Il maestro newyorchese della lente che racconta l’umanità in tutte le sue sfaccettature

“Sono cresciuto a South Brooklyn, New York. Negli anni ’60 il quartiere era molto differente, era un piccolo villaggio multiculturale. Portoricani, italiani, ebrei, afroamericani e tanti altri vivevano fianco a fianco con i loro pregi, i loro difetti e le loro contraddizioni. Ho ricevuto un’educazione molto cattolica, non sono mai stato membro di una gang, ma ho comunque avuto problemi nelle strade. Sono finito in prigione a Rikers Island e quando sono uscito ho trovato il mio ‘perfect place’ grazie alla fotografia: un luogo dove potevo esprimere quello che sentivo, dove potevo ritrarre e condividere ciò che mi aveva sempre circondato, l’umanità”

Joseph Rodriguez non dovrebbe avere bisogno di presentazioni. Il suo portfolio è una sconfinata galleria umana capace di racchiudere evoluzioni sociali, intime biografie e indagini antropologiche prive di filtri o retorica. Questa leggenda della lente, oggi vulcanico 71enne dalla parlata lucida e ritmata, ha cominciato il proprio percorso artistico respirando la New York più criptica: una Grande Mela dalle mille sfaccettature, in costante equilibrio tra autodistruzione ed elevazione, hip hop e mafia, oblio e redenzione.

“La fotografia riguarda la cura degli altri. La fotografia è l’arte di ascoltare e non di prendere. Il primo compito che davo ai miei studenti della New York University era quello di scattare foto in metropolitana per una settimana: erano costretti a parlare con la gente, ad ascoltare, a diventare esseri umani migliori e, di conseguenza, fotografi migliori. Adesso tutti possono scattare una foto, tutti possono essere fotografi di strada anche solo con un iPhone. Ma è fondamentale comprendere il senso di ogni storia, dei soggetti e delle realtà che li circondano. Ecco perché quando scatto mi concentro sempre sugli occhi delle persone: c’è la loro anima, ci sono le loro storie, i loro sogni e le loro emozioni. Penso ad esempio a José Garcia, giocatore di baseball dominicano che cercava di farsi strada nelle leghe minori americane. José fa parte del progetto socio-documentario “New Americans”, prodotto in collaborazione con lo scrittore Rubén Martinez e incentrato sul tema dell’immigrazione negli Stati Uniti. Nei giorni trascorsi insieme i suoi occhi mi parlavano sempre di famiglia: i suoi sacrifici sportivi erano interamente dedicati ai parenti e al sogno di un futuro migliore. Anche lontano da casa era riuscito a ricreare una sorta di nucleo familiare, convivendo con altri ragazzi che condividevano le sue stesse speranze”.

Nella vivida testimonianza di Joseph Rodriguez, lo sport assume un ruolo denotativo della condizione umana, diventa un mezzo per scoprire società, culture, individui, e per dialogare con essi. Perché, ci dice, la fotografia è proprio questo, un continuo dialogo: un dialogo che prima Rodriguez ha sperimentato a bordo del suo taxi, atipico e obbligato set della sua serie d’esordio, poi in giro per il globo tra Svezia e Romania, Mauritius e Vietnam, Mozambico e Argentina… Nazioni, luoghi in cui i paradigmi di Brooklyn venivano confermati o smentiti davanti all’inesauribile sete di conoscenza della sua lente.

“Studiavo all’International Center of Photography e non avevo soldi, così ho iniziato a guidare un taxi per pagarmi l’università. Dentro quella macchina ho scattato il mio primo reportage. Poi ho fotografato praticamente ovunque: viaggiare mi ha permesso di aprire gli occhi, le orecchie, la mente e mi ha fatto rendere conto di quanto lo sport nella sua universalità sia un fondamentale strumento rivelatore. Nel bene e nel male. Ricordo per esempio il mio assignment in Argentina, nel 2001. All’epoca c’era un’enorme crisi economica e mi sono ritrovato in mezzo a dei ricchi borghesi che giocavano a polo a Punta del Este, una località turistica uruguaiana, durante il winter break. Poche ore prima avevo visto signore anziane in lacrime nelle strade di Buenos Aires, avevano perso tutto. Nel frattempo questi membri dell’alta società organizzavano feste e si rilassavano bevendo dell’ottimo vino. Al di là di questo aneddoto, penso che lo sport sia preziosissimo per la sua capacità d’infondere un senso di speranza unico e trasversale. A Malmö, in Svezia, ho seguito un bambino palestinese che ogni giorno si allenava metodicamente, sognando di diventare un calciatore come il suo idolo Zlatan Ibrahimović. Anche in questo caso si trattava di una storia su più livelli: questo ragazzo era figlio di immigrati musulmani e il successo calcistico nella sua vita assumeva un significato ben più ampio e complesso. A Portorico ho incontrato invece un giovanissimo pugile che viveva la maggior parte del tempo a contatto con il ring. I suoi genitori percorrevano molti chilometri ogni giorno per portarlo in palestra e vederlo allenare con la massima serietà. Attorno a lui, durante l’allenamento, si potevano vedere tantissime foto di leggende locali, intervallate da bandiere nazionali… Tutto era così carico di tradizione, di orgoglio, d’identità”

Tradizione e identità, ma anche rottura. Spesso le composizioni visuali di Joseph Rodriguez ci parlano di fratture interne al flusso sociale, incontrano le zone più buie e marginali di esso, ritraggono, senza giudicare, armi e droghe, così come rivoluzioni di mode e costumi. Tutto s’intreccia, a New York come nel mondo, ci spiega Rodriguez ricordando i tempi in cui parcheggiava il suo taxi per bere un espresso e godersi le prime battaglie tra B-boys. Citando giganti come Pier Paolo Pasolini, Letizia Battaglia, Federico Fellini e Mario Giacomelli, torna indietro nel tempo, pensando al suo background italiano, plasmato da sigari e bocce, così come dalle potenti famiglie Gallo e Canale, e dalla tragica epidemia dell’eroina.

“Le nonne italiane erano incredibili, controllavano tutto e tutti. Conoscevo le persone che erano legate a certe famiglie, quando ero giovane ci giocavo a basket insieme o lanciavamo i ferri di cavallo, perché non ci era concesso giocare a bocce. Purtroppo l’eroina ha distrutto tutto, ha creato una tensione enorme. Ci ho messo un anno a scattare le mie prime foto in casa di qualcuno. Uscivo ogni mattina alle 6, perché sapevo che i criminali a quell’ora dormivano e allo stesso tempo cercavo di appoggiarmi ai preti locali per entrare in contatto con più famiglie possibili. Era un processo di fiducia, dovevo far capire a queste persone che non era importante la mia vita, ma la loro, dovevo creare un rapporto intimo e profondo. Ci vuole tempo ed empatia per costruire un rapporto con chi vuoi documentare, per questo con i miei allievi cito spesso una battuta di Johnny Depp: “Are you a MexiCan or a MexiCan’t?”. Fortunatamente ho vissuto anche epidemie positive, come quelle dell’hip hop, del rap e delle sneakers. Sono state delle rivoluzioni incredibili, che hanno racchiuso la forza creativa e lo spirito competitivo di NYC. Ho sempre pensato alla mia città come ad una grande arena sportiva: tutti qui combattono per vincere, per realizzare i propri sogni, non per sopravvivere. È come un immenso playground dove devi ‘basketball your way’ per raggiungere l’eccellenza. Il mio sogno era diventare un fotografo e, ancora oggi, quando supero il Brooklyn Bridge, mi sento orgogliosissimo di averlo realizzato”

Joseph Rodriguez potrebbe parlare per giorni, forse settimane delle sue esperienze di vita. La sua testimonianza fiume pare una lezione cattedratica, una meravigliosa autobiografia da cui estrapolare quanti più consigli e strumenti per tradurre la realtà che ci circonda. L’importante è parlare di vita, di come sono gli esseri umani e di come riescono a coesistere. Questo è l’insegnamento più importante che ci dona questo maestro della lente, insieme ad alcune domande dirette che dovrebbero troneggiare sulle pareti di ogni fotoreporter in erba.

“I giovani fotografi devono capire che stanno vivendo nella storia. Devono porsi un semplice quesito: voglio veramente documentare tutto questo? Sono abbastanza affamato per farlo? Devono capire che la fotografia permette di raggiungere le persone, di toccarle. E devono capire che le persone possono cambiare. Almeno coloro a cui è concesso farlo. I detenuti che ho fotografato durante una gara di bodybuilding, per esempio, non possono farlo completamente. Li hanno ‘messi a dormire’, come diciamo qui, non si potranno più svegliare, perché staranno in carcere a vita. Tanti altri a cui vedevo impugnare armi trent’anni fa, invece, oggi sono padri e nonni con una vita normale. Sono autisti di bus e lavoratori, sono una maggioranza che i media evitano sistematicamente di menzionare. Io continuo a seguire queste persone, continuo a documentare le loro vite e a comunicare grazie alle mie piattaforme, continuo a mostrare esseri umani. E questo è ciò che mi ha sempre spinto ad amare la fotografia”

Credits: Joseph Rodriguez
www.josephrodriguezphotography.com
IG: @rollie6x6
Testo a cura di Gianmarco Pacione