile e strutturato paradigma stilistico.

“Per me è stato un viaggio alla mecca. Non parlavo un buon inglese, ma sentivo il bisogno di chiudere un cerchio culturale e di esplorare la città che mi più mi aveva ispirato. Quella città poi è diventata la mia casa per quasi vent’anni. New York è un pozzo infinito di risorse, soggetti e storie. Per quattro anni ho fotografato ‘The Cage’, il celebre playground di West 4th, uno dei luoghi cestistici e sportivi più iconici al mondo. Credo che quel contesto sia il manifesto del potenziale narrativo di New York e delle sue logiche sociali. Le prime settimane è capitato che i giocatori mi chiamassero ‘fakeass cameraman’ e mi urlassero di andare via. Ero l’unico fotografo bianco, ed ero europeo. A distanza di qualche tempo, però, sono riuscito a farmi accettare, uno dei personaggi di spicco della community è perfino arrivato a definirmi ‘official photographer’. Ha usato un tono scherzoso, ma ha fatto comprendere a tutti che il mio status era cambiato. Ecco, possiamo dire che la serie sul West 4th riassuma a pieno il mio modo di fotografare oggi”

Ma lo streetball è solo una nota del flow sportivo che intreccia ripetutamente la galleria fotografica di Simonetti. Viaggi, culture e, soprattutto, controculture hanno permesso a ‘Zuek’ di entrare in contatto con microcosmi atipici, dove lo sforzo atletico si trasforma in un fondamentale strumento per la conoscenza complessiva di ogni soggetto e della rispettiva dimensione esistenziale. Tecnicità e curiosità sono i capisaldi che definiscono una produzione magmatica, eppure lineare, divisa tra ritratti iconici e realtà senza filtri: un’indagine documentaristica che mai smette di mettere in relazione superficie e profondità.

“Le culture di strada hanno segnato il distacco completo dalla mia breve esperienza negli sport organizzati. Negli anni ’90 le Counter Cultures erano agli antipodi rispetto al tifo organizzato dello stadio o la passione per i motori. Lo skate e lo snowboard, invece, mi attraevano per l’assenza di regole e uniformi seriali. Le origini di questi due sport non erano lontane, potevo facilmente arrivare alla fonte dei pionieri ed entrare in contatto con loro. In un certo senso durante e dopo l’adolescenza sentivo di essere parte di qualcosa di nuovo, che era legato fortemente alla musica, a culture trasversali e ad un differente concetto di ‘uniforme’. Per questo mi ha sempre attirato l’aspetto culturale di una determinata situazione sportiva, non m’interessa l’aspetto numerico o statistico. Al Mondiale di calcio preferisco un ragazzino che gioca per strada, per intenderci. Lo sport, poi, è ovunque. In Giamaica, per esempio, è impossibile non imbattersi nell’elemento atletico e nelle sue più disparate sfaccettature. In quel Paese ho fotografato Usain Bolt, ma anche fantini, surfisti, skater e pugili sconosciuti. Ad Haiti, poco dopo il terremoto, mi è capitato di soffermarmi su una piccola squadra di calcio. A Fuerteventura ho trovato dei migranti che giocavano tra le dune del deserto, mentre in Senegal ho documentato il wrestling tradizionale. Nella mia visione la cornice storico-antropologica è più importante dell’aspetto estetico, dà allo scatto un valore e un peso differente, gli regala concretezza. In passato mi hanno ispirato tanti ritratti fatti a celebrities come Tyson o Ali. Le loro fotografie sul ring sono sicuramente evocative, ma se devo pensare ad uno scatto iconico, che sopravviverà nel tempo, non penso ad un jab di Tyson, penso alla sua foto in ciabatte e vestaglia, accompagnato dalla tigre personale… È un discorso di energia e di forza narrativa”

Energia e forza narrativa hanno plasmato anche la produzione ‘commerciale’ di Simonetti, che nella terra promessa americana ha avuto modo di osservare e cristallizzare con la propria lente anche il panorama fashion. Anche in questo caso un’evoluzione figlia di un lungo processo di assimilazione, cominciato nelle serate adolescenziali, tra streetwear e workwear, e proseguito oltreoceano contaminandosi con le necessità di comunicazione di brands commerciali e fashion. Oggi il viaggio di ‘Zuek’ prosegue però dove tutto è iniziato, nel Bel Paese, dove la sua lente ha deciso di fare ritorno alla ricerca di nuovi, vecchi stimoli.

“Quando ho preso la Reflex in mano per la prima volta, l’abbigliamento coincideva con il concetto di divisa, era un’epoca ‘militante’. C’era il tema di appartenenza ad una determinata scena, e quest’appartenenza veniva definita da quello che indossavi. Se vedevo qualcuno con le Puma Clyde o Suede, per esempio, sapevo era connesso all’universo hip hop. Agli inizi degli anni ’90 ho collaborato con uno dei primi brand streetwear italiani, Broke, ricordo ancora uno shooting con un SUV gigante insieme al gruppo rap Colle der Fomento, per l’epoca era stato qualcosa di inusuale. Sono passati tanti anni da quel tipo di estetica e mi rendo conto di quanto recentemente abbia invaso anche l’high fashion… Sono passati tanti anni anche dal mio trasferimento a New York e ho deciso da poco di fare ritorno in Italia. Il mio occhio si era ormai abituato, non sentivo più la stessa spinta interiore, avevo bisogno di una sfida eccitante e di un nuovo capitolo della mia vita. E, dopo tutto quello che ho assimilato oltreoceano, sarà interessante tornare ad indagare soggetti italiani. Ho voglia di questa interessante e paradossale sfida visiva. Il nostro Paese è anche una base eccellente per viaggiare in Africa o in Asia, dove sicuramente produrrò reportage in futuro, ritagliando sempre dello spazio all’elemento sportivo”

Photo Credits: Alessandro Simonetti

Text by: Gianmarco Pacione


Fighter, allenatore, globetrotter: Alessio Ciurli

Dai tatami italiani alla UFC e agli ottagoni di tutto il mondo, visioni e prospettive di un maestro del fighting

Nessun campione nasce dalle linee guida. Tutti i campioni nascono uscendo dal seminato, ognuno a modo proprio. Lo studio, in uno sport complesso come le MMA, è solo una base che segna la via. Poi è tutta una questione di adattamento, e per l’adattamento è necessaria l’esperienza sul campo. Quando alleno fighter di altissimo livello, come Leon Edwards, attuale campione del mondo pesi welter UFC, mi rendo conto che non sto aiutando un ragazzo che potrebbe perdere una banale gara, ma un atleta che compete per borse di milioni di dollari. Devo essere sicuro al 100% sul piano tecnico, fisico e mentale. E devo dargli nuove soluzioni, nuove opzioni che ruotino attorno ai suoi punti di forza. Un giorno, durante una sessione di boxe, Leon mi ha confidato di non aver mai visto una tecnica che gli avevo mostrato. Ecco, quella per me è la più grande soddisfazione”

Alessio Ciurli è un fighter, un allenatore e un globetrotter delle arti marziali miste. Il suo viaggio tra ring e ottagoni, partito dalla bella Toscana, ha incrociato alcuni dei personaggi e dei luoghi più sacri di un intero universo sportivo, quello della lotta codificata. Allevato dal judo, Alessio nel tempo è stato prima un pioniere per il movimento italiano overseas. Poi, quasi per caso, si è trovato a mettere a disposizione le proprie profonde competenze per forgiare i successi di alcuni dei migliori fighter al mondo. Una scalata faticosa e visionaria, cominciata guardando Rocky in televisione.

“Il mio primo amore è stata la boxe, tutta colpa di Rocky. Da piccolo però ho iniziato con il judo e ho continuato a stare sul tatami per 30 anni, arrivando a calcare importanti palcoscenici internazionali. Poi, durante un ritiro con la Nazionale, ho subito un grave infortunio al ginocchio. Nel periodo di riabilitazione ho deciso di contattare Hector Lombard, ex judoka e leggenda per organizzazioni come UFC e Bellator. Da tempo mi ero appassionato alle MMA e, grazie alla mediazione di Hector e di Alessio Sakara, figura cruciale per il movimento italiano, ho deciso di lasciare l’Italia per andare negli States e unirmi all’American Top Team. Mi sono formato là, in una palestra di altissimo livello, dove ho trovato una vera e propria famiglia. Per otto anni ho speso almeno sei mesi in Florida, facendo fronte a problemi economici e di visto, ma cogliendo l’opportunità di connettermi a celebri coach come Everton Oliveira, che mi hanno dato degli strumenti senza eguali. Il passo successivo è stato il trasferimento a Dubai durante la pandemia. Ad Abu Dhabi la UFC continuava ad organizzare eventi nonostante la difficile situazione globale, sono volato lì e ho preso parte a un camp con fighter di altissimo livello, come Tai Tuivasa. Molti tra loro hanno iniziato da subito a trattarmi come un coach per le mie conoscenze tecniche, chiedendomi consigli e lezioni private. In questo modo sono riuscito ad allenare per alcune settimane il campione mondiale Leon Edwards e l’altrettanto celebre Darren Till”

Fighter e allenatore. La condizione ibrida e complementare del 41enne Alessio Ciurli è fondata sullo studio scientifico e istintivo del gesto, sull’esplorazione della persona prima, dell’atleta poi, sull’analisi di abitudini e potenziale inespresso. Recentemente tornato in patria, al termine di un lungo pellegrinaggio marziale, ora Ciurli è intenzionato a proseguire entrambe le carriere, provando, da un lato, a tornare a combattere nelle maggiori promotion europee e, dall’altro, a plasmare una nuova generazione di talenti del fighting.

“Il mio focus ora è sull’interrompere due anni d’inattività forzata. Voglio tornare a Miami, iniziare un camp e vedere come reagisce il mio corpo. Durante la pandemia avevo ricevuto un’offerta importante da una promotion russa, per un titolo mondiale. So che nella mia categoria, quella dei 70 chili, posso essere estremamente competitivo e togliermi ancora delle grandi soddisfazioni. Allo stesso tempo mi piacerebbe aiutare qualche giovane ad arrivare nel gota delle arti marziali miste. Tra i fighter già famosi e attestati mi stimola l’idea di aiutare un connazionale, Marvin Vettori, specialmente a livello di judo. Ammiro la sua dedizione. Per diventare campioni bisogna dedicare tutto alle MMA, non esistono aperitivi o feste, e Marvin è un italiano atipico sotto questo punto di vista. L’esempio di Leon Edwards insegna molto: durante le settimane trascorse a Dubai, dove tutto è divertimento, non gli ho visto toccare un goccio d’alcol… Questo differenzia chi può farcela da chi ce la fa. Tra i fighter c’è anche un’ulteriore differenza, che ho imparato a scoprire negli anni: è la differenza tra i buoni atleti, i campioni e le altre bestie. Hector Lombard, per esempio, rientra in quest’ultima categoria di superdotati. Un altro atleta che mi piacerebbe allenare, proprio per questo motivo, è Khamzat Chimaev, attualmente imbattuto tra i pesi welter UFC. Indipendentemente dai nomi, il mio obiettivo resterà sempre quello di fare al meglio il mio lavoro e di comunicare al meglio la mia passione, il fighting”


Tra sottoculture e ciclismo, l’arte di Cento Canesio

Dal writing alla scatto fisso, dalle metropolitane ai telai, l’universo illustrato del creativo italiano

Nel 1989, a 14 anni, mi sono appassionato allo skate e la tavola è stata la principale porta d’accesso ad una serie di nuove influenze musicali, estetiche e stilistiche. All’epoca sfogliavo i pochi magazine specializzati che venivano distribuiti in Italia, in uno di questi ho trovato una foto che ha cambiato tutto: c’era una Renault 4 affrescata dalla scritta ‘funky’. Sono tornato a casa, ho cercato una bomboletta spray e sono andato a riprodurre la stessa scritta su una casa cantoniera, disposta lungo la linea ferroviaria. Senza realmente saperlo, avevo appena scoperto i graffiti. Di lì a poco sarebbero diventati la mia attività principale”

Prima dei telai illustrati e del bikepacking. Prima delle mostre personali e della scatto fisso. Prima del fenomeno artistico e ciclistico di Cento Canesio, c’è l’origine provinciale, eppure estremamente variegata, di una mente creativa allevata dalle sottoculture urbane: le sottoculture di Treviso, piccola città del nordest italiano, che a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 ha assistito ad un’inattesa proliferazione di scene ribelli, identità creative e brand streetwear.

"Non so perché, ma Treviso è sempre stata un polo d’attrazione per varie sottoculture. Sono cresciuto frequentando un locale mitico, dove si riuniva uno strano mix di scene. Skin, punk, hardcore, hip-hop… Tutti convivevano e si contaminavano a vicenda, sembrava una versione pacifica di ‘This is England’. C’era un’energia fantastica, che pervadeva anche il mio liceo artistico. Queste vibe si ramificavano in progetti come Broke Clothing, uno dei primi brand streetwear italiani, fondato da tre amici. Grazie a uno dei soci, Stefano, mi sono appassionato alla grafica e sono diventato quello che sono ora. Davo una mano nei loro magazzini e con i risparmi da pony express ho comprato il mio primo Mac, diventando un grafico autodidatta. Quando il loro grafico, un noto pioniere del writing trevigiano, ha lasciato il suo posto, ho colto l’opportunità. Contemporaneamente ho proseguito con il writing, girando il mondo alla ricerca di treni e jam. Mi dava una libertà senza paragoni. Dipingere la metro di New York è stata la mia più grande emozione, è stato come per un ciclista partecipare a un’edizione del Giro d’Italia… Era la rivalsa del provinciale, era un’investitura, era la ‘conquista’ della Mecca”

Spadino, Speed, Sale, Lizer, Tigre, Cento e, infine, la magica formula Cento Canesio. Stefano Bressan ha smesso da tempo di avere un nome e un cognome. L’evoluzione dei suoi tag combacia con l’evoluzione della sua identità, ma anche con il mutare delle sue passioni sportive e della sua professione. Dallo skate al bike polo, dalla moda all’arte pura, passando per le vorticose traiettorie dei go-kart e l’inesauribile desiderio di lasciare la propria firma in ogni metropoli: la parabola di questo creativo è alternativa e affascinante, come la traccia di un alleycat, come i lineamenti del suo omonimo cane-illustrato.

“Per molto tempo ho guidato i go-kart, come mio padre, concludendo la mia carriera con un terzo posto ai Campionati Europei Under 18. Senna era un mito a casa e mio fratello è ancora oggi un pilota professionista in America. Ma i motori non erano il mio focus, preferivo fare i graffiti, e la passione per il volante nel tempo è andata scemando. Mi sono innamorato della bici recentemente, nel 2007, quando c’è stato il boom delle scatto fisso. Tanti miei amici che provenivano dal mondo dei graffiti e dello skate hanno improvvisamente iniziato a cercare e rielaborare i telai: mi sono unito a loro. Nella prima ride ho vissuto lo stesse sensazioni che avevo provato grazie allo skate. L’odore, l’energia, la possibilità di essere wild e senza freni nelle strade… Le analogie erano e continuano ad essere moltissime. Poco dopo ho deciso che non avrei più guidato la macchina e che mi sarei spostato unicamente in bicicletta. La fixie mi ha introdotto anche a tutte le altre dimensioni ciclistiche (gravel, bikepacking, ciclismo tradizionale) e al bike polo, uno sport punk, praticato dalla nicchia della nicchia, autogestito e capace di esaltare il concetto di community. Il bike polo è passione pura, come il writing, e mi ha permesso di fondare i Tigers BPC insieme a due amici. Con loro ho partecipato a tantissimi tornei, tra cui i Campionati del Mondo di Seattle nel 2011. La nostra squadra è una delle più longeve a livello mondiale e si è trasformata in una community unita dallo spirito goliardico e dalla volontà di condividere l’amore per ogni forma di ciclismo. Capsule collection, eventi e feste ci permettono ancora oggi di tenere unita e continuare ad allargare la nostra community”

Arte e bici hanno tanto rapidamente, quanto inconsciamente cominciato ad intrecciarsi nella vita di Cento Canesio, definendo una nuova dimensione lavorativa e personale. Le sue celebri illustrazioni a tema animale ora affrescano telai e oggetti ciclistici, tracciando una singolare sinergia tra le due ruote e il writing, e definendo una maturità sia artistica, che umana, popolata da ironia, forza visuale e, ovviamente, ispirate pedalate.

“Nel 2016 ho deciso di abbandonare il lavoro da grafico per vivere con i miei disegni. La mia prima collaborazione con un brand ciclistico è avvenuta con Open Cycle. Ho disegnato 10 biciclette in limited edition, con una di quelle bici ho poi partecipato ad eventi come la Transcontinental Race, la North Cape 4000 e l’Italy Divide. Disegnare sulle bici mi permette di riprendere e rimodulare gli ideali alla base del writing: i graffiti viaggiano insieme a treni e metro, e i miei disegni ora viaggiano insieme alle biciclette. Al di fuori del lavoro, la bici è diventata il mio sfogo. Prima era il disegno a giocare questo ruolo, ma ha smesso di farlo quando la produzione artistica si è evoluta nel mio lavoro primario. Le due ruote sono diventate parte di esso, ma rappresentano anche molto, molto di più nella mia vita. E continueranno a farlo”

Photo Credits: Nadia Moro

Testi di Gianmarco Pacione


Il caos calmo di Bernardo Henning

Esplosioni di colori, icone sportive e DNA argentino: benvenuti nel magico mondo di questo artista sudamericano

L’Argentina è un Paese enorme, viaggi tra luoghi sovrappopolati e confusionari come la mia città, Buenos Aires, e scenari naturali incontaminati. Caos e quiete si alternano. Bellezza e cambiamento si fondono. Devi adattarti per sopravvivere e trovare un giusto equilibrio. Questi dualismi si traducono nel mio lavoro, dove le immagini sono statiche, ma sembrano muoversi. Ecco perché mi piace lavorare su temi e soggetti sportivi, perché mi permettono di sublimare questi pensieri”

La creatività di Bernardo Henning supera le leggi della fisica, viaggiando tra colori sudamericani e icone sportive. Nelle opere grafiche di questo artista argentino la staticità si trasforma magicamente in dinamismo, sprigionando la forza cinetica di ogni ritratto fotografico. WNBA, Selección argentina, Nike e Giannis Antetokounmpo sono solo alcune delle tele visuali che la mente di Bernardo ha deciso di animare: processi che questo nativo di La Plata, ma abitante di Buenos Aires, ha coltivato tra loghi calcistici, street art e passioni sportive.

“Ho sempre amato disegnare. Ricordo che con alcuni compagni di classe passavamo ore a tratteggiare macchine e a ricreare loghi di brand connessi alla skate culture. Poi ho scoperto la storia dell’arte e la mia mente si è aperta: durante quegli anni ho capito che il graphic design sarebbe stata la mia strada. Sono sempre andato in skate, ma anche il calcio è una mia eterna passione. Da piccolo ero ovviamente affascinato dai loghi delle squadre. Nonostante fossi tifoso del Boca, ero innamorato del logo del Lanús e delle sue caratteristiche tipografiche. Queste influenze si sono poi traformate in street art e nella produzione di stickers che ho iniziato ad esporre in giro per la città. A Buenos Aires tutto è comunicazione e io ho iniziato a comunicare con personaggi stilizzati, non con i graffiti. Il lavoro nelle strade mi ha permesso di entrare in contatto con lo studio di graphic design Dogma, dove ho iniziato la mia carriera, e con alcuni street artist incredibili: penso per esempio ai London Police, a Pes e a Julian, conosciuto come Chu. Questi artisti per me erano vere e proprie stelle, avevo costantemente la sensazione di trovarmi nel posto giusto al momento giusto… Quello è stato un perfetto punto di partenza”

Se la produzione grafica è un divertissement divenuto professione, lo sport nella quotidianità di Bernardo è una pietra angolare divenuta terapia. Partite di basket, tennis, rugby e futsal scandiscono le giornate di questo argentino, regalandogli, tra un’ispirazione e l’altra, influenze estetiche e sollievo mentale. L’elemento sportivo è un qualcosa di cui puoi godere in ogni step della tua vita, confida Bernardo parlandoci anche del legame innato tra l’universo atletico e il design, e introducendoci una filosofia artistica dipinta di colori sgargianti e immagini iconiche.

“Tutto per me ruota intorno allo sport, anche la mia filosofia artistica. Il design è lì, in ogni maglia, in ogni cappellino connesso ai major sports americani. Il movimento è lì, in ogni azione, in atleti come Facundo Campazzo, il mio giocatore di basket preferito. Provo a creare illustrazioni che le persone possano amare, uso colori vividi e potenti per aumentare l’impatto di ogni immagine. Negli anni ho imparato cosa vuol dire produrre un qualcosa d’iconico. Faccio quello che mi piace, perché so che anche il pubblico, i brand e le aziende possono apprezzarlo. Quando ho tempo e non sono impegnato in incarichi commissionati, faccio cose che amo, perché so che possono essere funzionali per il mio lavoro, possono attirare l’attenzione altrui. Lavorare sulle fotografie non è difficile, le immagini mi chiamano e so che devo fare qualcosa. Vedo un ritratto e istantaneamente l’opera compare nella mia mente e dopo poco tempo ho già finito di realizzare il collage digitale. È un processo naturale, che mi sta dando la possibilità di lavorare con varie realtà e istituzioni sportive, come la WNBA e ESPN, o la Nazionale femminile argentina, che mi ha contattato per produrre dei contenuti relativi all’away kit del prossimo Mondiale. Sono orgoglioso di aver lavorato per la Selección e sono felice di aver animato una maglia ispirata alle nostre montagne e alla nostra natura. Ora sono impegnato in un altro grande progetto calcistico, che scoprirete tra poche settimane…”

E tra qualche anno, invece, scopriremo il destino di Bernardo. È una sua recente opera a introdurre questo tema, la scritta “La cosa peggiore che mi sia capitata come artista è essere un graphic designer”. Parole che uniscono l’ironia e la frustrazione di una condizione ibrida, di un equilibrio precario, eppure consolidato da logiche di mercato, fama ascendente e collaborazioni con grandi brand internazionali. Perché il graphic design ha plasmato i pilastri estetici di questo creativo argentino e la sua carriera lavorativa, ma oggi la dimensione artistica sta prepotentemente rubando la scena, delineando un futuro dedito alla più pura delle muse.

“This sentence started as a simple note on IG and immediately elicited so many reactions among my colleagues. A few months ago I had my first solo exhibition in Madrid and decided to display it. That catchphrase starts a conversation every time because it’s shocking, ironic and realistic. I’d like to make 100 percent artistic works, but I feel like I can’t do that because of all the theoretical notions I learned with graphic design. I’m not really free. At the same time graphic design forces you to communicate something, it’s a professional necessity. Art doesn’t impose that. I find myself in the middle, and it’s a complex condition. I’ve learned that I’ve to compromise and, at the same time, stay true to my artistic vision, even in commissioned work. It’s not easy. That’s why I see my future directed toward the artistic universe. I know that there will come a point when I’ll get tired of working for brands and, above all, I will not want to repeat myself: that will be the moment when I’ll have accomplished all the collaborations I’ve always dreamed of. I’m young and I still have a lot of energy, but as an old man I imagine myself painting huge canvas in a vast, brightly lit room…. I just hope to do what will make me feel good.”

Photo Credits: Bernardo Henning
Testi di Gianmarco Pacione


Imilla Skate, la tavola è empowerment femminile e identità ‘Chola’

Il gruppo di pioniere boliviane capaci di unire skate e rivalorizzazione culturale, trick e rivoluzione sociale

Lo skate può essere uno strumento di emancipazione, di identificazione culturale, di connessione con la storia di un’intero Paese, di rivoluzione ed empowerment femminile. A Cochabamba, Bolivia, esiste un gruppo di ragazze che attraverso la tavola sta raggiungendo tutti questi risultati. Sono il collettivo ImillaSkate, sono giovani donne capaci di fondere vibrazioni contemporanee, radici andine, ribellione e progresso sociale. Hanno trecce lunghe e nere e indossano le ‘polleras’, le tipiche gonne che hanno colorato tantissime boliviane, specie delle zone rurali, negli ultimi secoli. In equilibrio sulle loro tavole professano messaggi chiari e universali, che ci comunicano ad un oceano di distanza.

“Lo skate è per tutti, non contano il tuo status sociale, il tuo Paese d’origine, il colore della tua pelle o il tuo genere. L’importante è sentirsi parte di una grande famiglia, è parlare un linguaggio universale. Lo skate è un’arte che ci permette di diffondere messaggi essenziali. La cultura andina e l’inclusione sociale sono una parte dei temi che tocchiamo con il nostro impegno collettivo. La nostra identità, l’identità ‘Chola’, l’identità di ogni donna boliviana, è il fulcro di tutto. Lottiamo per l’empowerment femminile, per abbattere lo stigma del machismo. Questo stigma è presente non solo in Bolivia, ma in tutto il Sudamerica. Nel nostro continente l’abuso e il femminicidio sono all’ordine del giorno, per le donne non c’è equità sociale e non c’è una vera e propria libertà. Richiamiamo l’estetica delle ‘mujeres de polleras’ perché a loro è vietato studiare all’università e lavorare in contesti evoluti. Queste donne sono emarginate e discriminate. Oggi sempre più ragazze stanno abbandonando o camuffando le proprie radici per adattarsi al mondo contemporaneo, perché non possono mostrarsi per quello che sono. Noi facciamo l’opposto, evidenziando il fatto che sono solo le qualità e le capacità individuali a contare… È importante la sostanza, non la forma”.

Dalle parole di queste giovani skater traspare una potente necessità: la necessità di cambiare il futuro partendo dal passato. Tradizioni e riforme nella loro quotidianità seguono lo stesso ritmo di trick e run, diventando un’unica, folklorica forma d’attivismo. La Bolivia è l’inatteso epicentro per le multiformi attività di questo collettivo: attività che stanno ispirando tantissime ragazze boliviane, ma anche community sparse in tutto il continente. Perché il progetto Imilla Skate riesce ad essere contemporaneamente locale e internazionale, ad unire la dimensione territoriale con l’esempio trasversale.

“La skate culture è arrivata in Bolivia nei primi anni ’90, come uno sport clandestino legato alla ‘calle’. Per molto tempo le donne non hanno usato la tavola. Poi sono spuntate alcune pioniere e, grazie al loro esempio, abbiamo deciso di creare il nostro collettivo. Vogliamo essere un esempio per le ‘ninas’ del nostro Paese e mostrare loro che possono praticare questa forma d’arte urbana. La reazione della nostra città è stata da subito molto positiva, stiamo riuscendo a cambiare la mentalità della gente e stiamo diffondendo i veri valori dello skate. Lo skate insegna che non importa quante volte cadi, puoi sempre rialzarti, e che volontà e perseveranza possono permetterti di abbattere qualsiasi barriera fisica e mentale. Sono delle metafore che possiamo applicare alle nostre vite e alle nostre battaglie sociali. Tante donne si sentono più libere grazie a Imilla, sono più sicure, negli ultimi anni abbiamo migliorato la nostra organizzazione e siamo riuscite a far partecipare 5 ragazze in eventi internazionali. Tutto è cambiato da quando lo skate è diventato uno sport olimpico, ma in generale sempre più bambine si stanno avvicinando a questo sport. È un effetto domino. Stiamo cercando di creare una rete latinoamericana di skater: ArgentinaParaguay e Brasile sono alcuni dei Paesi dove sono presenti collettivi analoghi al nostro. Non siamo ancora riuscite a viaggiare in questi luoghi, perché tutte noi lavoriamo o studiamo, magari un giorno ci riusciremo… Per il momento è fondamentale concentrare i nostri sforzi qui, in Bolivia. Vogliamo essere un appoggio non solo per chi vuole fare skate, ma per intere comunità. Stiamo sviluppando progetti come un centro culturale, stiamo coinvolgendo artisti urbani e musicisti, stiamo aiutando bambini che hanno avuto problemi durante le loro infanzie. Perché lo skate è un’arte, un’arte che deve aiutare


Floriano Macchione, il running è multidimensionale

La corsa è il punto d’incontro tra passione, lavoro e progresso individuale, spiega il Global Running Brand Manager Diadora

“La corsa non sta tanto nelle gambe, quanto nel cuore e nella mente”, parole del più maestoso runner contemporaneo, Eliud Kipchoge. E nella corsa di Floriano Macchione cuore e mente rimano con ritmi e tempi, scelte ed evoluzioni, sfide sportive e orizzonti professionali. Dai Navigli al deserto di Las Vegas, dalle colline bolognesi ai laboratori di ricerca e sviluppo performance: il running nella quotidianità di questo atleta-manager veneziano ha molteplici dimensioni, la dimensione dell’allenamento e della gara, della libera e ragionata espressione stilistica, soprattutto la dimensione del leggendario brand italiano Diadora, in cui Floriano sta vestendo i panni di Global Running Brand Manager.

“Corro un centinaio di chilometri a settimana. Se non vado a correre entro pranzo, il pomeriggio diventa un incubo. È come se mi mancasse qualcosa, mi sembra d’impazzire, non so come spiegarlo… È una necessità fisica e mentale. Vorrei correre tutti i giorni nel deserto, ma non posso farlo. A Milano ho fatto sue e giù per i Navigli per un paio d’anni, su Strava avevo guadagnato il badge di ‘local legend’. Ora mi sposto molto e riesco a correre in altri luoghi, come sulle Colline del Prosecco, nei pressi della sede Diadora, o a Philadelphia, dove il brand ha la propria base americana. Il running è fondamentale per me stesso e per il mio lavoro: è un punto d’incontro di tanti differenti fattori, una passione che aiuta a rafforzare connessioni interne ed esterne all’azienda, a sviluppare rapporti umani e a migliorare le conoscenze professionali. In Diadora ho la fortuna di lavorare fianco a fianco con Gelindo Bordin, unico campione olimpico in grado di vincere anche la Maratona di Boston: è stimolante, lavoriamo insieme sui prodotti, testiamo le scarpe e comunichiamo costantemente. Abbiamo anche la possibilità di scherzare sulla mia attività di runner, lui mi prende spesso in giro. Qualche settimana fa, per esempio, ho corso il mio PB sui 10 chilometri: 36 minuti. Mi ha detto che quel tempo andava bene per fare la spesa…”

Nonostante la giovane età, Floriano Macchione può già vantare un percorso ricco e stratificato, una maratona personale cominciata nell’infinita solitudine di una porta calcistica, proseguita con un pioneristico Master in Strategia e Business dello Sport e culminata in un scenario podistico ibrido, diviso tra asfalto, terre inesplorate e scrivanie. Perché in un brand moderno si può essere atleti e dirigenti moderni, e Floriano è riuscito a fari trovare nel posto giusto al momento giusto, prima allevando il proprio immaginario e la propria filosofia sportiva nel colosso Nike, poi divenendo elemento cruciale per un’azienda, Diadora, che mai ha smesso di scrivere la storia della più democratica tra le arti sportive.

“Ho iniziato con il nuoto, nella mia stessa piscina veneziana si allenava una giovanissima Federica Pellegrini. Poi sono passato al calcio, dove ho fatto il portiere per molti anni. Lì ho scoperto il concetto e il valore della solitudine, che ho traslato nel running. La corsa è arrivata più tardi, quando avevo 21 anni. Era il 2010 e all’epoca si parlava quasi unicamente di jogging, dovevo camuffarmi quando uscivo a correre la sera. Il running era considerato un non-sport, una perdita di tempo utile solo a stare in forma o perdere peso. Quando sono entrato in Nike la percezione di questo universo sportivo era pronta a mutare, il mio stesso rapporto con la corsa era pronto a mutare. Nella sede di Bologna ho conosciuto l’ex mezzofondista Vénuste Niyongabo (primo campione olimpico della storia del Burundi ndr) e ho cominciato a correre sui colli con lui in ogni pausa pranzo. A Bologna ho partecipato alla mia prima mezza maratona e da quel momento il running per me è diventato qualcosa di molto diverso. In quel periodo storico la scena si stava evolvendo e quando mi sono spostato a Milano è letteralmente esplosa, sia per quanto riguarda la produzione del materiale tecnico, sia per l’attenzione ad altri elementi necessari per l’intera transizione, come l’estetica e la tecnologia, ma anche come i run club interni ai brand e le community sul territorio. Io ho semplicemente seguito quel flusso enorme di energie materiali e digitali, e ancora oggi lo seguo con passione e consistenza”

Dopo l’esperienza in Nike e il triste vuoto pandemico, Floriano Macchione ha deciso di ripartire dalla performance e dalla sfida personale, concentrando le sue forze su gare estremamente provanti. Il Circolo Polare Artico, il deserto di Petra e le lande sudafricane sono solo alcuni dei necessari test a cui il corpo e la mente di questo runner hanno deciso di sottoporsi per raggiungere una maturità complessiva, da riversare nella futura e attuale posizione in Diadora. Medaglie al valore capaci di attestare un expertise raro. Lauree sportive che, oggi, rendono questo polivalente professionista una risorsa estremamente rara.

All’inizio non avevo sponsor, ma sentivo di dover e voler fare quelle tre gare estreme. Erano un investimento per me stesso e per il mio curriculum. Per affrontare certe sfide bisogna essere degli atleti, o meglio, degli esseri umani estremamente meticolosi e preparati: credo che quelle esperienze siano state formative e fondamentali per arrivare a ricoprire il mio ruolo in Diadora. Nella mia nuova avventura lavorativa ho scoperto un’eccellenza del Made in Italy, un brand che riesce ad unire innovazione e artigianalità, conoscenza e identità. Tutto in Diadora si sviluppa in una precisa area geografica del Veneto: credo sia un grande punto di forza, è qualcosa che contraddistingue il brand e che mi ha affascinato fin dal primo momento. So che posso essere visto come un profilo fuori dagli schemi, ma in realtà sono molto legato alla mia azienda: credo moltissimo nella strada che ha intrapreso, e partecipare a questo processo mi diverte e mi appaga molto. Chiaro, ci saranno sempre momenti di frustrazione, ma gli stimoli continueranno sempre a prevalere. Come nel running”


Leo Colacicco, il calcio come origine di tutto

Non esiste calcio senza fashion e fashion senza calcio, insegna il fondatore di LC23

‘Stipe, ca trueve’, ‘Conserva, che trovi’, sentenzia un antico proverbio barese. E Leo Colacicco ha conservato ogni ricordo, ogni istante vissuto dentro e fuori il prato verde. Calciatore e tifoso, fanatico ed esteta. L’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, come la definiva Pasolini, nel background del fondatore di LC23 non ha rappresentato e non rappresenta un semplice passatempo. È qualcosa di più significativo, è un rapporto viscerale che oggi permette a questo brillante designer barese di vestire la propria squadra del cuore, così come di riversare un infinito carnevale di gol ed emozioni nella genialità delle proprie creazioni stilistiche.

“Il calcio è il mio sport preferito in assoluto. Da bambino giocavo per strada a Gioia del Colle, uscivo la mattina e rientravo la sera. Poi ho continuato a giocare e sono arrivato a calcare i campi di Promozione, l’ho fatto fino ai 32 anni, quando ho deciso di smettere per problemi alle ginocchia. Solo due anni prima avevo fondato il mio brand, LC23. Nonostante i ritmi lavorativi, il calcio ha continuato e continua ad essere molto più di una passione. Seguo qualsiasi campionato e coppa, sono tifoso del Milan, ma il Bari ha un posto speciale nel mio cuore. Nella nostra provincia il legame con la squadra è totalizzante, la tifoseria regge il confronto con le migliori piazze europee… Insieme ai miei amici ho sempre frequentato lo stadio San Nicola e ho partecipato a tantissime trasferte, assistendo a scene uniche e indelebili. Ho avuto la fortuna di crescere osservando il calcio con la sensibilità di un appassionato di moda. Sono entrato in contatto con la cultura ultras e le sue caratteristiche stilistiche e, allo stesso tempo, ho maturato una fascinazione incredibile per i kit delle squadre, soprattutto quelli d’allenamento. È una ‘malattia’ che si è tradotta nel collezionismo: il mio pezzo più pregiato è la maglia originale Umbro dell’Inghilterra d’Italia 90, che Palace ha riproposto l’anno scorso. È semplice e fantastica, non stanca mai. Negli anni ’90 Umbro ha inventato una nuova estetica calcistica, ha cambiato il Gioco. Non è un caso se molte di quelle maglie vengono indossate ancora oggi dentro e fuori gli stadi”

E non è un caso che la mente di Colacicco sia stata interpellata da due dei brand più celebri e leggendari del panorama calcistico per proseguire nella celebrazione della comunione tra pallone e fashion. Il già citato Umbro e Kappa sono le due vetrine in cui questo creativo pugliese ha potuto esporre reminiscenze dal sapore di Nineties e David Beckham, ma sono anche le due appendici sportive di un manuale stilistico molto più complesso, quello di LC23, capace di attecchire globalmente, collezione dopo collezione, grazie alla propria unicità. Se la collaborazione con il brand dei due rombi è stato un viaggio onirico, confida Colacicco, quella con il brand di origini torinesi è stato invece un percorso fatto di molte gioie e infinite pressioni. Perché vestire la propria squadra del cuore è un’opportunità magica, certo, ma è anche la missione più ardua che un tifoso possa affrontare.

“Quando ho collaborato con Umbro, mi sono trovato dentro un parco giochi. È stato un sogno vedere il logo di LC23 affiancato a quello del brand inglese, ed è stato fantastico poter reinterpretare o riutilizzare le loro patchwork più iconiche. Il progetto Bari è iniziato quasi per scherzo, girando nei corridoi dell’azienda ho iniziato a parlare delle maglie del Napoli create da Marcelo Burlon. Ironicamente ho detto: “Se non lo faccio io per il Bari, chi altro lo può fare?”. Loro mi hanno subito chiesto delle prove grafiche. Non ci credevo, non pensavo avrebbero accettato. La pressione psicologica è stata fin dall’inizio enorme, la paura di deludere le persone che condividono la tua stessa fede è pesante, ma quando ho visto le prove del pattern dei polipi ho capito che il nostro progetto sarebbe stato vincente. Questa sinergia con Kappa e con il Bari mi ha dato delle soddisfazioni enormi: il giorno del drop alle 5 del mattino moltissime persone erano in coda davanti al negozio LC23 di Gioia del Colle. Il mio paese, sperduto nel nulla, era diventato la meta per tanti tifosi del Bari che apprezzavano la mia maglia… Era impossibile aspettarsi un successo simile, che è stato confermato dal sold out online raggiunto in pochi minuti. La cosa più difficile è stata ripetersi. Quest’anno ho provato ad alzare il livello di complessità, studio e interpretazione della maglia. Sono estremamente soddisfatto, perché molti addetti ai lavori hanno compreso quest’evoluzione e abbiamo ricevuto ordini di tanti, tantissimi collezionisti da ogni dove. Credo che queste maglie siano figlie del destino. La prima jersey l’abbiamo lanciata in concomitanza con la promozione dalla Serie C alla Serie B, e non era pianificato. Il kit di quest’anno è stato indossato per la prima volta in un pallido Bari-Venezia, il classico 0-0 ruvido, sbloccato dal gol di Bellomo, l’unico barese della rosa. Dopo il gol, Bellomo è corso sotto la curva e ha replicato il noto trenino barese, lo stesso trenino che ho riproposto graficamente sulla maglia. Sono stati due momenti da brividi”

Dopo aver vestito il Bari in Serie C e in serie B, oggi Leo Colacicco sogna di proseguire questo intimo rapporto nella massima serie, nell’olimpo calcistico che i biancorossi stanno finalmente accarezzando dopo un lungo, lunghissimo periodo di purgatorio, provando a completare una vertiginosa scalata estetica e sportiva. Questo 43enne laureato in Ingegneria, ma allevato dai saperi artigianali di una madre-sarta e da un intenso percorso nell’universo dell’e-commerce fashion, ci insegna che non c’è calcio senza stile e non c’è stile senza calcio. Il padre fondatore di LC23 conclude l’ibrida analisi parlandoci di ispirazioni orientali e senso d’appartenenza, di clamorosi fallimenti e identità pugliese, sopratutto di un’ascesa cominciata da zero, pianificata nel feudo di Gioia del Colle e destinata a proseguire sull’onda di una fertile creatività inesorabilmente devota all’immaginario sportivo.

“Il progetto LC23 è iniziato con 8 camicie fatte da mia madre. Il primo ordine online è arrivato dopo un anno e mezzo, lo ricordo ancora. Nel tempo non ho cambiato il mio processo creativo. In ogni collezione metto dentro quello che ho in testa, senza seguire trend. Sono varie cose che m’ispirano e che cerco di conciliare coerentemente, a modo mio. Sicuramente sono molto legato al mondo giapponese e coreano, ma anche a mitici brand italiani come Stone Island. L’elemento sportivo è sempre fondamentale. Per esempio nello shop LC23 di Gioia del Colle ho appeso le foto di alcuni numeri 23: Materazzi, Ambrosini, LeBron, Michael Jordan e, soprattutto, David Beckham. Beckham è un mio idolo: è riuscito a combinare moda e calcio in una maniera unica, e continua a farlo ancora oggi. Ma anche giocatori come ‘Alino’ Diamanti stuzzicano la mia fantasia, parlo di personaggi eclettici che riescono ad uscire dall’Italia e a lasciare il proprio segno su campionati esteri, a raggiungere traguardi realmente fighi. Al contrario di Diamanti, la base operativa di LC23 non ha abbandonato l’Italia e la Puglia, continuando ad essere a Gioia del Colle. Abbiamo deciso di restare fedeli alle nostre radici. Ovviamente non è stata e non è una scelta facile, ma ho vissuto per anni a Milano e so che la mia terra regala meno frenesia e più tranquillità. C’è una fusione con tutto quello che viviamo e che ci circonda. Tutto è spontaneo e positivo, e spero che continui a rimanere tale”

Photo Credits:

LC23

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Behind the Lights – Teo Giovanni Poggi

Il fotografo romano che vive il mondo outdoor come propria casa e filosofia personale

Dal passato di Teo Giovanni Poggi affiorano originali discrepanze. Se è ironico pensare che un uomo allevato dalla ‘Città Eterna’ non abbia interesse per il calcio, è altrettanto unico il fatto che una delle lenti più ispirate del panorama outdoor contemporaneo abbia assaporato concretamente la montagna solo dopo lo scoccare della maggiore età. È credibile e coerente, invece, il percorso umano e professionale di un arrampicatore creativo, o di un creativo arrampicatore, capace di sviluppare il proprio immaginario attingendo dalle scene, dagli input e dalle muse più disparate.

“Il mio rapporto con la montagna è atipico. Sono nato e cresciuto a Roma, non mi piacevano gli sport con la palla e mi sono avvicinato all’arrampicata, incontrando quella che sarebbe diventata non solo una passione, ma anche un modo di vivere. Quando mi sono trasferito a Londra, ho ripreso ad arrampicare e ho fatto un viaggio in Thailandia insieme a due amici, dove ho affrontato la mia prima esperienza in falesia per un mese consecutivo. Una volta rientrato a Londra ho deciso di prendere il patentino per lavorare sulle funi e ho iniziato ad alternare 3 mesi di lavoro con 3 mesi di arrampicata in giro per il mondo. Prima di Londra non avevo mai sciato, non avevo mai visto e vissuto la montagna realmente, l’avevo solo immaginata in palestra…”

Scatto fisso e cinema d’autore, leggendari fotoreporter e fanzine underground: la vorticosa evoluzione artistica di Poggi, iniziata con una macchina analogica trovata in casa, nel tempo ha preso la forma di nozioni e sensibilità, imboccando la direzione della narrazione visuale, dell’ispirata necessità di documentare luoghi attraverso sensazioni ed esseri umani attraverso gesti e percezioni. La produzione di questo giovane maestro della composizione oggi risulta una corrente filosofica a sé stante, votata all’esplorazione del dettaglio, all’analisi di una rara antropologia naturale, utilizzata come vettore per definire l’universale condizione del presente.

I miei punti di riferimento visuali sono sempre stati fotografi che mi piace definire ‘veri’. Parlo per esempio di Gianni Berengo Gardin e della sua capacità di osservare la vita e la realtà, o di Franco Fontana, che questa realtà spesso plasma. A livello internazionale amo il lavoro di fotografi come Alec Soth, così come Daniel Shea e la sua capacità di evocare piccole storie attraverso singole immagini. Entrambi hanno una chiara e definita identità che ammiro. A Londra sono stato un corriere e ho amato una sottocultura ciclistica che per me continua a voler dire famiglia. I corrieri sono degli ‘artisti urbani’ con un preciso processo creativo fatto di linee e flow, dove il corpo e l’istinto diventano fondamentali. Quella scena mi ha introdotto alla produzione di fanzine, che si sono trasformate nella mia porta d’ingresso per la fotografia commissionata. Quando sono rientrato a Milano, invece, ho avuto la fortuna di essere assistente di Leonardo Scotti, che oltre ad insegnarmi molto è diventato un caro amico. Prima ancora della fotografia, però, l’idea di trasmissione delle emozioni mi è arrivata dal cinema, dalla potenza delle immagini in movimento e dalla letteratura. Registi come Gus Van Sant e scrittori come Jorge Luis Borges insegnano l’attenzione al dettaglio umano e naturale, al simbolismo, ai concetti d’ineffabilità e destino. In fondo ogni cosa può essere un vettore d’emozioni, anche una linea su un muro…”

È proprio qui, in quella che Poggi definisce come l’intima interconnessione tra ogni elemento, che si annida una visione tanto stratificata da un punto di vista letterario, quanto spontaneamente brillante. Tra chiare metafore ed echi lontani, il flusso visuale di questa lente itinerante riesce a plasmare tempi e significati indefiniti, destinati ad un’interpretazione individuale, ma riconducibili ad ideali collettivi e junghiani. Sostenibilità ambientale, progresso sociale e diversità umana sono solo alcuni dei temi che la pratica di Poggi riesce a convogliare ed esprimere.

Mi piace pensare che la mia fotografia possa avere una valenza sociale. Dal mio punto di vista non esiste natura separata dalla società e dal mondo. Siamo tutti natura. Lo possiamo capire osservando i suoi pattern e le sue modalità di sopravvivenza e coesistenza: le dinamiche del nostro ecosistema esistono dal principio di ogni cosa, all’interno di questa catena tutto può influenzare tutto. Credo sia utile riflettere su questo tema e credo che la natura possa fornire un’infinita serie di simboli e metafore. Ogni volta che posso scappo da Milano e mi ritiro sulle Alpi Centrali, dove dopo qualche ora percepisco il mutamento del mio stato d’animo. Boschi e montagne mi ispirano, ma allo stesso tempo la città mi regala una meravigliosa densità di esseri umani, un melting pot fertile. Ogni persona ha la propria storia, e tutte queste storie e personalità riescono incredibilmente a coesistere. Per questo la città è una creatura enorme che non smette di attirarmi: la manifestazione e l’osservazione della diversità umana, così come di quella naturale, fanno scaturire domande esistenziali e riescono anche a fornire delle risposte”

Un altro tipo di risposta all’ascesa artistica di Teo Giovanni Poggi è quella del mercato: Gramicci, The North Face, Satisfy e ROA sono alcuni dei brand che ultimamente hanno fatto ricorso alla prospettiva concettuale di questo talento romano. Il suo equilibrio tra consapevolezza tecnica e pura bellezza è ormai sinonimo di campagne inconfondibili, ma anche di rivincita: quella di un adolescente capitolino che veniva preso in giro per le proprie scarpe da trekking e che oggi, grazie alla sua vena artistica e alle sue skill sportive, sta riuscendo nell’impresa di affrescare un nuovo cosmo estetico e di strutturare una vita votata alla libertà

Ero l’unico che indossava le Salomon al liceo, per questo adesso mi fa sorridere che tanti brand outdoor siano diventati ‘cool’… Ai tempi venivo preso in giro per le mie scarpe e ricordo che lo stesso avveniva per i boy-scout e per il loro legame con la natura. Questa transizione mi fa piacere, la nuova percezione outdoor è una rivincita, ma contemporaneamente mi fa riflettere sul processo di mercificazione ed espropriazione che è in atto. Lo stesso processo che ha coinvolto in passato la cultura skate. È fondamentale capire e far capire cos’è vero e cosa no. Ora vorrei continuare a organizzare viaggi che siano sia ricerche personali, che progetti commissionati, condividendo questo tempo e queste avventure con le persone che mi sono più vicine. Insieme al mio caro amico Alex Webb (altro volto celebre della fotografia outdoor contemporanea ndr) sogniamo le grandi pareti e le avventure dell’alpinismo mitico”

Photo Credits:

Teo Giovanni Poggi

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