L’incrocio tra fotografia e settima arte, gli scatti come parti di un unico, grande film visivo. Intervista alla fotografa americana
“La fotografia ha un’enorme potenza intrinseca: il momento vissuto è un qualcosa d’istantaneo e la fotografia lo rende qualcosa di molto più forte, significativo”
Verbo e immagine, attimo ed eternità. La fotografia di Emily Maye ha una potente carica cinematografica, ha la volontà di espandersi nel tempo, nel racconto, nelle innumerevoli declinazioni di un semplice, complesso istante.

I ritratti della fotografa americana sono lungometraggi sensoriali generati da un singolo scatto, sono pellicole ridotte all’osso, pronte a scavare nell’immaginazione dell’osservatore, nella sua capacità di evolvere un particolare, di articolarlo, di renderlo storia.
L’istinto artistico di Emily è generato da un’anima polivalente, da una biografia personale che l’ha vista alternare danza e sceneggiatura, regia e composizione: studi e influenze da cui la sua fotografia attinge ormai da un decennio.
“È divertente pensare che ora sono una fotografa: poco tempo fa ho ritrovato un video che mi ritrae a 5, 6 anni, mentre sto scattando un ritratto a mio fratello con una palla da football in mano. Da piccola il mio principale interesse era il balletto, volevo diventare una ballerina professionista. Poi, verso gli 11 anni, ho scoperto i film e ho iniziato a desiderare di fare la regista. Al college ho studiato per diventare sceneggiatrice e ho perseguito questo sogno fino a dieci anni fa, quando, lavorando al moodboard per un film sul ciclismo, ho iniziato a scattare delle foto. Da quel momento non ho più scritto”


Un lampo, o meglio, un flash. Da quella lontana epifania la produzione fotografica di Emily non ha subito battute d’arresto, inseguendo un flusso tematico molto chiaro: quello sportivo.
Nei suoi scatti gli atleti diventano i protagonisti di uno sforzo universale, i loro corpi vengono scrutati alla ricerca di dettagli significativi, di espressioni e gesti che esulano dall’atto sportivo fine a sé stesso, trascendendo nella sfera rituale, mistica, emozionale.
“La mia fotografia è stata inevitabilmente contagiata dalla settima arte. Spesso vedo i miei scatti come parti di un unico grande film. In tutti gli sport, in fondo, abbiamo una storia già pronta: quella dei vincitori e dei vinti. Abbiamo, soprattutto, persone di cui poter indagare momenti intimi e sacrifici. Amo ritrarre i dettagli dei loro corpi, come l’utilizzo delle mani: dal balletto ho imparato che i corpi possono parlare, comunicare. Ritengo meno interessanti sport come la Formula 1 o il football americano proprio per questo, perché gli attori protagonisti sono tutti bardati. Sono molto legata alla creatività della pallacanestro, mentre con discipline come la corsa o il ciclismo, ripetitive per definizione, provo sempre a focalizzarmi su una precisa storia, sull’approccio alla persona, sul contesto: l’ambiente che circonda un atleta, in molti casi, è quasi più importante dell’atto sportivo stesso”


Sentire qualcosa di vero, di nuovo; reagire al primo sguardo, riflettere al secondo. Gli obiettivi della produzione fotografica di Emily Maye sono chiari, così come i suoi punti di riferimento: dai film crime francesi degli anni ’60 e ’70 agli scatti sportivi di Robert Capa, dalla ‘Mamba Mentality’ ai poster vintage dell’era dorata ciclistica.
“Kobe è il mio atleta preferito, penso sia la definizione estrema di campione mentale. I ritratti di Neil Bedford sono perfetti nel riassumere la mentalità e la carica emotiva di un’icona divenuta globale, di un’eccellenza capace di oltrepassare l’ambito sportivo. In generale mi soffermo sulle foto che rendono il mondo interessante, nuovo, ai miei occhi: mi piacciono le persone da sole e immerse in scenari evocativi, mi piace quando un atleta è segnato da fango, fatica e intemperie, mi piace quando non c’è bisogno di un volto specifico per descrivere una storia”



Se per Pasolini il cinema rappresentava in modo paritario un’esperienza linguistica e filosofica, lo stesso si può dire dell’opera fotografica di Emily Maye.
Un tocco veloce, l’immediatezza della rappresentazione, la pluralità e potenzialità dei suoi significati. Ecco un vulnerabile Usain Bolt, ecco le sfumature di un timeout NBA, ecco le acque increspate da un apparentemente anonimo pallanotista statunitense.

Ecco la continuità artistica, ecco i denominatori comuni che hanno unito i lavori commerciali e non di Emily nell’ultimo, florido, decennio.
“Ho sempre seguito il mio istinto, a costo di essere dura con me stessa. Credo che mettendo insieme tutti i miei lavori fotografici esca un’idea definita di chi sia Emily. Le foto di ieri sono tranquillamente sovrapponibili a quelle di dieci anni fa: e sono orgogliosa di questo. In questo periodo mi ha pesato parecchio il non poter viaggiare, il non poter scoprire nuove discipline, nuovi soggetti. Ho però avuto modo di riflettere, di comprendere ancora di più il valore dello sport, i suoi veri significati, e ho anche iniziato a scrivere di nuovo. In futuro mi piacerebbe tornare all’origine e produrre un film. Ovviamente a tema sportivo”


Credits
Ph Emily Maye
Ph Neil Bedford
IG @neil_bedford
neilbedford.com
Ph Robert Capa
Text Gianmarco Pacione