Restare fedeli alla strada, alla comunità, alle origini. Intervista al fotografo newyorchese

La fotografia di Anthony Geathers è fatta di strada e radici, di quartieri bollenti in cui s’intrecciano leggende popolari e storie mai raccontate. È il gusto della realtà, di una lente senza filtri, fedele a sé stessa e al proprio passato. È la forza dell’autenticità, di un occhio che non vuole scendere a compromessi, che alla semplice bellezza preferisce la narrazione estetica.

“Il mio lavoro non si focalizza solo sullo sport, ma anche sul concetto di comunità, di razza. Voglio mostrare un qualcosa che viene sistematicamente evitato. La mia ricerca fotografica si concentra su storie che i media canonici non trattano, sulla volontà di nobilitare le mie radici. Ho iniziato fotografando muay thai e kickboxing, seguendo atleti neri a cui nessuno dava rilevanza: da quel momento sono stato spinto dalla necessità e dalla volontà di valorizzare le loro gesta, caricandole di connotati sociopolitici, emozionali e, in alcuni casi, spirituali”

Nel portfolio di Anthony nulla è casuale, tutto è il prodotto di una vita iniziata e sviluppata tra i rivoluzionari marciapiedi di Brooklyn, tutto è legato alla multiforme sperimentazione giovanile, al contatto multiculturale, agli incessanti flussi visivi divisi tra hip hop e streetball, tra sport di contatto (wrestling, boxe, karate) e movimenti parapolitici.

“Ho sempre odiato stare a casa. Da piccolo dovevo sempre essere in movimento, ho provato moltissime discipline diverse e, a dimostrazione di questo, ancora oggi porto infiniti segni d’infortuni passati. A scuola ho scoperto la fotografia grazie al mio insegnante di Storia e ad un contest. All’epoca decisi di ritrarre le persone più importanti nel mio quartiere, coloro che ritenevo dei modelli. Durante quel primo reportage ho capito che la fotografia era un mezzo per parlare alle persone, un modo per esprimere la città: Jamel Shabazz mi ha ispirato moltissimo sotto questo punto di vista, lui è sinonimo di New York e di hip hop, è leggendario quanto la Statua della Libertà o gli Yankees…”

Nonostante una precoce infatuazione, la carriera fotografica di Anthony è rimasta a lungo in stand-by a causa di una singola, importante scelta di vita che l’ha condotto oltreoceano, nel pericoloso territorio afgano. Un’ostica parentesi che ha consentito al newyorchese di evolvere la propria capacità di analisi, di comprensione dell’essenza umana: strumenti ideali per quello che sarebbe diventato il suo lavoro una volta rientrato negli States.

“Dopo l’high school sono entrato nei Marines. In Afghanistan ero addetto alla mitragliatrice. Lì non potevo fotografare, mi veniva vietato dai superiori, tutto era caotico e l’unico pensiero fisso era quello di restare vivo. Questo però non mi ha impedito di prendermi del tempo, di tanto in tanto, e guardare le persone e gli ambienti con uno sguardo fotografico, ragionando sulle prospettive e sulle composizioni. Ora i miei lavori sono un riflesso di ciò che ho passato tra l’infanzia a Brooklyn e i Marines. Ho vissuto di tutto e trovo stimolante ritrarre atleti con un trascorso simile al mio, uomini e donne che sono usciti da un passato complesso, come i fighter UFC Angela Hill e Randy Brown”

Rientrato dalla missione militare, Anthony si è iscritto al college. Tra i banchi universitari ha compreso che la fotografia sarebbe potuta diventare una professione e l’ha presto resa tale, affidandosi ad una poetica legata quasi unicamente al bianco e nero

Se nel rapporto di lunga data con AND1 è riuscito a sublimare le proprie intenzioni artistiche, recentemente Gaethers è salito alla ribalta grazie alla campagna Comme des Garçons x Nike Air Foamposite One, interamente prodotta nel suo habitat naturale, le strade della Grande Mela.

“Sono molto orgoglioso della mia collaborazione con AND1, mi hanno dato carta bianca e ho fotografato a modo mio leggende come Skip To My Lou ed AO. Grazie a quel progetto ora tanti brand riconoscono il mio gusto e mi chiedono semplicemente di essere me stesso, di dare il mio tocco, come successo con Nike. Fortunatamente tutti ora vogliono più ‘realness’: il glamour non basta più, la gente vuole sentire e vedere qualcosa di vero, anche nelle pubblicità. Lo stesso vale per la fotografia sportiva pura, dove preferisco il basket dei playground a quello NBA. Nei palazzetti ci sono moltissime restrizioni, non c’è libertà di movimento e, di conseguenza, d’espressione. Quando devo fotografare un giocatore NBA, cerco sempre di costruire una connessione con lui, come faccio con gli streetballer: solo in questo modo si può creare un’estetica vera”

Portare la realtà dove la finzione ha regnato e, in qualche modo continua a regnare. L’obiettivo di Anthony Geathers è chiaro: eliminare l’artificiosità nella narrazione fotografica, renderla il più possibile fedele alla realtà.

Una forma di devozione artistica totalizzante, che ha portato Anthony ad annullarsi volontariamente, a negare la propria immagine e la propria identità al fine di celebrare i suoi soggetti nel modo più efficace.

Non vedrete mai la mia faccia. Se succede, succede molto raramente. Il mio lavoro deve riguardare solo chi fotografo, deve raccontare la sua verità. Ora sto imbastendo un approfondimento sullo streetball e continuo a collaborare in pianta stabile con AND1 e WNBA. Con la notorietà e il maggior numero di lavori dell’ultimo periodo, poi, posso permettermi di pensare a progetti culturali: in cima alla lista ci sono bmx, skate e hip hop. Sicuramente non ci sarà nulla di mainstream…”

Photo by Anthony Geathers

IG @anthonybgeathers
anthonygeathersphoto.com

Testi di Gianmarco Pacione