Vibram, la tradizione della suola diventa progresso e sostenibilità

Da Vitale Bramani alle innovazioni tecnologiche e all’impatto ambientale, viaggio nell’universo giallo della sicurezza outdoor

Albizzate è una località sospesa nel tempo, ha il volto del tipico paese del varesotto, antitetico se paragonato alle vicine frenesie milanesi. Eppure, l’essenza di questo placido luogo è attraversata da innovazioni e tecnologie, da una virtuosa ricerca futuristica iniziata nel lontano 1937 e tesa, oggi più che mai, verso la condivisione di una cultura fondata sulla performance, sicurezza e sostenibilità. È qui che ha sede Vibram, la visionaria azienda plasmata da Vitale Bramani e dal suo desiderio di connettersi al meglio con la montagna e la natura tutta. È qui che viene racchiusa l’essenza di un’eccellenza globale della creazione, così come della riparazione, di suole destinate all’universo outdoor e ai suoi eterogenei protagonisti.

“Il nostro fondatore era un grande alpinista e venne scioccato da un fatto preciso, avvenuto nel 1935. Stava affrontando una via sulla Punta Rasica insieme ad altri scalatori. A causa di condizioni meteo estremamente avverse, alcuni di loro non riuscirono a fare ritorno a casa”, racconta Federico Clerici, Sports&Outdoor Marketing Coordinator, accogliendoci tra mura che trasudano tradizione e progresso giallo, “Bramani cominciò ad analizzare le cause di quella tragedia e individuò uno dei maggiori problemi nella bassa qualità dei materiali delle scarpe. A due anni di distanza dall’incidente, grazie alla sinergia con Pirelli, venne creata la gomma che diede vita all’iconica suola carrarmato. Suola che nel 1954 entrò nella storia sportiva, equipaggiando gli scarponi Dolomite e conquistando il K2 insieme alla Spedizione Italiana”

Pubblicazioni specializzate e attrezzature tecniche circondano le parole di chi dà l’impressione di rappresentare non tanto un brand, quanto una filosofia. Paiono tasselli di un museo in costante divenire, dedicato all’incidenza che Vibram ha, fin dalla sua genesi, nel rapporto tra l’essere umano e ciò che lo circonda, lo sovrasta e lo sfida, affascinandolo e appagandolo. “Ora produciamo circa 300 modelli diversi di suole all’anno, nonostante la crescente connessione con il mondo lifestyle continuiamo ad orientare le nostre attenzioni verso la performance e la sicurezza. Per questo motivo testiamo, testiamo e testiamo. Vogliamo garantire prodotti di estrema qualità e, per farlo, ci affidiamo a 3 fasi complementari: il laboratorio e i relativi studi chimico-fisici, l’analisi in ambienti controllati e le prove in situazioni reali, legate al nostro Team di atleti e tester”

Quando fa riferimento al pool di sportivi legati a Vibram, Federico Clerici chiama implicitamente in causa anche sé stesso e i propri colleghi. Perché gli ampi spazi della sede di Albizzate sono attraversati da profonde energie e competenze atletiche. Chi lavora per Vibram lavora per la propria passione, e viceversa. Questa è l’originale impressione veicolata dalle molteplici testimonianze di professionisti che, nel tempo libero, si trasformano in sportivi outdoor. Esperti a tutto tondo, uomini e donne che vivono per e attraverso lo sport, traducendo esperienze e sensazioni personali nel proprio lavoro.

A rimarcare il concetto è il Tester Team Manager Vibram Giordano De Vecchi, scienziato alla costante ricerca della suola adatta ad ogni superficie, pendenza e condizione atmosferica: “È essenziale la nostra conoscenza sportiva. Nel nostro reparto, in particolare, dobbiamo interfacciarci quotidianamente con i tester esterni: ogni anno attiviamo circa 200 figure divise tra guide alpine, runner e altre tipologie di atleti. È fondamentale parlare il loro linguaggio, serve per processare al meglio ogni feedback e trasformarlo in nuovi design e miscelazioni”, rivela immerso in un ufficio uscito da un film Marvel, popolato da rampe di ultima generazione, simulatori di terreni e rilevatori di dati. “Lavoro qui da 8 anni e ho osservato vertiginosi progressi da un punto di vista tecnologico. Abbiamo introdotto tantissime migliorie, che permettono alle nostre suole di affrontare percorsi apparentemente inaccessibili. O meglio, che risultavano tali fino a poco tempo fa… Grazie ai test svolti qui e in ambienti esterni riusciamo a confrontare le misurazioni scientifiche con le percezioni umane. La valutazione soggettiva del livello di sicurezza è fondamentale, soprattutto se effettuata da atleti esperti. ‘Tester do it Better’, in fondo questo è il claim che accompagna il nostro lavoro”

Il Team Vibram, però, non si limita a testare le celebri suole dal dettaglio giallo. Successi e record sono difatti un altro capitolo centrale dell’azienda e dei suoi testimonial: lampi di superiorità atletico-tecnologica che, da un lato, spingono sviluppatori e designer al continuo miglioramento e, dall’altro, li ripagano concretamente, come conferma Lorenzo Cogo, Component Design & Development Coordinator: “È un’emozione vedere vincere gli atleti che utilizzano le suole su cui lavoriamo. Penso per esempio alle imprese di leggende come Kilian Jornet… Il prodotto finale che osserviamo in televisione o sui giornali è qualcosa su cui normalmente riversiamo per mesi le nostre attenzioni. Ecco perché ci sentiamo parte di queste imprese. Per i nostri design diamo la priorità alla funzionalità, ovviamente, soprattutto nel caso delle suole utilizzate per il trail. Sapere che i runner Vibram utilizzano le suole per 400, 500km, o addirittura oltre, ci garantisce costantemente di avere delle statistiche importanti su cui riflettere”.

Parlando di statistiche, numeri e palmares non hanno reso rarefatto o elitario l’ambiente di Albizzate. Inoltrandoci tra laboratori all’avanguardia, enormi e minuti macchinari, colorati stampi di gomma ed esperte mani, notiamo come la genuina tradizione Vibram tenga ancorata l’intera azienda ad una dimensione familiare. “È tutto unito, qui”, affermano coralmente gli esperti calzolai impegnati sia nella formazione di una nuova generazione di colleghi specializzati, che nella presenza attiva in occasione di manifestazioni sportive, vissuta a bordo dello speciale Mobile Truck di cui dispongono: “Abbiamo la sensazione che tutti i settori dell’azienda lavorino insieme. Vibram è un blocco unico, ognuno si sente coinvolto. Questo è un pregio insito nell’azienda fin dai suoi albori. Il nostro compito è quello di legare una pratica classica al nuovo corso delle cose. Il mercato della riparazione delle suole si è evoluto enormemente negli ultimi decenni e i nostri prodotti hanno giocato un ruolo chiave in questo sviluppo trasversale. Non è un caso che parte del nostro lavoro sia dedicato all’insegnamento. Al momento abbiamo certificato circa 200 calzolai premium sul suolo italiano: tutte figure preparate nella riparazione delle suole Vibram. Ma i nostri corsi sono ramificati in tutta Europa e in altri continenti, come Africa e Asia…”.

E la pratica di risuolatura è un sinonimo di sostenibilità: altro fondamentale pilastro della vision Vibram, che avevamo già avuto modo di esplorare e conoscere in occasione dell’evento organizzato congiuntamente con NNormal (rivoluzionario brand spagnolo legato al già menzionato Kilian Jornet) per celebrare la campagna ‘Repair if you Care’, lanciata quest’anno. Dare una seconda vita alle scarpe significa ridurre la produzione di rifiuti e il loro impatto sull’ambiente, aveva spiegato in quell’occasione lo Sport Innovation Global Director Vibram Jerome Bernard. Dare una seconda vita alle scarpe, significa fornire un servizio alla natura e perseguire concretamente l’approccio ‘The Sustainable Way’: parte integrante e costitutiva del pensiero Vibram, che oggi si sta espandendo in tutto il mondo, grazie ad un sempre più folto network di calzolai specializzati.

È un’onda gialla, quella di Vibram. Una propagazione d’intenti e volontà ormai giunta ad ogni latitudine del globo. Se lo storico polo di Albizzate risulta ancora essere il cuore pulsante del marchio dal logo ottagonale, l’intero universo outdoor è ormai divenuta la sua apolide patria. Una patria dove esportare conoscenze secolari, sofisticati avanzamenti e sensibilità ambientale: connubio cruciale per garantire una coscienziosa sicurezza a chi del mondo outdoor fa il proprio, adrenalinico, palcoscenico sportivo, ma anche a chi ne sta sempre più facendo la propria, rilassante, seconda casa. Suola dopo suola.

Testi di Gianmarco Pacione

Photo credits: Riccardo Romani


Il running è famiglia al Tuscany Camp

Grazie ad On abbiamo scoperto un polo d'eccellenza atletica e sociale nel cuore della Toscana

Il re dei best seller Haruki Murakami scriveva di correre nel vuoto, o meglio, di correre per raggiungere il vuoto. Evidentemente la sua penna, e le sue gambe, non hanno avuto la fortuna d'incrociare la Val di Merse e la struttura d'eccellenza Tuscany Camp. Perché queste colline toscane raccontano un tipo di corsa diametralmente opposto: una corsa piena, traboccante di colori e natura, di storia e arte, di culture e rapporti umani. Basta percorrere una manciata di metri dall'antico borgo di San Rocco a Pili per raggiungere l'utopico microcosmo podistico teorizzato da Giuseppe Giambrone, oggi Director ed Head Coach del Camp, e supportato dalla rivoluzionaria vision di On.

Mohamed Amin Jhinaoui
Giuseppe Giambrone

“È il miglior posto al mondo per allenarsi”, confida il 26enne tunisino Mohamed Amin Jhinaoui, recentemente capace d'infrangere due record nazionali sui 3000 metri piani e siepi. E risulta impossibile contraddire le sue parole, specie osservando l'affrescata villa Settecentesca che, dal lontano 2014, è divenuta fucina di medaglie internazionali e talenti eterogenei per provenienza, status ed età. “Sono qui da due anni e sono felice”, prosegue il mezzofondista nordafricano, attualmente alla ricerca di un podio olimpico, “Coach Giambrone è sempre con noi, parliamo moltissimo. È stato lui a scoprirmi durante un meeting in Italia e a portarmi in Toscana. Qui ho trovato la serenità. Siamo una grande famiglia di runner che arrivano da ogni dove e condividiamo ogni cosa... A partire dalle molte lingue diverse, che stiamo imparando giorno dopo giorno. Il costante sostegno del coach, sommato a quello di On che, da un lato, ci garantisce la possibilità di avere scarpe e vestiti e, dall'altro, di crescere e lavorare serenamente, hanno creato un contesto unico per migliorarsi”.

Una bolla papale. Una piscina con tapis roulant. Una statua napoleonica. Una vasca crioterapica. Una palestra d'avanguardia circondata d'antiche volte a vista. Il Tuscany Camp si schiude come il più atipico degli scrigni sportivi: pare la funzionale fusione di epoche distanti, rese affini dall'intuito di Giuseppe Giambrone. Scout e creatore di talenti, Giambrone in questa struttura ha maturato la funzione di saggio pater familias, come dimostra il sincero attaccamento dei 25 runner che, in questo momento, vivono sotto il suo stesso tetto. “La mia idea è sempre stata quella di abbinare un service di altissimo livello, fatto di strutture e assistenza sanitaria d'eccellenza, ad un clima familiare, di tranquillità: un luogo dove tutti si aiutano, vivendo collettivamente gioie e difficoltà. Ho sempre pensato che questa combinazione potesse essere la chiave del successo. Per raggiungere risultati è necessario l'equilibrio, ed è altrettanto necessario stare con i piedi per terra...”.

All'ombra del Monte Amiata, zona d'allenamento complementare alle campagne senesi, c'è chi cucina e chi lava i piatti, c'è chi fa i compiti e chi attende il prossimo grande evento internazionale. Ogni runner si estrae dalla propria condizione sportiva, risultando semplicemente un essere umano. “Spesso il metodo più semplice è quello che funziona meglio. Serenità e collettività. Tutto ciò che viene prodotto da questi capisaldi è una naturale conseguenza, ed è un motivo d'orgoglio per tutti noi”, prosegue Giambrone, utilizzando il suo profondo legame con il continente africano e, in particolare, con l'Uganda, per descrivere le qualità ricercate e sviluppate in ogni allievo, “Forza di volontà, perseveranza e testa. Negli atleti ricerco queste caratteristiche, prima della tecnica. Il nostro lavoro quotidiano, poi, deve permettere loro di crescere atleticamente, ma anche da un punto di vista relazionale e culturale”.

Yves Nimubona
Lionel Nihimbazwe

Il maratoneta campione mondiale Victor Kiplangat è solo un esempio di questo sistema virtuoso: un sistema atletico, scientifico ed empatico, che Giambrone ha deciso di fondare sulla gestione dello stress e sulla reazione alle criticità, oltre che sulla percezione dello sforzo, specie in relazione ai suoi giovani atleti italiani. “Con i ragazzi di scuola 'occidentale' provo a ricreare la giusta motivazione. È un aspetto psicologico cruciale, che possono osservare in molti degli atleti africani che si allenano al loro fianco. Il nostro è un sistema ambivalente, dove i giovani possono imparare tantissimo dai campioni affermati, e i campioni affermati, a loro volta, possono tenere la testa sulle spalle, condividendo la quotidianità con questi studenti del running. Il mio desiderio è che a partire dai 16, 17 anni maturino la consapevolezza che una gara non è mai realmente finita, e che qualsiasi tipo d'imprevisto può essere gestito. Durante gli ultimi campionati italiani di corsa in montagna, per esempio, ho fatto correre i miei atleti con le suole lisce: so che per loro è stata una tortura, ma cadendo ripetutamente hanno compreso che ci si può e deve rialzare, che bisogna avere la forza di reagire”.

Francine Niyomukunzi
Oscar Chelimo

Gli insegnamenti, le teorie e le proiezioni future di Giambrone, però, non potrebbero concretizzarsi senza l'aiuto di On. È l'allenatore stesso a confidarlo poco prima di cominciare una run di gruppo, parlando di una sinergia con il brand svizzero che va ben oltre il semplice concetto di sponsorizzazione, trascendendo nella commistione d'intenti: “Il supporto di On è fondamentale per svariati motivi. C'è la parte più diretta, quella economica, che mi permette di tenere qui atleti che, fino a qualche tempo fa, dopo i primi successi sarebbero stati 'portati via' da altre realtà con maggiore potere di mercato. Poi c'è l’influenza positiva sulla mia attività di talent scout e allenatore, perché On garantisce al Tuscany Camp la possibilità di far crescere gli atleti, di farli vivere correttamente, di farli sviluppare in senso generale, mandandoli a scuola, fornendogli materiale tecnico e ogni tipo di assistenza, e facendo provare, anche ai più giovani, esperienze in meeting internazionali. E credetemi, nulla di questo è scontato nell’atletica contemporanea. Prima del legame con On l'intero progetto era autofinanziato, e non era semplice, ora invece posso lavorare in ciò che credo nel migliore dei modi”.

Testi di Gianmarco Pacione

Photo credits: ON


Esplora, scoprire il Nepal per scoprire noi stessi

Bikepacking, arti visive e sensibilità sociale: il virtuoso viaggio nepalese supportato da Briko

Esplora è un invito. È l'invito di un gruppo di creativi italiani accomunati dalla passione per il mondo outdoor e dalle sue trasversali ramificazioni. Esplora è un consiglio. È il consiglio di un pool di giovani comunicatori a spalancare orizzonti individuali e collettivi, fondendo arti visive ed esperienze introspettive in luoghi mistici, come il Nepal. Si dice che questa piccola porzione d'Asia sia l'epitome della bellezza naturale e della ricchezza culturale, e all'interno dei suoi atavici confini il Team Esplora, aiutato dalla pragmatica saggezza dell'esperto avventuriero Giuseppe Papa, affronterà una traversata lunga 1200km, inasprita da quasi 25000 metri di dislivello. Amplificata e supportata dalla vision Briko e dal suo materiale tecnico, quest'impresa metterà in rima siti iconici, come l'albero della Bodhi, oasi dove il principe Siddharta raggiunse l'illuminazione, e vie mitologiche, come il temuto Thorung La, il passo più elevato del pianeta. Le voci di Marco Ricci e Davide Ciarletta, i due membri Esplora che affronteranno questo viaggio multidimensionale, introducono un itinerario fisico, mentale e documentaristico, che seguiremo al fianco di Briko.

Universo outdoor e arti visive: una combinazione che negli ultimi tempi sta assumendo sempre più forme e significati. All'interno di questa dinamica globale, come e quando Esplora è diventato un progetto concreto?

“Esplora è nato per sincronia. Tutti noi siamo appassionati di bici e praticanti di vecchia data, ci piace vivere esperienze e fare lunghi viaggi. Nel tempo abbiamo compreso cosa voglia dire far fatica e dove possa condurre la fatica stessa. Il nostro primo, vero passo verso il progetto Esplora è stato sull'Alta Via dei Monti Liguri. Ci conoscevamo già, ma durante quel viaggio collettivo abbiamo notato come stessimo creando dei contenuti paralleli e affini, così abbiamo deciso di prendere una direzione comune. Il nostro obiettivo è condividere le esperienze, perché la condivisione è ciò che ci rende umani, ed è consigliare chi ci circonda e osserva ad uscire dalla propria comfort zone: a scoprire cose fuori e dentro sé stesso. In fondo siamo convinti che ogni luogo possa cambiare un essere umano nel profondo”

Il Nepal come s'inserisce in questo vasto ragionamento? Cosa vi ha attirato e stimolato di questo magico Paese?

“Anche qui è stato tutto casuale. O meglio, il caso non esiste, diciamo che si sono uniti dei puntini che erano destinati ad incontrarsi. All'ultima Fiera del Cicloturismo di Bologna abbiamo dialogato con l'esploratore Giuseppe Papa, incuriositi dalle sue foto scattate in Patagonia, Islanda, Kirghizistan e infinite altre parti del mondo. Dopo una decina di minuti, con la sua caratteristica genuinità espressiva, ci ha invitato ad attraversare il Nepal al suo fianco. È stato qualcosa di speciale. Siamo onorati di scoprire questa nazione insieme ad una persona estremamente competente, che ci donerà parte di una ricca esperienza, maturata in 47 anni di vita ed esplorazioni. Ci sentiamo al sicuro e siamo consapevoli che Giuseppe ci aiuterà a trasformare i problemi in avventure. Pensate che attualmente è in India, sta pedalando a 4300 metri con il suo socio Luca, ed entrambi ci raggiungeranno sul confine nepalese. In generale siamo ovviamente attratti dal Nepal, dalla storia e dalla cultura primordiale di questo Paese, e i nostri contenuti cercheranno di narrare e sublimare tutto questo”

Con quali aspettative, certezze e, ovviamente, naturali incertezze state approcciando questa lunga e provante impresa?

“Copriremo 1800km in una quarantina di giorni: non è una sfida impossibile, ma è sicuramente inasprita dagli oltre 1000 metri di dislivello quotidiano. Il nostro bikepacking prevederà, come spesso capita, anche molti momenti di hiking con la bici trascinata a mano, che richiederanno molte delle nostre energie. Contemporaneamente gireremo un documentario, quindi da un lato dovremo portare la pesante attrezzatura con noi e, dall'altro, approcceremo il viaggio con uno spirito non competitivo. I progetti Esplora non ruotano attorno alla performance, la nostra filosofia è puramente creativa ed esperienziale. A livello fisico faremo sicuramente fatica, ma siamo allenati e, grazie al sostegno di Giuseppe, riusciremo ad affrontare le varie incognite che affioreranno strada facendo: dalle temperature, che per il momento non riusciamo a conoscere con precisione, alle azioni più pragmatiche, come i pasti e le notti in tenda”

La connessione con Briko giocherà un ruolo fondamentale su vari fronti, permettendovi d'indossare del materiale funzionale, di veicolare i contenuti ad un ampio pubblico e, conseguentemente, di sensibilizzarlo riguardo la funzione sociale di questo viaggio. Quanto è importante questo legame?

“Siamo decisamente felici, perché riteniamo sia un'attivazione genuina. Ci siamo trovati da subito in sintonia con l'entourage Briko e stiamo ricevendo il massimo supporto sia da un punto di vista espressivo-creativo, che di ricerca del prodotto. Tutto l'apparel bike che indosseremo in Nepal sarà Briko. L'equilibrio fisico giova alla mente, e l'abbigliamento gioca un ruolo fondamentale in viaggi di questo tipo: essere a proprio agio con i giusti materiali è semplicemente essenziale. L'avere un audience maggiore, invece, ci permetterà di condividere i nostri punti di vista, i nostri stati d'animo e il desiderio, nel nostro piccolo, d'incidere concretamente sulle nuove generazioni nepalesi. Abbiamo lanciato la prima campagna di crowdfunding Esplora e parte dei soldi confluiranno nelle opere del VISPE, ente impegnato nel sostenere la sanità e l'istruzione di Paesi in difficoltà, tra cui il Nepal. La cifra raccolta verrà utilizzata per finanziare la ristrutturazione di un asilo e, allo stesso tempo, servirà per promuovere il documentario, con la speranza che possa sensibilizzare quanti più spettatori. Infine, i primi 50 donatori riceveranno uno speciale libro fotografico del viaggio, stampato insieme alla cooperativa sociale legnanese La Mano, che da anni offre opportunità di lavoro a persone affette da varie disabilità”

Il tempo stringe e la partenza è dietro l'angolo. Quali sensazioni vi attraversano in questo momento?

“Nell'ultima settimana la tensione è salita, ma è la tipica sensazione che anticipa un grande viaggio. Siamo stimolati dallo sviluppo della traversata e del nostro concept documentaristico. Siamo anche sicuri che ci vorrà almeno una settimana per prendere il giusto ritmo e raggiungere il corretto equilibrio tra gli spostamenti e la creazione di contenuti... In fondo è una prima volta per noi, sotto tanti punti di vista, e non possiamo che essere eccitati”

Credits:

BRIKO

ESPLORA


Giovanna Selva, il running è bidimensionale

Grazie allo Spikes Tour, abbiamo intervistato la talentuosa mezzofondista e brand ambassador HOKA

La corsa di Giovanna Selva è diretta e cristallina, priva di manierismi contemporanei, come il suo pensiero. Nata il 17 settembre 2000 ad Ossola, cresciuta nel piccolo centro di Druogno e tra le valli che legano dolcemente Italia e Svizzera, questa mezzofondista pare l'incontaminato manifesto dei suoi territori.

Incontriamo le parole di Giovanna, già a podio negli Europei di Cross U23 e nei Mondiali Juniores di corsa in montagna, sulla pista di Alzano Lombardo, dove è protagonista dello Spikes Tour organizzato da HOKA: evento itinerante che permette ai giovani atleti di varie città italiane di scoprire e testare le scarpe chiodate Cielo X2 MD e Cielo X2, ultime innovazioni da pista del brand nato sulle Alpi Francesi, non troppo distante dai luoghi dove ha avuto inizio la storia di Giovanna.

"La mia storia con la corsa nasce grazie allo sci di fondo e, purtroppo, a causa del cambiamento climatico... Il fondo mi ha permesso di conoscere l'atletica, perché gli allenamenti variavano in base alla stagione. Poi la neve è scomparsa dalle 'mie' montagne e ho dovuto fare una scelta, optando per il running. All'inizio le sensazioni erano un po' altalenanti, ma i tecnici che ho incontrato mi hanno fatto innamorare di questo sport, introducendomi alla tecnica e alla pista, dove sono entrata per la prima volta a 15 anni. Sono sempre stata ispirata dalle persone che mi stavano vicino, non dai grandi atleti. Parlo di mia madre, ex fondista, mio padre e mia nonna, che ancora oggi, a 83 anni, porta avanti il suo bar senza fermarsi un secondo. Non pensavo potessi avere una vera e propria carriera, ma quando mi sono classificata terza ai Campionati Italiani di corsa in montagna ho realizzato che qualcosa, in fondo, si poteva fare. Quel podio mi ha automaticamente qualificata ai Mondiali. L'ho scoperto a gara conclusa e mi sono quasi scusata con il selezionatore, ricordo di avergli detto che non mi sarei offesa se avesse deciso di non portarmi..."

Nonostante il tartan non sia la sua casa natia, Giovanna sta evolvendo la propria parabola tanto a contatto con la natura, quanto tra le corsie, segnando ciclici personal best e abbattendo muri dopo muri, come dimostra la recente discesa sotto i 33 minuti sui 10km. Un'evoluzione ibrida e vertiginosa, che passa dal raffinamento tecnico, ma anche dallo studio della propria mente e delle proprie sensazioni.

"Nei boschi vicino casa ho iniziato a correre, in quegli ambienti ho sentito e continuo a sentire i miglioramenti del mio corpo. Ci torno spesso da sola. Lì vivo gli allenamenti come una forma d'esplorazione: cerco nuovi sentieri, ammiro animali di tutti i tipi, la mattina presto anche i cerbiatti, e ascolto le mie gambe mentre spingono in salita. Nei boschi si sente sempre qualcosa in più. È come se fossi sempre alla ricerca di qualcosa... In pista è tutto diverso. Se nei boschi mi stimola il senso di libertà, nella pista amo invece la cura della precisione, il rapporto spazio-tempo e il fatto che non ci sia margine d'errore. Ho 23 anni e sono consapevole di essere nel pieno di un processo di maturazione tecnica e mentale. Sono solo all'inizio, immagino sarà molto lungo"

Oltre ai pilastri portanti del proprio presente e futuro podistico, Giovanna sta sviluppando anche una carriera lontana dai tempi e dai traguardi, ma non dalle pressioni, come studentessa di Medicina. È difficile essere un'atleta di spessore internazionale e, contemporaneamente, immergersi sui libri o nelle sale operatorie, ma non è impossibile, ci spiega con una saggezza lineare, rifuggendo immediatamente il concetto di role model.

"Ho sempre voluto iscrivermi a Medicina. Quando l'ho fatto non avevo ancora raggiunto questi livelli sportivi. Adesso è tutto abbastanza complesso. Ho appena concluso due settimane di tirocinio e sono stati giorni di fuoco: mi svegliavo, mi allenavo, stavo in ospedale tutto il giorno, mi allenavo per la seconda volta e andavo a letto. Mi sono fatta il mazzo, ma ogni sera ero euforica. Credo non esista sensazione paragonabile alla massima stanchezza: quella stanchezza che ti fa desiderare di andare a letto e di ricominciare daccapo il giorno seguente. Mai ho pensato di poter ispirare qualcuno con la mia 'doppia vita', ultimamente però stanno succedendo tante piccole cose che mi permettono, giorno dopo giorno, di comprendere quanto le persone tengano a me. Quando dei bambini mi chiedono l'autografo, per esempio, o mi parlando delle loro esperienze, sento un misto di responsabilità e motivazioni"

E queste scene si ripetono anche ad Alzano Lombardo, dove una folta community di atleti locali ha la possibilità di condividere le nuove scarpe chiodate HOKA con questo affabile talento Azzurro. Il mondo bidimensionale di Giovanna, in equilibrio tra boschi e piste, carriera sportiva e accademica, si divide anche tra sforzi individuali e condivisione collettiva.

D'altronde non può esistere il running senza il gruppo, conferma la mezzofondista facendo riferimento al Seve Team, squadra piemontese con cui condivide gran parte del suo lavoro settimanale. Così come non può esistere la performance senza la giusta scarpa, aggiunge appena prima di lanciarsi in un affollato allungo, plaudendo l'opera di sensibilizzazione del brand che rappresenta.

"Il collettivo nel running è fondamentale. La presenza di altre persone mi aiuta in fase d'allenamento, soprattutto quando devo svolgere lavori che non riuscirei mai a fare da sola, ma anche prima e dopo la pista. Non siamo solo atleti, siamo persone. Gli scherzi, gli spuntini e le chiacchierate mi fanno venire voglia di continuare a correre anche quando sono stanca o acciaccata... Il Seve Team è tutto questo per me, e sono felice che HOKA abbia recentemente deciso di supportare questa squadra della mia terra. Non sono sorpresa, perché la sensibilità del brand nei confronti delle community è incredibile. Legarmi ad HOKA è stato un passo enorme, che mi ha fatto sentire importante. Partecipare ad eventi come lo Spikes Tour, invece, mi rende semplicemente felice: sensibilizzare e sviluppare le conoscenze dei giovani atleti è un qualcosa di prezioso. La scarpa è l'unico prodotto essenziale per ogni corridore, e in un mondo di marketing online è cruciale testare e comprendere le caratteristiche delle tue 'compagne' di corsa, a maggior ragione se si tratta di scarpa di chiodate. HOKA è vicina ai runner, e sono felice di poterlo essere anch'io"

Thanks to HOKA

Testi di Gianmarco Pacione

Photo Credits: Riccardo Romani


All Roads Lead to Rome, and to FILA

Ritratto della social run FILA che ha unito passato e futuro nella Città Eterna

L’innovazione nella storia. La storia nell’innovazione. Non esiste dualismo migliore per definire l’evento All Roads Lead to Rome, organizzato da FILA nel cuore della Città Eterna. Un itinerario podistico e culturale plasmato dalla volontà di celebrare una generazione di running shoes fedele al passato, ma tesa verso il futuro: consapevole evoluzione di un brand iconico, racchiusa nei nuovi modelli ASTATINE e ARGON.

Per affrontare le incognite di una scena in costante sviluppo sono necessarie certezze, e le certezze del rapporto tra FILA e l’universo running appartengono ad una legacy fatta d’invenzioni tecnologiche ante litteram. Lo dimostra, per esempio, la piastra in carbonio ideata nei lontani anni ’90 e riproposta in nuove vesti all’ombra del Colosseo, dove ciò che è stato continua ad essere. Proprio come in FILA.

“Roma è l’ambientazione perfetta per questa social run”, racconta Stefano, uno dei tanti runner locali che hanno preso parte a quest’esperienza sospesa nel tempo e nello spazio, popolandola di collettività contemporanea, “Sono convinto che la connessione tra tradizione e progresso sia una colonna portante della nuova vision running di FILA, e questa connessione si riflette qui, in una community giovane che corre sulle stesse strade che furono di Giulio Cesare. Sembra un cliché, ma correre nel centro di Roma è veramente qualcosa di diverso…”.

Da Piazza del Popolo all’Ara Pacis. Dalla Fontana di Trevi a Piazza di Spagna. Per 6 affascinanti chilometri i secolari sampietrini romani si sono colorati di parole affannate, beat ritmati e sgargianti colori FILA, meravigliando e coinvolgendo folle di turisti accorsi in adorazione della Dolce Vita. A narrarcelo è Lisa Gustavsson, Pr Manager Europe FILA e partecipante attiva della run: “È la mia prima volta a Roma, e non c’è mezzo migliore della corsa per esplorare e vivere una città che non si conosce. Farlo insieme ad una community, poi, restituisce energie uniche. Molti turisti lungo la strada ci hanno supportato, era come se fossero parte della run, sono stati dei bellissimi momenti di partecipazione spontanea. Penso sia fantastico conoscere community locali, creare nuove connessioni e provare insieme a loro i nostri prodotti. Stiamo organizzando eventi analoghi in tutta Europa, ma essere qui, per un brand dall’heritage italiano, ha un particolare valore simbolico…”.

“Sui social comunico quotidianamente con runner di ogni dove: tutti stanno notando il lavoro di networking FILA. Presentare una scarpa e farla testare a collettivi di runner è un’equazione vincente”, le fa eco Marco Di Matteo, runner abruzzese da lungo tempo adottato da Roma, “Molti pensano che il running sia uno sport individuale, ma non è così. L’aggregazione assume sempre un ruolo centrale. Il running mi ha dato e mi continua a dare, come stasera, la possibilità di conoscere persone di qualsiasi zona di questa città che, per me, è la più bella del mondo. Le sue strade raccolgono storie e culture che si sono sedimentate, stratificate e fuse nei secoli… Poterle vivere appieno, facendo ciò che più amiamo, è impagabile. L’evento di questa sera dimostra come qui si possano organizzare run e, addirittura, maratone culturali, impostando i percorsi in base ai monumenti e alle meraviglie cittadine”.

Nei pensieri al sapore d’amatriciana dei tanto provati, quanto eccitati runner, ospitati a fine corsa dalla tipica trattoria Rocco, si sublima il rapporto tra l’identità cittadina e l’identità FILA. A testimoniarlo è la romana Carlotta Porqueddu, che conferma la rilevanza di ‘All Roads Lead to Rome’ prima di rituffarsi nell’animata chiacchiera comune: “Mi piacerebbe trovare sempre più eventi del genere a Roma, la forza aggregativa di run come questa è incredibile. Sono felice che tutto questo sia stato ideato da FILA. Ho scoperto recentemente la ricca storia dell’azienda nel running, e mi stimola il fatto che ora stia riportando in auge tecnologie che per prima ha brevettato… Testare queste scarpe nella città in cui correrò per sempre è particolarmente bello. Roma per me è casa, quando corro nel suo centro storico mi sento accolta, abbracciata. Sono sempre meravigliose sensazioni”.

Grazie a: Fila Europe & We Are Busy

Testi di Gianmarco Pacione

Photo Credits: Riccardo Romani


The Beautiful Game

Celebriamo la galleria di popoli, emozioni e sacri rituali calcistici insieme ad Imago

“Il gioco del football è un sistema di segni; è una lingua, sia pure non verbale”, diceva l’oracolare scrittore italiano Pier Paolo Pasolini. La lingua del calcio è una lingua unica, capace di evolvere e mutare stagione dopo stagione, è un idioma cosmopolita e trasversale, imparato tra i gradoni dello stadio e nelle piazze di ogni paese, è un dialetto elevato e popolare, dove morfologia e sintassi assumono la forma di sciarpe e bandiere. Nel controverso teatro del calcio contemporaneo pochi attori restano puri e incontaminati: sono il cuore pulsante di uno sport globale e globalizzato, sono i tifosi. Insieme ad Imago abbiamo selezionato 10 immagini per celebrare la vasta e multiforme danza umana del calcio, creando una galleria fotografica che, da un lato, ripercorre alcune delle tappe più importanti dell’ultima stagione e, dall’altra, affresca l’eterna simbiosi tra gli esseri umani e il pallone. Abbiamo chiesto ad ogni fotografo di descriverci emozioni e sensazioni connesse a queste opere d’arte calcistiche. Questa è la galleria ‘The Beautiful Game’. Questa è la galleria ‘The Beautiful Game’, prodotta in sinergia con The Game Magazine by Imago.

IMAGO / Ricardo Nogueira
IMAGO / Marjam Majd

Ricardo Nogueira

“Ho scattato questa immagine circa mezz’ora dopo il fischio finale valso a Leo Messi la prima Coppa del Mondo. Ero sugli spalti, in alto rispetto al campo di gioco. Sapevo che, fotograficamente, la “partita” non era ancora finita. La stella della serata e il miglior giocatore degli ultimi tempi doveva ancora vivere il proprio momento di gloria. Così, mentre montavo il materiale prodotto al computer, di tanto in tanto sbirciavo con gli occhi per cercare di capire quando e come Messi sarebbe apparso per sollevare da solo la Coppa del Mondo. E il momento è arrivato: in mezzo al mare di persone che si trovavano sul prato, c’era il 10 con la coppa in mano. Credo che questa immagine abbia molto a che fare con il concetto di Beautiful Game, perché sintetizza la gloria e la realizzazione del sogno di un atleta, ovviamente rappresentato da Leo Messi, e anche quello di un’intera nazione, rappresentato dai tifosi che lo circondano”

IMAGO / Hester Ng

Hester Ng

“Nella storia del calcio ci sono innumerevoli momenti memorabili. Durante la Coppa del Mondo del Qatar, ce n’è stato uno particolarmente indelebile: quando il Marocco ha sconfitto il Portogallo e si è guadagnato un posto in semifinale. È stata la prima semifinale raggiunta nella storia da un Paese africano. Ero a Londra, dove i tifosi marocchini provenienti da diversi contesti si sono riuniti per festeggiare. La gioia e l’entusiasmo mostrati trascendono la nazionalità, la razza e la lingua, sottolineando che lo sport ha la capacità unica di unire tutti. Ho voluto celebrare il Beautiful Game, esemplificando il fascino universale e la portata globale di questo sport. Lo sport cancella barriere e promuove un senso di appartenenza tra individui di diverse culture e continenti. Questo momento incarna il vero significato e il potere del calcio, dimostrando come la sua passione e il suo spirito non conoscano confini”

IMAGO / Antonio Balasco

Antonio Balasco

“Sotto il murale di Maradona a San Giovanni a Teduccio si respira un’atmosfera unica. Quell’immagine è più di un semplice dipinto su un muro, è un santuario che incarna la passione e la devozione di un’intera comunità. È un simbolo tangibile dell’ispirazione che Maradona ha dato al mondo intero con la sua magia e il suo talento. È un richiamo irresistibile per i cuori di chi crede nel potere dello sport di unire, emozionare e trasformare. Sotto quel murale, la gente si riunisce per celebrare non solo la grandezza di Maradona come calciatore, ma anche la sua umanità: non a caso l’artista Jorit lo definisce un dio umano. È un momento in cui le differenze si dissolvono e tutti si uniscono nella gioia e nell’ammirazione per un uomo che ha lasciato un segno indelebile nel calcio e nella vita di milioni di napoletani e argentini. La presenza di quel murale testimonia che il Bel Gioco va oltre i risultati sul campo. È la bellezza dell’espressione artistica, della creatività e della capacità di ispirare. Ricorda la purezza dell’amore per il calcio e per Diego Armando Maradona, nel giorno del suo compleanno”

IMAGO / Antonio Balasco

Antonio Balasco

“La celebrazione del terzo scudetto del Napoli è un momento carico di significato e di potenza nel mondo del calcio, il Napoli la scorsa stagione ha espresso a mio avviso il gioco più bello d’Europa. Le immagini sacre dell’altare rappresentano la fede e la spiritualità che accompagnano il popolo napoletano nel suo cammino. L’incontro tra sacro e profano è molto sottile a Napoli. Ogni scudetto è un trofeo vinto con impegno, sacrificio e talento, e simboleggia il raggiungimento di un obiettivo che sembra sempre impossibile. Le strade si riempiono di tifosi festanti, abbracciati nella felicità ed emozione, creando un’atmosfera unica di magia e di unione. Questa festa, con il suo mix unico di spiritualità e sport, rappresenta un momento di gioia e di gratitudine”

IMAGO / Leandro Bernardes

Leandro Bernardes

“La morte di Pelè, uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, dopo una coraggiosa lotta contro il cancro, ha segnato un capitolo cupo nella storia del calcio. Tuttavia, la sua eredità durerà in eterno. Per rendere omaggio al profondo significato di Pelè, ho dedicato tre giorni alla realizzazione di un tributo simbolico intorno allo Stadio Vila Belmiro (sede del Santos FC). Il mio obiettivo era quello di esprimere al mondo l’immenso amore della gente per Pelè. Le maglie che ho creato sono state acquistate in diverse strade di Santos e sono andate rapidamente esaurite”

IMAGO / Michael Erichsen

Michael Erichsen

“Volevo immortalare alcuni dei tifosi sugli spalti prima di questa decisiva partita. Se l’Örgryte IS (squadra svedese) avesse perso, sarebbe retrocesso, quindi l’atmosfera nello stadio era intensa e carica di emozioni. Un paio di tifosi mascherati con fumogeni hanno attirato la mia attenzione. Il fumo ha creato una bella cornice intorno a loro, contribuendo a creare un’atmosfera emozionante. Credo che questo momento racchiuda la passione di questi tifosi per il proprio club e l’amore per il gioco, che si esprime in tutto quello che possono dare sugli spalti”

IMAGO / Zabed Chowdhori

Zabed Chowdhori

“In Bangladesh ci sono dei fan calcistici che rasentano la follia. La gente celebra le partite della Coppa del Mondo come un festival. In molti luoghi del nostro Paese si guardano le partite raccogliendo soldi dagli abitanti della zona per installare dei proiettori. Ma in altri luoghi, come questo, molte persone vengono da diverse località per guardare le partite di calcio in diretta su un grande schermo. Ho scelto questo posto perché era il più affollato. Differenti classi sociali si assiepano per guardare le partite insieme. Questo è il momento più bello, in cui cessano di esistere differenze sociali, religiose o politiche. Si vedono solo amanti del calcio che ridono e piangono insieme. Si guardano tutte le partite, ma ho scelto di seguire l’Argentina per mostrare la pazzia di questi appassionati, attirati da Messi e compagni. La loro follia o, per meglio dire, l’amore per il calcio della gente del mio Paese mi ha ispirato a catturare questo momento”

IMAGO / Alejo Manuel Avila

Alejo Manuel Avila

“Il calcio è una religione scelta, il calcio si gioca con i piedi e si vive con il cuore. È il ritratto di una passione inspiegabile. Sudore, denti digrignati e gole che scoppiano quando la squadra realizza il sogno di un’intera società, segnando un gol… Quando questo accade, le urla diventano un tutt’uno e la gente leva gli occhi al cielo. Il calcio argentino vive di quest’illusioni, rappresentate dalla mistica dell’Albiceleste. Il calcio in questo Paese occupa le prime pagine dei giornali, definisce l’umore del lunedì, incoraggia i sogni, regala abbracci. È un’espressione genuina dell’identità argentina, è un grido che definisce tutto, limitando tutto il resto: gli occhi e i cuori si posano semore lì, dove il pallone rotola”

IMAGO / David Klein

David Klein

“Trovo che il senso di unione tra la squadra e i tifosi gallesi sia davvero evidente in quest’immagine. La nazionale aveva appena abbandonato il Mondiale, eppure il muro rosso ha deciso comunque di dedicare una serenata alla propria squadra, per dimostrare il proprio continuo e ineluttabile sostegno”.

Testi di Gianmarco Pacione

Photo Credits: IMAGO, Ricardo Nogueira, Marjam Majd, Hester Ng, Antonio Balasco, Leandro Bernardes, Michael Erichsen, Zabed Chowdhori, Alejo Manuel Avila, David Klein


Watchlist – Wrestlers

La nuova serie Netflix è un’ode al wrestling indipendente e alle sue irrazionali stelle

Quanti di voi conoscono la violenza glitterata WWE? E quanti di voi hanno assistito alla dinamica ascesa dell’AEW nella catena alimentare del wrestling? Probabilmente tutti voi avete incrociato, anche solo per un momento, una diretta televisiva di queste due potenze dell’entertainment. Ma chi tra voi ha mai assistito ad un pay-per-view della OVW, l’Ohio Valley Wrestling? Probabilmente nessuno. Perché questa lega indipendente è la storica sorella sfortunata delle grandi major del wrestling americano, è il paradiso dei puristi del ring e delle sue regole, tradizioni e leggende, è una fucina di talenti, che ha creato celebrity come John Cena, Randy Orton e Batista, ma è anche un’attività in equilibrio sul precipizio del fallimento.

La risurrezione economica di questa scalcinata, eppure affascinante promotion è al centro della serie ‘Wrestlers’, recentemente uscita su Netflix. L’avvento dei due businessman Matt Jones e Craig Greenberg ci permette di scoprire un universo parallelo, scritto e diretto dalla sola (impressionante) immaginazione dell’ex wrestler professionista Al Snow: un universo dove l’heritage conta più del profitto, dove la credibilità e l’ispirazione snobbano consapevolmente le leggi di mercato, e dove decine di atleti sognano di vivere grazie alla propria arte, collidendo spesso con una durissima realtà fatta di secondi lavori e difficoltà economiche. ‘Wrestlers’ è un’ode al wrestling indipendente e ai suoi eroi: esseri umani pieni di demoni, fratture emotive, contraddizioni familiari e passati controversi, che nell’adrenalina delle tre corde riescono a trovare risposte anche alle più complesse domande esistenziali.

Greg Whitley dirige una serie magica, che ci fa esplorare le tumultuose identità di performer di ogni dove (India compresa), così come la grande bellezza di una disciplina troppo spesso sminuita. Una forma d’arte che richiede tempi e qualità recitative. Un romanzo senza fine che cerca solo e unicamente la reazione dello spettatore e la sua fedeltà. Un teatro del dolore, plasmato da impatti acrobatici e interpretazioni tutt’altro che superficiali. ‘Wrestlers’ è una summa contemporanea di ambizioni, sacrifici, fallimenti e, soprattutto, irrazionale passione. La passione che spinge uomini e donne a sfidare i propri corpi e le proprie menti per vestire temporaneamente i panni di supereroi. Anche davanti a 30 persone. Anche per una manciata di dollari. Ecco perché ‘Wrestlers’ entra di diritto nella nostra Watchlist.

Credits
Netflix

Photo Credits
Gianmarco Pacione


Più di un’icona, semplicemente Beckham

La nuova serie Netflix ‘BECKHAM’ ci permette di celebrare un esteta, una celebrità e un calciatore di culto

Non c’è migliore occasione dell’uscita della serie Netflix ‘BECKHAM’ per omaggiare un’icona che ha lasciato un segno indelebile tanto nella storia, quanto nell’estetica calcistica. E oltre. La duplice immagine di Beckham, pittore di traiettorie geniali e pop star, centrocampista senza pecca e celebrità globale, ha a lungo spaccato l’opinione pubblica, ma mai ha lasciato dubbi sulla naturale potenza comunicativa del londinese adottato da Manchester e dai ‘Red Devils’.

Jorge Valdano scriveva che “Beckham è due persone in una: è una persona quando gioca e un’altra nella vita. Fuori dal campo, come certi uccelli della Patagonia, fa una cagata ad ogni passo. Ma durante i novanta minuti mostra doti di concentrazione, buona capacità di partecipazione, abnegazione, solidarietà e un tiro che riesce a indirizzare dove vuole”; Diego Armando Maradona si limitava invece a definirlo come “Un altro troppo carino per andare in campo. Anche se è molto preso dalla sua Spice Girl, qualche volta trova il tempo di giocare e lo fa bene, molto bene… Con il Manchester ha vinto tutto, ma deve qualcosa alla nazionale”. Due pensieri coincidenti, che definiscono l’essenza della meteorica ascesa dell’attuale Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico e proprietario dell’Inter Miami CF, oltre che multiforme imprenditore.

Perché Beckham fu contemporaneamente 7 e ‘Spice Boy’. 23 e ‘Galácticos’. Fu le Adidas Predator e il piano sequenza delle sue punizioni. I capelli biondo platino e l’evoluzione stilistica. Fu lo sbarco in Italia, Francia e USA. Fu una sensazione di bellezza. Una pubblicità ambulante. Victoria. Un vincente per ogni club. Un perdente per molti inglesi. Fu, semplicemente, uno degli atleti più influenti e ricercati dello sport moderno, una stella capace di modificare ogni legge di mercato e di demarcare un’intera era calcistica. Opera che sta continuando ancora oggi, definendo anno dopo anno i (anche controversi) capitoli di una legacy estetica destinata a durare per sempre.

La serie ‘BECKHAM’, diretta dal premio Oscar Fisher Stevens, spiega le origini e l’evoluzione di questo fenomeno di massa che, a 48 anni d’età, non ha ancora smesso di dettare canoni e trend. L’eredità di ‘Becks’, però, non è fatta di sole luci e successi, ma passa anche attraverso le umili origini, il lato oscuro della fama, la depressione e il personale disturbo ossessivo-compulsivo. Ogni perfezionista, in fondo, nasconde crepe. E ogni leggenda si crea attraverso difficoltà, incomprensioni, fallimenti e momenti di debolezza. Ora possiamo scoprire quelli di David Beckham.

Credits
Netflix

Photo Credits
Imago
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Testi di
Gianmarco Pacione