Il fotografo francese per cui non esiste vera fotografia senza comunicazione e contatto umano

“Quando ho lasciato il mio lavoro a Dubai per tornare a Parigi, ho deciso di pianificare un lungo viaggio nella vecchia Unione Sovietica. La mia ragazza è bielorussa, e volevo visitare dei Paesi che mi permettessero di migliorare il mio rapporto con la sua lingua. Ho scelto dei luoghi poco turistici, che mettessero alla prova le mie conoscenze linguistiche, dove pochi o nessuno parlavano inglese. Poi ho fatto lo stesso in America del Sud, dove ho allenato il mio spagnolo. Quando viaggi da solo hai bisogno di trovare una motivazione, un senso più grande. Per me quella motivazione e quel senso derivano dal miglioramento personale e dalla fotografia. In precedenza avevo sempre fatto il turista ‘normale’, osservavo i monumenti e non mi mettevo in gioco… Tutto questo mi faceva sentire in qualche modo incompleto e solo. E ho deciso di mettermi in una posizione completamente diversa, stimolante”

La lingua e la fotografia. Due forme di comunicazione che corrono su binari paralleli, ma che spesso s’intersecano tra loro, plasmando un connubio di rara importanza e bellezza. È il caso, per esempio di Alaric Bey. Le sue composizioni visive parlano ad ogni spettatore, raccontano storie di uomini e momenti, di luoghi dove il tempo pare cristalizzato, di sport millenari e incontaminati terreni rossi. La lingua per entrare in contatto, il dialogo per comprendere e, solo in un secondo tempo, catturare quello che si trasforma in molto più di un semplice scatto, diventando un profondo romanzo visuale popolato da esseri umani. Questo è il processo che accompagna l’opera documentaristica di questo trentenne francese. Nella propria quotidianità Alaric lavora nel mondo dei profumi, ma lo scorso anno ha deciso di abbandonare routine e ufficio per assaporare l’unicità asiatica e sudamericana con la macchina fotografica in mano.

“Ho sempre amato la street photography, mi è sempre piaciuto rubare scatti. Quando tutto è ordinato non mi convince. Devo sentire l’emozione, devo sapere di ritrarre qualcosa che non è replicabile, che immediatamente dopo il click è destinato a svanire per sempre. Ho iniziato a scattare con l’iPhone ed era facile, nessuno mi vedeva, nessuno mi notava. Con la macchina fotografica, però, tutto è diventato diverso: i soggetti non si fidavano, erano reticenti, e la mia Canon era sprovvista di un obiettivo professionale, quindi non potevo fotografare da lontano o in movimento. Così ho deciso di osare. Sono timido di natura, ma la paura non mi ha bloccato e ho iniziato ad avvicinarmi, a parlare, a presentarmi e ad ascoltare storie personali. Improvvisamente la gente ha cominciato ad aprirsi e a consentirmi di scattare. In quel momento ho capito la bellezza del rapporto tra dialogo e fotografia. In Moldavia, per esempio, ho aiutato una madre a trasportare del mais. Viveva in un villaggio disperso nel nulla e abitato solo da anziani, mi ha spiegato che tutti i giovani erano andati all’estero a cercare fortuna e che uno dei suoi figli era riuscito a laurearsi ad Harvard… Era sinceramente felice perché, nonostante il costante decremento demografico, i membri del villaggio sapevano e sanno che un’intera generazione sta trovando una vita migliore in giro per il mondo”

Kirghizistan, Kazakistan, Moldavia… I passi di Alaric nel cuore dell’ex URSS hanno tastato strade e contesti che non sono stati cambiati dal corso del tempo. La sua ricerca, ispirata dalle poesie visuali di Steve McCurry, si è concentrata principalmente su un secolo che sta rapidamente svanendo davanti alla globalizzazione digitale e ai flussi migratori: il Ventesimo. La sua Canon ha catturato testimonianze che presto diventeranno pagine di libri di storia, ma anche giochi tradizionali in grado di resistere a imperi ed evoluzioni tecnologiche, come il Kok-Boru.

“Ho letto di questo gioco per la prima volta nel libro ‘I Cavalieri’ del giornalista e romanziere Joseph Kessel. Lui l’aveva osservato in Afghanistan, io ho avuto la fortuna di ritrovarlo in Kirghizistan. È un antichissimo gioco mongolo, una sorta di football americano giocato con una carcassa di un agnello. I giocatori solitamente riempiono la carcassa con la sabbia, formano due squadre, e hanno come obiettivo quello di portare la carcassa nella meta avversaria (una zona circolare a forma di ruota). Questo sport è rimasto nel dna di molti popoli nomadi delle terre ex sovietiche. Ho chiesto al capo di un villaggio, una scheggia abitativa circondata da montagne, di organizzare una partita. La mia guida mi ha consigliato di stabilire un premio in denaro, in modo da far competere al meglio i giocatori, e ho cominciato a scattare. Questo gioco continua a rimanere uguale da migliaia di anni: è un qualcosa che mi meraviglia. Avrei solo voluto osservare di più la partita e fotografare di meno, era un momento così incredibile…”

E anche lo sport nella filosofia di Alaric diventa un mezzo di comunicazione e condivisione. In un italiano più che fluente, ennesima dimostrazione di un poliglottismo di alto livello, Alaric spiega di sentirsi un privilegiato e, contemporaneamente, ammette di non aver ancora completamente processato la dicotomia viaggio-vita reale a cui è stato recentemente esposto. Citando ‘Il Postino’ di Troisi e ‘La Grande Bellezza’ di Sorrentino, evita di definirsi esploratore, riferendosi a sé stesso semplicemente come a un fotografo che vuole mostrare la grandiosità della bellezza umana. Una bellezza che può essere ritrovata in una nebbiosa giornata degli Emirati Arabi Uniti, così come davanti ad una vecchia televisione di un villaggio mauritano e ad una scolorita partita della Francia. Una bellezza che questo giovane fotografo francese continuerà a cercare anche nella sua prossima fuga artistica, e non solo, in Estremo Oriente.

“La mia filosofia artistica è guidata in particolare da una frase pronunciata ne ‘La Grande Bellezza’: “È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza”. Credo sia racchiuso tutto qui. E mi sento un privilegiato nell’avere la possibilità e i soldi per osservare questi sparuti incostanti sprazzi di bellezza. Molti di essi vengono prodotti dallo sport e dalle sue valenze sociali. Penso per esempio alle vogatrici inglesi che ho fotografato a Dubai. Spesso c’è molta nebbia in città, tutto diventa bianco. Ho fotografato alcuni dei giganteschi palazzi di centinaia di piani che venivano avvolti, come se fossero delle montagne, da questa coltre. Poi ho camminato per un po’ in mezzo a quell’atmosfera misteriosa e fantastica, e ho scorto quelle ragazze che si allenavano sulla barca… Sono un appassionato di sport, soprattutto di calcio. E il calcio è il miglior mezzo di comunicazione al mondo. Una volta mi trovavo in una zona remota della Mauritania e tutto il villaggio era riunito attorno a una televisione, erano tutti seduti su un tappeto per ammirare i Mondiali e mi hanno subito accolto tra loro. Anche in Oman, nel mezzo del nulla, ho visto persone che giocavano a calcio con vestiti tradizionali… Il calcio è magico. Ora sto organizzando il mio prossimo itinerario: l’anno prossimo andrò in Giappone per la mia luna di miele, non vedo l’ora di scoprire anche quella cultura”

IG: Alaric Bey
Text by: Gianmarco Pacione