Behind the Lights – Cédric Dasesson
La Sardegna è una sensazione che solo un vero sardo può comprendere e ritrarre
"Non mi sento un fotografo, ma qualcuno che imprime qualcosa attraverso il mezzo fotografico. Non mi è mai interessato il concetto di sublime, ho sempre cercato la persona semplice; ho sempre voluto fotografare ciò che non è fotografabile, e il mare, sotto questo punto di vista, è un mondo a sé. Sono nato e cresciuto in Sardegna, ora sto resistendo in questa terra. Mi sono sempre trovato bene in un mondo fatto di solitudine, forse anche a causa del mio background sportivo. Ho iniziato fin da piccolo con l’atletica leggera, uno sport individuale, dove per essere agonista devi pensare continuamente a te stesso. Allo stesso tempo il mare è diventata la mia terra, un mondo dove ho potuto e posso ancora comprendere realmente me stesso: è un universo parallelo, fatto di silenzi e concentrazione, antitetico rispetto alla società che ci circonda”


È difficile descrivere l’anima sarda. È ancora più difficile ritrarla. Cédric Dasesson è lo pseudonimo di un isolano-ricercatore, è l’identità celata di un fotografo spinto dall’incessante necessità di documentare un regno atipico, ostile e acquatico, il regno sardo. La sua filosofia estetica assume i tratti di una forma di resistenza: la resistenza alla spettacolarizzazione artificiosa, alla cannibalizzazione della sua terra. Una resistenza che utilizza il medium fotografico come manifesto per l’accurato studio antropologico, architettonico e naturalistico di una regione unica per storia e morfologia.

“Ho studiato architettura qui, a Cagliari. Durante gli anni universitari McKenna e le sue lunghe esposizioni erano i miei punti di riferimento fotografici. In quel periodo ho deciso di pubblicare i miei scatti e di non utilizzare la mia vera identità sui social. Avevo un omonimo di fama globale e, dopo essermi confrontato con un professore, ho preferito prendere una strada artistica differente: volevo esistere senza esistere, creare una diversificazione mentale nella mia quotidianità, una divisione netta tra pubblico e privato. Vengo dalla scena del writing e la forma del tag, della firma irriconoscibile, era una sorta di forma mentis per me. Richard Long e Bill Viola hanno contribuito ad evolvere la mia visione riguardo il rapporto tra strutture architettoniche e paesaggio. Grazie ad Alec Soth, poi, ho compreso la funzione e l’importanza della ritrattistica umana: in tutto il mondo ci sono persone e identità da ricercare. Vivere in Sardegna mi permette di unire tutto questo, mi dà l’opportunità di lavorare sulla stereotipizzazione delle peculiarità regionali, di esprimere la testardaggine insita nel dna del nostro micromondo e di esplorare il concetto di sopravvivenza umana”



Dal tartan delle piste d’atletica alle acque del Mar di Sardegna. L’elemento sportivo ha plasmato l’identità di Cédric Dasesson e influisce in modo coerente sulla sua ricerca artistica. L’atleta davanti alla sua macchina fotografica cessa di essere tale, o meglio, cessa di essere definito da risultati e successi, regredendo (o progredendo) alla tanto semplice, quanto complessa condizione di essere umano connesso alla natura.

“Dopo tante operazioni per problemi legati all’atletica, mi sono dato al triathlon e il mio rapporto con le acque sarde ha subito un’ulteriore evoluzione. La mia produzione fotografica tocca il tema sportivo restando fedele ai capisaldi che ho già menzionato. Non ho interesse per le stelle sportive, sono affascinato dalle personalità di coloro che vivono in simbiosi con il mare: esseri umani che utilizzano lo sport come strumento per alimentare ed esplorare questo rapporto. Certo, mi è capitato di fotografare surfisti, windsurfisti o apneisti di fama mondiale, ma nella mia visione non c’è differenza tra loro e chi frequenta il mare per una passione viscerale. Allo stesso tempo sono affascinato dalla capacità umana di superare i limiti. In questo caso posso fare l’esempio di Ulisse Idra, base jumper e grande amico, a cui ho visto fare delle imprese incredibili. Una di queste ha creato la serie ’97 metri’. Ora sta recuperando da un grave incidente e spero che possa tornare a lanciarsi il prima possibile. Infine quando si parla di Sardegna mi rendo conto che non si possa parlare di calcio. In ogni paese c’è un campo. Anche in questo caso, però, la mia idea è che questa presenza calcistica non sia altro che l’ennesimo stereotipo della nostra terra. Una terra che esprime i propri saperi attraverso le proprie radici. Una terra in cui si pratica sport guardando il mare”



La resistenza di Cédric Dasesson pare destinata a continuare nel tempo e nello spazio. Lo stesso spazio, lo spazio acquatico e umano sardo. “Stare qua è una sfida”, confida, “Ma nella sfida cerco di realizzare un sogno”. Il sogno di narrare e sublimare la vera Sardegna.

Credits: Cedric Dasesson
Text by: Gianmarco Pacione
Behind the Lights – Celia D. Luna
Heritage e radici culturali, grazia e potenza femminile: il mondo variopinto della fotografa andina
“Le mie origini, la mia cultura e il rapporto con mia madre formano il background sia della mia identità artistica, che della mia identità umana. Sono tutti fattori veramente importanti. Mi considero una donna andina e tropicale, perché sono arrivata a Miami dal Perù. Sono due mondi che hanno in comune tanti colori. Il mondo andino e la sua gente, però, hanno subito e continuano a subire discriminazioni e forme di razzismo. Ecco perché attraverso il mio lavoro voglio modificare il rapporto con le unicità di questa cultura. Voglio mostrare la diversità e i valori di questa gente, voglio che smettano di vergognarsi delle loro radici”




Se volete immergervi in un uragano di colori ed echi culturali, osservate gli scatti di Celia D. Luna. Nella produzione fotografica di quest’artista andina, ormai adottato dalla Florida, si fondono antiche tradizioni, moderno folklore e contemporanee rivoluzioni. Perché le radici non possono essere dimenticate. Perché le radici devono essere elevate, diventando strumento di affermazione sociale e, specialmente nel caso di Celia, di empowerment femminile.


Ho scoperto la fotografia al college, ma all’inizio era solo una passione. Amavo e amo Tim Walker, perché riesce ad associare il fashion allo storytelling, tutti i suoi shooting raccontano qualcosa. Quando una mia amica mi ha chiesto di farle dei ritratti, ho capito che la fotografia poteva diventare molto di più nella mia vita. Con il passare del tempo questo medium artistico si è trasformato in un processo organico di esplorazione e scoperta di me stessa. La mia estetica gravita attorno ai colori e al desiderio di ritrarre soggetti atipici, che possano permettermi di raccontare storie reali, legate soprattutto alla mia terra natia. Sento delle responsabilità, perché voglio ritrarre e mostrare la cultura andina e il ruolo che le donne giocano all’interno di essa. Faccio le cose con il cuore e anche i lavori commerciali seguono questa filosofia: quasi sempre sono collegati alla sublimazione della forza e della grazia femminile. Amo il fatto che la mia fotografia abbia un significato e un valore sociale”


Nella variopinta galleria di Celia D. Luna l’elemento sportivo gioca un ruolo fondamentale nella comprensione e divulgazione della potenza femminile. È la piattaforma ideale per raccogliere testimonianze della moderna andinità e delle sue atipiche protagoniste, spinte dal desiderio di sollevare la propria condizione e, al tempo stesso, d’influenzare le future generazioni. L’heritage culturale va abbracciato e condiviso, comunicano le immagini di Celia, come nell’opera magna ‘Cholitas Bravas’, dedicata a coraggiose skater, climber e wrestler andine.


“Lo sport mi ha arricchito e ha arricchito il mio rapporto con le Ande. Le storie sportive hanno la capacità di toccare tantissime persone e d’ispirarle. Parlo per esempio del collettivo femminile boliviano Imilla Skate, che sta avvicinando tantissime bambine alla cultura ‘chola’, ai suoi usi e costumi, e alla tavola come forma d’indipendenza. Parlo delle climber che vivono le Ande come luogo punto d’incontro con le proprie madri, le loro esistenze e conoscenze. Parlo delle ragazze che dai primi anni 2000 hanno iniziato a praticare la lucha libre per proteggersi dagli abusi fisici: pioniere che hanno dato il là ad una tradizione che prosegue ancora oggi in Bolivia. La femminilità è forza, grazia e gentilezza, e lo sport non fa altro che evidenziare queste nostre caratteristiche”


Il prossimo step di questa celebrazione capace di unire patrimoni culturali e femminilità, sarà musicale. La cumbia colombiana è l’attuale indagine di questa fotografa peruviana, un nuovo tassello di un coloratissimo e virtuoso mosaico in divenire, dove tutto risulta significativo: anche il ballo liceale di una giovane figlia, consapevole simbolo di un avvenire che dovrà sempre ricordare le proprie origini.


Credits: Celia D. Luna
Text by: Gianmarco Pacione
Ted Hesser, l’abitudine sportiva combatte la depressione
‘Chains of Habit’ spiega come lo sport ad alta quota possa limitare demoni e fratture interiori
Tutto comincia da un antico detto e da un bambino che parla con il proprio nonno. Due lupi combattono, uno rappresenta il bene, la gioia, la positività, l’empatia, l’amore e la gentilezza; l’altro l’avidità, la gelosia, la paura. Il bambino chiede al nonno quale lupo vinca… E il nonno risponde: qualsiasi lupo tu voglia sfamare. Lo short film ‘Chains of Habit’ ruota attorno alle sfumature di questa potente metafora nativa, accompagnandoci nelle profondità emotive e psicologiche dell’alpinista, ultrarunner e creativo visuale Ted Hesser, spiegandoci come lo sforzo fisico possa limitare e contrastare la depressione.


“Avevo incontrato la metafora dei due lupi durante uno shooting nella British Columbia, mi sembrava perfetta per ritrarre e spiegare la depressione. È un’esperienza interiore, senti che qualcosa dà da mangiare a quel lupo cattivo e non riesci ad essere in controllo… Quest’idea risuona dentro di me quando sono depresso, è come se ci fosse un altro attore dentro la stanza. Per questo ho bisogno di fare sport, di correre, di arrampicare. Ne ho bisogno per non passare dei brutti momenti. ‘Chains of Habit’ parla dell’importanza dello sport e della dimensione fisica per riottenere il controllo di ciò che senti scivolare via. L’attività d’endurance è lo strumento più prezioso e sano per creare questo spostamento di focus. È essenziale e sana, al contrario delle droghe o di altre pratiche autolesioniste che, troppo spesso, finiscono per intrappolare persone in difficoltà emotiva e psicologica”


Il rapporto tra la montagna e questo documentarista-atleta parla la lingua dell’amore e dell’intima esplorazione delle debolezze umane. Allevato dal Parco nazionale del Grand Teton, Hesser si riferisce a questo elemento come a un luogo sicuro, dove ha costruito la propria fama lavorativa, e dove, soprattutto, ha plasmato e sta continuando a plasmare la propria identità

“La montagna mi ha subito dato fiducia, mi ha aiutato, e mi sta ancora aiutando a formare un senso di me. Nel periodo universitario ho avuto la fortuna di studiare oltreoceano e di essere coinvolto in alcune grandi spedizioni documentaristiche. Non ero un atleta di alto livello ed ero un fotografo immaturo, ma stare al fianco di personaggi come Cory Richards mi ha fatto scattare una molla interiore: non pensavo si potesse vivere una vita del genere, e da quel momento sono diventato molto più serio in ciò che facevo. Contemporaneamente ho combattuto la depressione a livello privato. Sia il climbing, che la corsa hanno giocato un ruolo chiave in questa battaglia. ‘Chains of Habit’ vuole raccontare questo ruolo, divenuto fondamentale durante la pandemia, quando l’isolamento aveva trascinato tante altre persone in luoghi oscuri e nessuno parlava dell’importanza dell’attività fisica per limitare e riparare i danni. È una pellicola estremamente personale, una produzione multidimensionale che ha coinvolto il mio cuore e la mia mente”
‘Chains of Habit’ sarà uno dei film protagonisti all’ONA Short Film Festival di Venezia, dove Hesser non potrà essere presente, a causa di un’imminente paternità che sta ulteriormente modificando il suo rapporto con la vita. Un nuovo capitolo in cui lo sport continua e continuerà a giocare una parte fondamentale.

“Un figlio ti fa riflettere. Ultimamente sto lavorando al meglio su me stesso, c’è un piccolo fuoco che mi spinge a cercare di essere più felice, calmo e presente. Tanti non capiscono che quando sei depresso è veramente difficile focalizzarsi su altre persone: non hai abbastanza energia. Sto capendo che non posso prendermi cura di qualcun altro se prima non imparo a prendermi cura di me stesso. Sto meditano, mangiando bene, facendo terapie e attività fisica. Voglio essere la mia versione migliore per mio figlio. La sua nascita con ogni probabilità non mi farà essere presente a Venezia per l’ONA, ma spero che il mio cortometraggio aiuti le persone a ragionare e ad ottenere forza e ispirazione per le loro difficoltà. ‘Chains of Habit’ vuole essere un messaggio positivo, uno dei tanti, che possono dare una mano a tutti noi e alle nostre battaglie quotidiane”

Credits: Ted Hesser / ONA Shortfilm Festival
Viaggio nel pianeta Tevere
“Io, Tevere – Le radici del mare”, Marco Spinelli e Roberto D’Amico spiegano perché un fiume leggendario può sensibilizzare tutti noi
Il Tevere come metafora del nostro Pianeta. Il Tevere come metafora di noi stessi. Nei 405 chilometri del fiume simbolo della civiltà romana è racchiusa l’essenza del più tragico problema contemporaneo, il rapporto tra essere umano e natura. “Io, Tevere – Le radici del mare” è il pellegrinaggio acquatico di Marco Spinelli e Roberto D’Amico, uno short docu che percorre l’intera lunghezza di questo fiume leggendario, esplorandone splendori e miserie, e arrivando a scoprire quanto, effettivamente, l’uomo abbia inciso e stia continuando a incidere sulla sua identità. Cavalcando per diversi tratti i propri SUP, Marco e Roberto sviluppano un dialogo su due livelli, attorno a cui ruota l’intera pellicola: il primo è mentale, plasmato da riflessioni e testimonianze, il secondo è sensoriale, prodotto dalle incongruenze tra sublimi scenari incontaminati e angoli abbandonati alla degenerazione umana. Questo duo di creativi, attivisti e sportivi acquatici ha deciso di dialogare anche con noi, presentando il film in concorso alla kermesse veneziana dell’ONA Shortfilm Festival, raccontandoci le ragioni alla base di questa virtuosa produzione.



Come nasce “Io, Tevere” e cosa vuole raccontare?
Marco Spinelli: “Io e Roberto ci siamo conosciuti due anni fa, ho subito scoperto il suo impegno nella tutale di mari, e lui è venuto a conoscenza delle mie attività relative alla pulizia dei fondali. Siamo entrati immediatamente in connessione. Roberto mi ha raccontato di quanto fosse difficile surfare a Ladispoli, a causa dei tanti rifiuti portati dal Tevere. Così abbiamo inizialmente pensato di organizzare un evento di clean up, ma a distanza di poco tempo ha preso forma nelle nostre menti questo tipo di viaggio. Ho un fratello biologo marino e spesso mi confida che temi interessanti, legati alla tutela acquatica, decadono perché vengono spiegati in maniera troppo complessa. Noi abbiamo deciso di provare a sensibilizzare divertendoci, utilizzando un lessico semplice e genuino. Essere spontanei non vuol dire sminuire i problemi del Tevere e del nostro Pianeta, vuol dire riuscire a comunicare ad un pubblico più ampio, che può riuscire a comprendere con maggiore facilità la voce dell’ambiente”
Roberto D’Amico: “Il Tevere è una cosa che tutti noi pensiamo di conoscere, eppure nessuno conosce veramente questo fiume. Noi abbiamo provato a raccontarlo. Personalmente l’ho sempre associato all’inquinamento, invece lungo il tragitto mi sono dovuto ricredere, ho trovato dei luoghi bellissimi e degli scenari naturali mozzafiato. Allo stesso tempo ho vomitato in centro a Roma, annusando la puzza dell’acqua mentre raccoglievo il relitto di una bicicletta dalle sue profondità. Ho vissuto sensazioni altalenanti, arricchite dalle persone che abbiamo incontrato durante il viaggio: figure che vivono e proteggono quotidianamente il Tevere. Questo fiume è una metafora, rappresenta tutto: Venezia, il Po’, l’Adriatico, gli oceani… Abbiamo voluto raccontare le sue condizioni con naturalezza, provando a raggiungere incisivamente le nuove generazioni e a farle riflettere. In generale abbiamo deciso di essere semplicemente noi stessi”
Il vostro viaggio è avvenuto per lunghi tratti su una tavola da SUP. Che ruolo gioca l’elemento sportivo nella vostra opera di comprensione, tutela e valorizzazione delle acque?
M: “Arrivo dal mondo della subacquea e delle immersioni. Nel tempo queste passioni mi hanno permesso di mostrare agli altri cosa vedo sott’acqua… Lo sport, quindi, è stata una base fondamentale per poter raccontare. Se noi non viviamo e non facciamo vivere in prima persona l’inquinamento dei nostri mari e dei nostri fiumi, a rimanere saranno solo le parole. E le parole, purtroppo, non bastano. Io e Roberto siamo accomunati da questa voglia di sporcarci le mani e fare fatica per condividere tematiche rilevanti. Siamo due persone normali, che vogliono imparare dalle proprie esperienze, sperando che quelle stesse esperienze possano sollevare domande anche in chi segue e crede nella nostra visione ambientale”
R: “Lo sport è stato il mezzo che ha dato credibilità al mio impegno ambientale. Il surf mi permette di vivere quotidianamente all’interno dell’universo acquatico, per questo i miei interlocutori ritengono affidabile il mio punto di vista. Quando sei in simbiosi con il mare tutti i giorni della tua vita, sai di quello che parli. Ed è impossibile pensare che al giorno d’oggi tutto vada bene: mari, fiumi e oceani versano oggettivamente in condizioni drammatiche. Il background sportivo ti dà anche concretezza, ti spinge ad affrontare sfide e a condividerle con altre persone. Mi piace pensare all’ideale di surfista, ovvero ad un essere umano che aiuta il mare, e vorrei che quell’immagine rimanesse tale grazie al mio impegno. Inoltre lo sport ti consente di maturare prospettive diverse su ciò che ti circonda: durante il viaggio ho pensato spesso che tante zone abbandonate o degradate del Tevere potrebbero tornare a vivere grazie ad attività e progetti sportivi. D’altronde se vivi realmente un luogo, è logico che poi tu voglia proteggerlo…”



Quali sono le immagini e i momenti manifesto di “Io, Tevere”?
M: “Sono immagini e momenti contrastanti. In senso positivo menzionerei le Gole del Forello, in Umbria, dove ci sembrava di essere dispersi in qualche incontaminata regione americana. In senso negativo il centro di Roma e lo scenario catastrofico del Tevere metropolitano. Mi ha colpito particolarmente questo assurdo contrasto tra la meraviglia della Capitale e la sua discarica acquatica”
R: “All’inizio del viaggio ho riempito la borraccia con l’acqua del Tevere e l’ho bevuta. Era perfetta. A Roma invece sono stato male, l’odore del fiume era rivoltante e c’erano montagne di rifiuti sparse ovunque. L’inquinamento non nasce da solo, è una conseguenza, e queste due immagini antitetiche spiegano come l’uomo sia la causa di questa degenerazione”
Non ci rendiamo conto di quanto in realtà facciamo parte di questo Pianeta”. Possiamo dire che questa sia la frase chiave del vostro documentario? È anche il messaggio che state provando a diffondere e che condividerete con il pubblico di ONA?
M: “Spesso ci sentiamo dire che l’essere umano è ospite del mare e della Terra. Ma non è così, è una concezione sbagliata, perché non fa altro che alimentare il distacco dalla Natura. È logico, poi, che le persone facciano fatica a comprendere che tutto è collegato e che ogni azione umana si riflette inevitabilmente sull’ambiente. Il mare, per esempio, inizia in città. La sua salute inizia dalla città. È fondamentale creare una coscienza collettiva: dobbiamo essere consapevoli dell’importanza del nostro comportamento e dobbiamo modulare le nostre azioni, pensando che incideranno sul Pianeta, sugli animali e su noi stessi. Progetti come “Io, Tevere” vogliono comunicare questi concetti e ricomporre la frattura tra umanità e ambiente: un processo che deve cominciare dalle nuove generazioni”
R: “Non importa di che tipo di acqua si parli. Può essere dolce o salata, calda o fredda. L’unico dato di fatto è che il mondo è uno solo e attualmente le sue acque stanno soffrendo. Nella memoria di alcuni anziani il Tevere è stato l’equivalente di Miami Beach, un contesto vissuto, popolato e protetto. Ora non è così, e quando dimentichi qualcosa, non sai che fine può fare… Per questo motivo abbiamo deciso di creare un documentario fatto da giovani per i giovani, sempre per questo motivo stiamo presentando il film nelle scuole o in speciali eventi come ONA. “Io, Tevere” è stato anche uno spunto, io e Marco stiamo pensando ad una serie di nuovi progetti sinergici, ma prima vogliamo concentrare le nostre energie nel diffondere questo documentario e il suo messaggio”

Credits: FACE / ONA Shortfilm Festival
Text by: Gianmarco Pacione
Dietro le quinte del Mondiale femminile
Goal Click ci permette di esplorare le prospettive fotografiche e narrative delle calciatrici più forti del mondo
Il calcio femminile può essere narrato dalle sue protagoniste, sia a livello fotografico, che editoriale. ‘Women’s World Cup 2023’ è uno speciale progetto di Goal Click, che ha permesso ad alcune stelle dell’attuale Mondiale di raccontare il proprio rapporto con il calcio, con le compagne di Nazionale e con i rispettivi percorsi esistenziali. Dall’Australia e dalla Nazionale USA alla Corea del Sud e alla Svizzera, queste giocatrici-storyteller ci consentono di visitare il backstage delle loro carriere e vite, regalandoci inediti scatti analogici e significative riflessioni. Flo Lloyd-Hughes, responsabile dei progetti speciali di Goal Click, oltre che giornalista, creativo e consulente specializzato nell’ambito calcistico, ci introduce questa speciale galleria di voci e immagini.


Perché avete deciso di dare una macchina analogica ad alcune delle protagoniste della Coppa del Mondo femminile?
“Questo è il terzo grande torneo di calcio femminile per il quale Goal Click ha curato una serie originale, dopo la Coppa del Mondo femminile del 2019 e gli Europei dello scorso anno. Uno dei fattori più importanti di questo progetto sta nel desiderio di mostrare una serie di viaggi individuali verso un evento cruciale. Il panorama del calcio femminile varia molto a seconda di dove vive una giocatrice, del club per cui gioca e della nazionale che rappresenta. In vista della Coppa del Mondo FIFA 2023, volevamo mostrare questa diversità del calcio femminile contemporaneo. Nella serie le giocatrici di tutto il mondo raccontano le loro vite, le loro comunità, le loro stagioni e i loro ritiri in vista del Mondiale. Dall’Australia e dagli Stati Uniti alla Corea del Sud e alla Svizzera, queste giocatrici ci mostrano un vero e proprio dietro le quinte della loro vita calcistica. Ora queste atlete stanno partecipando allo stesso torneo ma, per molti aspetti, i loro percorsi verso la Coppa del Mondo non potrebbero essere stati più diversi”
Qual è stata la reazione delle ragazze a questo progetto artistico e documentaristico?
“Siamo così fortunati che le nostre storyteller siano davvero aperte, creative e coinvolte nel progetto. Vogliono raccontare le loro storie, condividerle con i fan e con il mondo, in modo che la gente possa imparare di più su di loro e conoscere persone, oltre ad atlete. Molte giocatrici ci confidano che si divertono a vedere ciò che producono le altri partecipanti al progetto e che le loro compagne di squadra amano ciò che ritraggono e scrivono su di loro. È un tipo di narrazione intima, diversa, focalizzata sull’élite della comunità calcistica femminile”
Siete rimasti colpiti dalle qualità fotografiche e dagli occhi analogici di queste atlete?
“Siamo sempre colpiti dalle immagini che le calciatrici riescono a catturare. Goal Click ha uno stile caratteristico basato sull’uso di macchine fotografiche analogiche usa e getta, e questo è fondamentale per contribuire a creare immagini crude e autentiche, di un dietro le quinte che solo un’atleta può vivere. Ogni narratrice ci ha dato una visione unica del ritiro e della preparazione alla Coppa del Mondo, ma ha anche mostrato gli usi e i costumi delle compagne di squadra fuori dal campo, regalandoci una gamma reale di emozioni umane. Questo centra in pieno la volontà di Goal Click, ovvero ispirare la comprensione reciproca attraverso il calcio. Chiunque veda le immagini e legga le storie si sentirà più vicino a ciascuna delle giocatrici e delle sue compagne di squadra, ma capirà anche la loro cultura, la loro comunità e le loro motivazioni”


Quali testimonianze vi hanno colpito di più e quali sono stati i temi più rilevanti?
“Abbiamo avuto la conferma che non esistono mai due viaggi uguali. L’unico punto in comune di questa serie è che tutte le partecipanti hanno partecipato e stanno partecipando alla Coppa del Mondo femminile. Se dovessi scegliere qualche esempio, direi che la storia della giamaicana Yazmeen Jamieson è una delle mie storie preferite. Ha parlato con forza e onestà delle difficoltà che ha vissuto, della diversità della squadra giamaicana e del lungo cammino che la squadra ha percorso per qualificarsi alla Coppa del Mondo femminile. Oltre alle parole, le sue sue immagini sono fantastiche e rappresentano davvero lo spirito delle Reggae Girlz. Un’altra storia forte è stata quella della capitana del Sudafrica, Thembi Kgatlana. La stella delle Banyana Banyana è stata infortunata negli 11 mesi precedenti il torneo e racconta le sfide affrontate lungo il suo lungo percorso, che l’ha vista giocare in Portogallo, Spagna, Cina e Stati Uniti. Le sue parole diventano ancora più toccanti quando rivela di aver perso tre membri della propria famiglia proprio durante passate Coppe del Mondo. Da un punto di vista puramente fotografico, Naomi Girma della USWNT (Nazionale statunitense), Rikke Sevecke della Danimarca e Kathellen del Brasile ci hanno permesso di esplorare a fondo i ritiri delle proprie squadre. Hanno scattato delle foto bellissime e potenti”
Come state vivendo la Coppa del Mondo alla luce di questo progetto?
“Il team di Goal Click è costantemente incollato allo schermo. Alcuni di noi sono andati in Australia e stanno assistendo alle partite dal vivo, quindi è stupendo vedere alcune delle nostre storyteller in azione! Avendo lavorato con le atlete per diversi mesi, non c’è dubbio che sentiamo una connessione profonda con i loro progressi e le loro prestazioni. Naturalmente vogliamo che tutte loro facciano bene a livello individuale e collettivo. Hanno dovuto superare molte sfide e avversità per poter partecipare al più grande evento sportivo femminile della storia”
Avete spinto star del calcio internazionale a diventare storyteller. Come vi fa sentire questo?
“Abbiamo un grande senso di orgoglio per il fatto che così tanti/e atleti/e e Federazioni siano ciclicamente disposti a lavorare con noi. Molte tra queste calciatrici hanno osservato i nostri progetti precedenti e ci hanno contattato proattivamente per essere coinvolte. Dal nostro punto di vista è fantastico ammirarle mentre mettono in mostra la propria creatività, e dare loro una piattaforma per raccontare storie. Ogni torneo importante ci offre nuove occasioni per mostrare il valore del nostro approccio narrativo. Per gli alteti questi progetti sono un’opportunità per fare qualcosa di diverso e passare dietro l’obiettivo”
Quanto è importante questo tipo di narrazione per il futuro dell’universo sportivo e dei suoi atleti?
“È davvero importante dare a giocatori e giocatrici la possibilità di raccontare le proprie storie e dare loro voce nel panorama mediatico calcistico. Crediamo fermamente nel potere della narrazione in prima persona, che si tratti di un allenatore, di un atleta-appassionato o di una stella internazionale. Tutto ruota attorno all’autenticità e alla volontà di fornire storie non filtrate, raccontate da chi le vive realmente. Viviamo in un mondo in cui molte voci sono inascoltate, emarginate e messe a tacere. Goal Click si contrappone a questa cultura contemporanea, fornendo una piattaforma in cui le persone sono in grado di dare forma alla propria narrazione attraverso i propri occhi e le proprie voci”
Di seguito una selezione di scatti e parole delle protagoniste di questo progetto.

Naomi Girma, USWNT
“Gioco per la mia famiglia e per la mia comunità, che hanno fatto molti sacrifici per permettermi di raggiungere questa posizione. Sono molto grata per tutto quello che hanno fatto per me. Gioco anche per le giovani ragazze afro-americane ed etiopi che possono rivedersi in me ed essere ispirate dal mio percorso”

Kathellen Sousa Feitoza, Brasile
“Ho iniziato a giocare a calcio come la maggior parte delle ragazze in Brasile, ovvero giocando per strada. Non c’erano molte opportunità per fare quello che amavo fare. Così ho deciso di lasciare il mio Paese nel maggio 2014 e di giocare in un college di New York. Il calcio rappresenta tutto per me e per il mio Paese: speranza, fede, passione, divertimento. Giocare per strada era un modo economico per divertirsi, era l’unico modo per liberare la mia mente”

Yazmeen Jamieson, Jamaica
“Qualcuno mi ha detto di recente ‘la tua è una lunga strada’. Questo significa molto per me, perché, se si guarda al mio percorso, nulla è stato facile. E so per certo che la mia strada è ancora all’inizio. Con i diversi tipi di capelli, forme e dimensioni, noi Reggae Girlz siamo un mosaico di rappresentazioni e credo che questo sia bellissimo. Il motto della Giamaica è “Da molti, un solo Popolo” e credo che la nostra squadra lo rispecchi decisamente”

Rikke Laentver Sevecke, Danimarca
“La mia speranza per il calcio femminile in Danimarca è che un giorno le nostre giocatrici non debbano più andare all’estero per sviluppare il loro gioco, ma che possano rimanere nel loro Paese e giocare a livello professionistico. Vivere in altri Paesi e conoscere culture diverse è un’esperienza straordinaria, ma la parte più difficile è stare lontano dalla famiglia e dagli amici”

Charli Grant, Australia
“Nella società australiana il calcio oggi è una piattaforma per promuovere l’attività fisica e, al tempo stesso, un luogo sicuro per costruire amicizie. Il calcio femminile è diventato uno spazio sociale in cui le persone possono esprimere loro stesse e sentirsi sicure delle proprie personalità”

Luana Bühler, Svizzera
“Il calcio significa vivere un sogno, per me e per molte bambine là fuori. Sono così orgogliosa e grata di avere il privilegio di rappresentare il mio Paese facendo ciò che amo di più…”

Rebecka Blomqvist, Svezia
“Mi piace che il calcio faccia parte della mia vita e cerco di cogliere ogni opportunità per trarne il meglio in termini di prestazioni, ma anche per godermi tutti i momenti condivisi con le compagne di squadra. Il calcio significa molto per me. È il mio lavoro, ma anche il mio passione, è quello che ho sognato e quello che voglio davvero fare. Per me il calcio è molto, molto importante. Tutto finirà un giorno. Ho sentito persone dire che mi mancherà soprattutto la sensazione dello spogliatoio, lo stare accanto a compagne di squadra e amiche ogni giorno”

Claudia Bunge, Nuova Zelanda
“Rappresentare il mio Paese significa giocare per le mie compagne di squadra e la mia famiglia, ma anche per altre giovani neozelandesi. Spero che, guardandomi giocare, le persone capiscano quanto adori il calcio, e che questo le ispiri a fare lo stesso con qualsiasi cosa abbiano scelto di fare nella vita .”
Per l’intera serie, visitate Goal Click.
Credits: Goal Click
Game Changers – Climate Clubs
Kyle Harman – Turner racconta perché il calcio e lo sport devono parlare di cambiamento climatico
Il calcio può essere molto più dell’etereo concetto di Beautiful Game. Può essere uno strumento essenziale per elevare tematiche cruciali e trasversali per tutta la società contemporanea, come il cambiamento climatico. Kyle Harman – Turner ha studiato e compreso l’importanza comunicativa dello sport più diffuso al mondo. Davanti alle partite del suo amato West Ham, ha analizzato la possibilità di utilizzare simboli sacri come maglie, stemmi e nomi delle società per diffondere un solo messaggio virtuoso: la Terra deve essere tutelata. Dalla Premier League al calcio e allo sport di tutto il mondo, gli orizzonti del progetto Climate Clubs parlano la lingua della sensibilizzazione virtuosa, una lingua fatta di frasi ironiche e design contemporaneo: il mix ideale per raggiungere ogni generazione di tifosi e appassionati, istruendoli su uno dei più grandi problemi della società presente e futura. Esploriamo meglio Climate Clubs attraverso la testimonianza del suo ideatore.




Com’è nato il progetto Climate Clubs?
Ho lavorato nell’ambito pubblicitario per 20 anni. Avevo la mia agenzia e comunicavo quotidianamente con clienti che spendevano tantissimi soldi per diffondere prodotti che non facevano il bene del mondo. Ho iniziato a pormi una domanda: cosa potrebbero fare le nostre menti se si concentrassero sulla comunicazione del cambiamento climatico? Così ho deciso di abbandonare il lavoro e mi sono iscritto a un corso dedicato alla sostenibilità presso l’università di Cambridge. Durante le lezioni mi ha subito colpito una frase: non è un problema scientifico, è un problema comunicativo. La scienza è chiara su questo argomento, eppure tantissime persone faticano a comprenderlo. E la colpa non è loro. Il calcio è sempre stata la mia passione, sono un abbonato di vecchia data al West Ham, sono stato anche un giornalista specializzato e ho avuto la possibilità di seguire eventi come i Mondiali in Sudafrica. Quando è nato mio figlio ho capito che dovevo fare qualcosa e provare a fondere questi due universi. Sono stato spinto da un istinto interiore, d’altronde sono due cose che ho sempre avuto a cuore…
Ci puoi raccontare alcuni esempi della vostra creatività virtuosa? Quali sono state le reazioni della gente e, soprattutto, dei tifosi?
I tifosi e, in particolare, mio fratello sono le vere guide di questo progetto. Lui è un tifoso vecchia scuola del West Ham e non è mai stato interessato al cambiamento climatico: se riesco a modificare il suo pensiero attraverso il nostro lavoro, vuol dire che sto centrando il mio obiettivo. Chiaro, molti tifosi sono scettici, ma dovete pensare che una vasta parte della nostra società è ancora convinta che il cambiamento climatico sia qualcosa di distante e impercettibile. Per tanti il cambiamento climatico equivale all’immagine esotica di un orso polare, che poco ha a che fare con la nostra quotidianità. Non è così. Il Carlisle United, per esempio, deve pagare annualmente costi altissimi di assicurazione, perché Brunton Park (il loro stadio), è ciclicamente soggetto ad allagamenti. Si stima che 23 dei 92 stadi del calcio professionistico inglese saranno allagati entro il 2050… Per questo abbiamo ideato la serie ‘Close to Home’, rielaborando i kit di tutte e 23 le squadre. Un altro progetto importante è stato quello legato al Brentford FC. Le ‘Bees’ sono la piattaforma ideale per comunicare che 13 specie di questi insetti sono andate perdute nello UK dal 1990. Il progetto ‘Wildflower Workers – Every bang re-wildflowers the square foot of a football pitch’ narra questa drammatica estinzione, conseguenza dell’altrettanto drammatica perdita del 97% dei fiori selvatici britannici dal 1930. Poi abbiamo creato una serie di bandiere per la Royal Academy of Arts, concentrate sulla rielaborazione dei loghi di varie squadre. Abbiamo ricevuto migliaia di mail/messaggi, soprattutto da giovani tifosi. Tantissimi hanno deciso di comprarle, consapevoli che il ricavato sarebbe stato devoluto a realtà che combattono il deterioramento della nostra Terra. Molti di loro hanno comprato bandiere di squadre rivali…




Che ruolo giocano e giocheranno calciatori e società in questo processo di sensibilizzazione?
I calciatori hanno il potere d’influenzare e cambiare il comportamento di migliaia di tifosi in un solo istante. In UK numeri 10 come Lineker e Rashford hanno un impatto superiore rispetto al numero 10 di Downing Street: tra Rashford e un ministro sceglierei sempre il primo come testimonial. Siamo fortunati che giocatori come Bellerin siano molto impegnati sotto questo punto di vista, ma possiamo trovare anche molti altri esempi: Smalling ha una propria azienda green, Bamford ha creato un’esultanza dedicata al cambiamento climatico e Ben Mee ha recentemente dato vita al primo trasferimento ‘carbon neutral’ della storia del calcio inglese… Tanti giocatori sono legati e si stanno legando a ciò che stiamo facendo e, allo stesso tempo, stanno diventando ambassador per la salute del nostro pianeta. La sensazione è che sempre più figure calcistiche siano preoccupate da quello che sta accadendo, e la stessa cosa si può dire di club e istituzioni. C’è un’evoluzione in atto e lo dimostra il fatto che in Premier League stiano redigendo delle leggi ad hoc. Il mondo del pallone sta capendo che non si può essere perfetti, certo, ma si può e si deve fare di più sotto questo punto di vista. Ora starà ai top player internazionali fare un passo avanti e starà ai club seguire esempi virtuosi come quello dei Forest Green Rovers, squadra di League Two (quarta serie inglese) che sta riducendo a zero l’impatto sull’ambiente e sviluppando un sistema di totale autosufficienza energetica. Hanno anche creato una linea di cibo vegano, che inizialmente è stato venduto dentro lo stadio e, in seguito, ha iniziato ad essere distribuita in tutta Inghilterra. È una doppia vittoria ed è la giusta strada da intraprendere.
Come vuoi sviluppare il progetto Climate Clubs in futuro? E come vedi il futuro del nostro pianeta?
Lo sport è più grande della logica, produce emozioni reali e connette la gente. E questo vasto spazio sociale non è ancora stato utilizzato concretamente per diffondere il tema del cambiamento climatico. Non vogliamo che Climate Clubs si limiti al calcio, la nostra volontà è quella di collaborare con tutti i grandi sport del mondo. Penso per esempio ai major sport americani, a organizzazioni come l’NBA e l’NFL, capaci di toccare persone e fan ad ogni latitudine del globo. Più il messaggio sarà condiviso, meglio attecchirà. Lo sport e il calcio mi hanno insegnato che c’è sempre speranza, come nel caso della celebre ‘Christmas Truce’ della Prima Guerra Mondiale. Lo sport ha il potere di unire le persone, soprattutto in momenti di difficoltà. E continuerà a farlo.




Credits: Climate Clubs