Divinità sportive e pratiche di nicchia, Anthony Joshua e le corride messicane, vi portiamo nel mondo di un giovante talento della fotografia
Riuscire a far convivere divinità sportive e pratiche di nicchia, alternare sapientemente la produzione commerciale con l’approfondimento della passione, dell’arte per sé stessi.
La giovane e intensa storia di Alexander Aguiar insegna che l’apice della fotografia sportiva può essere toccato, vissuto e ritratto con coscienza: non per forza, difatti, questo apice deve deteriorare ricerca ed etica personale, non per forza deve obbligare a scendere a compromessi con la propria curiosità, con la propria espansione artistica.
È la stessa selezione fotografica inviataci da Alexander a mostrarci un’opera atipica: scatti in cui ad alternarsi sono Anthony Joshua, il dio Marte del quadrato, e un anonimo fantino della Florida Meridionale, Stephen Curry, l’Hermes dei parquet NBA, e uno sconosciuto giocatore di jai alai (antica pratica basca).

Estremi che finiscono per coincidere, incorniciati da un senso d’intimità, d’indagine dell’uomo, prima che dell’atleta. Una cifra stilistica di cui Aguiar ha provato, consapevolmente, a farsi testimone.
“A legare i miei lavori credo sia proprio questo concetto: il senso d’intimità. È un qualcosa che ritrovo nelle piccole realtà sportive: contesti dove ho pieno accesso, dove posso vivere liberamente il dietro le quinte, lo spogliatoio. Allo stesso tempo è un qualcosa che ritrovo stando a contatto con atleti di altissimo livello: prima del rapporto fotografico cerco sempre d’instaurare una relazione personale, lascio perdere temi fuorvianti come l’idolatria e la celebrità. Tratto questi atleti superesposti come persone normali, come genitori, come uomini e donne semplicemente bravi in ciò che fanno, e credo che questo mi aiuti a creare un tipo di connessione diversa”
Intimità, ma anche gusto per il dettaglio, attesa e comprensione del corretto momento da immortalare. Nelle parole di Alexander pare prendere forma un tipo di fotografia assimilabile all’attività sportiva stessa: fatta di sacrificio e intuito. Non potrebbe essere diversamente, soprattutto alla luce dei suoi trascorsi con una racchetta in mano.
“Sono cresciuto giocando un tennis di alto livello, provando a seguire gli esempi di Roger Federer, Marat Safin e Fabrice Santoro. Mi allenavo anche sette ore al giorno, ma non sono riuscito a sfondare. Ho investito tanto in qualcosa che amavo e sono rimasto scottato, per questo con la fotografia mi sto comportando diversamente: nei suoi confronti sento di avere un grado di protezione, di cura superiore. Credo che questa base sportiva mi abbia instillato l’etica del lavoro, la disciplina, il comprendere cosa significhi focalizzarsi su qualcosa. È un background rilevante, che forma la tua personalità e, conseguentemente, il tuo modus operandi”

A plasmare la professionalità di Alexander sono gli anni trascorsi alla corte di Under Armour. Periodo che ha permesso al non ancora trentenne di maturare rapidamente una brillante carriera fotografica.
Un legame, quello con il brand americano, iniziato quasi per caso nel campus di Maryland e che, in breve tempo, lo conduce ad immortalare giganti dello sport globale, a penetrare nelle anguste e brillanti vite di Tom Brady, Michael Phelps, Joel Embiid, Stephen Curry e, soprattutto, Anthony Joshua.
Con il fenomeno britannico dei guantoni Alexander trascorre un lungo periodo di vicinanza. Una finestra di due anni in cui, oltre al perfetto momento da immortalare, l’attenzione del giovane fotografo si deve concentrare sulla propria integrità morale, sul non lasciarsi travolgere di riflesso dallo tsunami della popolarità.
“Essere vicino ad AJ è stato stupendo. Lui è genuino, non si è fatto cambiare da soldi e successo. Quello che gli gravita attorno, però, è difficile da controllare. Ho camminato con lui verso il ring davanti a centomila persone, sono salito su jet privati, ho visto fans di tutto il mondo acclamarlo… Sarebbe stato molto facile finire fuori fuoco, abbandonarsi all’eccitazione del contesto. L’importante in realtà è realizzare e tenere sempre a mente che la persona fondamentale è un’altra: come fotografo devi sottodimensionarti, devi comprendere che la tua è un’importanza relativa. Il rischio sta nell’iniziare a pensare che tutto ti sia dovuto: non devi dimenticare che dentro al ring non ci sei tu, che non sei tu il vero protagonista”

Sottodimensionarsi, dunque, per innalzare in qualche modo il pathos della propria opera fotografica, per fondersi, rispettosamente, con l’istante che potrebbe cambiare un’intera epoca sportiva.
“La parte più incantevole e adrenalinica dello stare a contatto con un atleta della caratura di Joshua sta nel fatto che non puoi mai sapere quando si concretizzerà un momento epico. Prima del match con Klitschko, per esempio, mi sono preparato capillarmente, ripetendomi che dovevo essere tanto bravo nella fotografia quanto AJ sul ring. Penso anche alla fortuna che ho avuto nel fotografare Michael Phelps nel suo habitat naturale, in piscina, o al tour asiatico vissuto con Tom Brady… Se ti trovi tante volte in queste situazioni possono sembrarti normali, ma non lo sono”
Normale potrebbe diventare l’abbandonare la propria ricerca fotografica per dedicarsi completamente ai lavori commerciali. Una scelta quasi scontata, almeno all’apparenza, che Alexander però ha sempre rifiutato, inseguendo la propria curiosità visiva e culturale.
“Nei lavori pubblicitari hai meno libertà, è ovvio, quindi bisogna trovare un preciso equilibrio tra il lato lavorativo e i progetti personali. Ti faccio un esempio, qualche tempo fa mi hanno chiesto di fotografare la squadra di football dei Miami Hurricanes. Non era un grande affare, ma ho subito detto di sì: il motivo era semplice, a 12 anni mi potevi trovare sugli spalti a osservare gli Hurricanes più forti di tutti i tempi e fotografarli mi ha permesso di far riaffiorare quelle emozioni. Ci sono molte cose che faccio senza essere pagato, per puro piacere: cose che poi si possono rivelare utili anche per il lavoro. Ricordo un mio viaggio in Giappone in cui decisi di scoprire fotograficamente il sumo: l’azienda per cui lavoravo all’epoca non l’aveva trovato uno spunto interessante, a lavoro finito mi chiesero di tornare sul dohyō insieme a Tom Brady… Trovo sia questa la corretta evoluzione delle due sfere, il riuscire a fare collimare lavoro e interesse personale, creare una connessione tra esse”

Una connessione che per Alexander non deve soffermarsi sul gesto tecnico o sul semplice ritratto: concetti teorizzati e messi in pratica dai suoi punti di riferimento storici. Occhi, quelli selezionati dal talentuoso americano, che nelle pellicole hanno impresso storie, sensazioni, pensieri capaci di esulare dal presente, dal tangibile, dallo sport.
“Ho scelto Robert Capa per la sua inusuale visione del Tour de France. È un fotografo di guerra prestato al ciclismo e qui svolge il suo lavoro in maniera non letterale: non fotografa i corridori, non fotografa quello che possono vedere tutti. Astrae, esplora opzioni differenti: è una cosa che mi piace fare soprattutto quando sono a contatto con gli sport minori. Lo stesso vale per lo scatto di Harry Gruyaert, in cui si manifesta un momento bizzarro, surreale del Tour del 1982. Alla ‘Grand Boucle’ ho dedicato un reportage, trascorrendo due settimane in Francia per scoprire le unicità di questa corsa meravigliosa. Su Walter Iooss Jr. c’è poco da dire, ha fotografato tutte le leggende sportive degli ultimi cinquant’anni: credo che far durare la propria fotografia nel tempo sia un obiettivo comune a tutti noi. Lui l’ha fatto con Michael Jordan e molti altri, qui ho portato un suo fermo immagine di un fantastico dugout di fumatori. Con l’Ali di Dry mi ricollego al discorso sui momenti iconici, sulla capacità di gravitare attorno ad una legacy ed impreziosirla”





E impreziosire l’ignoto è il prossimo obiettivo di Alexander Aguiar: un ignoto esotico, che vada oltre i major sport americani, che si manifesti in un universo sportivo ancora da scoprire, ancora da esplorare.
“Alla fine di questo stallo pandemico vorrei ricominciare a viaggiare per scoprire. Vorrei indagare culture differenti, come ho già fatto con le corride messicane. Vorrei tornare a sentirmi confuso davanti a pratiche sconosciute, a contesti affascinanti”
