In America la soap opera del ring può diventare un appagante film horror

Ho vestito i panni del dolore, ho indossato il costume della sofferenza. Nulla mi stava stretto, nulla mi faceva paura. Mi sono incipriato di sangue, mi sono tatuato di chiodi e vetro, mi sono esaltato tra tavoli e fili spinati.

Era tutto così vero per essere finto. Era tutto così finto per essere vero. Ricordo le urla dal sapore di birra, stonate e rabbiose sinfonie che ubriacavano l’aria. Non importava che mi trovassi in uno sperduto bar di provincia, in un luminoso palazzetto o in un datato casinò.

Quello era il mio martirio. Quello era il mio spettacolo. Il mio corpo, tela di cicatrici e anabolizzanti; la mia Gimmick, storia personale da interpretare dentro quel ring. Nei pressi di quelle corde ero attore e atleta, sacrificio umano e caos organizzato.

Lo chiamavano Hardcore, era l’estremizzazione del wrestling, la sua deriva ultraviolenta, ultracoreografica. Ogni match era un match della morte. Non era la classica soap opera da tv, era più un film da terza serata, un affascinante horror vietato ai minori. Ogni arma utilizzata contro la mia pelle equivaleva ad un boato, ogni mio lamento ad un’estasi collettiva.

Era la mia vita, era la mia morte. Era la mia morte, era la mia vita. Era un piccolo ingranaggio dell’America assetata di sofferenza. Era un rapido, dissetante sorso destinato all’atavica sete umana del supplizio altrui. Una sete che continua ad esistere. Una sete che continuerà ad esistere. Come quel ring.

Richard Wade
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