Patrick Stangbye e le prospettive del running
Le virtuose visioni dell’ultrarunner norvegese, Creative Director di ROA Hiking
“Le prospettive dell’ultra running sono preziose. Io corro per queste prospettive. Alcune sono personali, altre riguardano la società e il mondo che ci circonda. Quando corro mi focalizzo sugli obiettivi a breve termine, ma rifletto anche sulla vita e sul lavoro… Il bello di questo sport è che ti permette di processare in continuazione pensieri e idee. Durante i miei allenamenti ho tempo per affinare concept e progetti: correre la domenica o tutte le mattine per qualche ora è molto più utile di stare un’intera giornata davanti al computer, dove devi rispondere alle mail e testare continuamente lo stress. In generale in questo momento della vita mi sento legato al concetto di essenzialismo: penso che la reale qualità venga prodotta dall’allontanamento di distrazioni e informazioni accessorie. E il running si associa perfettamente a questa visione”


L’essenzialismo teorizzato da Patrick Stangbye è una personale dottrina filosofica, è un melting pot di arti contemporanee, attenzione estetica, sensibilità ecologica e puro running. Creative Director di ROA Hiking e ultra runner, i vari interessi di questo multidisciplinary creative strategist sono linee che convergono e si contaminano, tramutandosi in rilevanti performance atletiche e progetti che uniscono la coscienza all’innovazione. Il percorso di questa mente scandinava pare una traiettoria priva di stasi e barriere che, oggi, dopo un lungo apprendistato in giro per le montagne e gli showroom di tutta Europa, tende verso il futuro del running e della sua comunicazione.

"Sono cresciuto nella periferia di Oslo, mi separava solo una strada dai boschi. La natura era il mio parco giochi, mi piaceva interagire con i suoi elementi. La MTB ha allevato la mia creatività, per fare freeride costruivo ostacoli e salti, sembrava di giocare con un grande set LEGO… D’inverno, poi, tutto diventava perfetto per lo snowboard. Contemporaneamente ero molto legato alla musica e questa passione mi ha spalancato le porte del fashion. Tanti artisti vestivano marchi specifici, capaci di determinare una precisa identità. Ho capito che il fashion non era solo opulenza, così mi sono educato facendo ricerche su internet, all’epoca IG non esisteva, e ho iniziato a lavorare per un retail store a 16 anni. Dopo poco tempo mi sono trasferito a Parigi, dove ho studiato e lavorato per un contemporary luxury store e a 25 anni ho deciso di diventare un professionista freelance. Lungo questa maturazione ho incontrato il trail running. Mi stavo preparando per una maratona e durante gli allenamenti ho capito che preferivo correre a contatto con la natura. Non mi ero mai visto come una persona da sport endurance, ma ho vissuto l’avvicinamento al trail come una sfida e ho amato ogni secondo di quell’epifania. Ho scoperto tardi questo sport, è vero, ma ho subito capito che era connesso con le sensazioni e le esperienze della mia infanzia. Con il trail ho incontrato una community e degli esseri umani realmente interessanti, anche grazie al contatto con loro ho posto le basi ideologiche del mio attuale lavoro”


L’attuale lavoro di Patrick Stangbye si concentra sullo sviluppo di visioni che partono dalla semplice complessità del running per esplorare e definire un marketing virtuoso. La semplice complessità di una community che riesce a parlare tanto al singolare, quanto al plurale. La semplice complessità di una community che ha bisogno di storie ed esempi reali, ma anche di ideali e traguardi tangibili, come la sostenibilità ambientale. La semplice complessità di una community che Patrick Stangbye ha avuto modo di studiare e assimilare in tutte le sue forme. Dai paesini di montagna norvegesi all’asfalto milanese. Dalla fatica ad alta quota ai trend metropolitani. Perché si annida qui, all’intersezione tra cultura e prodotto, la ricerca di questo creativo norvegese.

“Mi piace comunicare per e con persone che hanno una sensibilità vicina alla mia. E nella community del running ho trovato esattamente questa tipologia di esseri umani. Anche se il runner medio continua ad essere bianco e appartenente all’alta borghesia, sento che questa situazione si sta continuando ad evolvere. Quando ho iniziato a correre, tante persone non potevano sentirsi parte di questo universo. Io non ho mai avuto questo problema. Adesso fortunatamente la percezione del running è cambiata e sta continuando a cambiare, chiunque può essere un runner, e sempre più persone comprendono il beneficio di una vita attiva. È necessario che i brand abbiano una narrazione concentrata sulla sostanza, su storie vere, e che i loro prodotti rispettino quanto viene comunicato. ROA per esempio non è uno sport brand, ma un cultural brand, connesso alla montagna e al rapporto tra natura e uomo: per me è cruciale sviluppare questo concetto ed educare le persone a riguardo. Le nuove generazioni hanno capito che l’eccesso del lusso ha smesso di essere appetibili come prima, la salute delle persone e del pianeta sono invece argomenti cruciali, che hanno creato un differente mindset in chi ci circonda. Io non sono più affascinato da ciò che non è sostenibile e ritengo importantissimo che anche ROA stia seguendo questa direzione, puntando sulla circolarità e sull’impatto ambientale sia sotto il punto di vista della comunicazione, che della produzione. Spero che i brand possano smettere di essere dannosi per l’ambiente. È un sogno utopico, ma sono sicuro che possa realizzarsi con la creazione di un giusto ecosistema in cui la competizione tra aziende passa in secondo piano, lasciando spazio alla cooperazione per un bene più grande”


Questo creativo errante, ispirato dall’attitude di ultrarunner iconici come Anton Krupicka, divide tracce e riflessioni tra selvagge vette norvegesi, come il fiabesco Slogen, e la sublime catena alpina, dove prepara future gare sui 100 o più chilometri. Quando parla delle sue esperienze montuose, Patrick Stangbye utilizza spesso la parola arricchimento. Un arricchimento complementare a quello urbano, sviluppato nella sua seconda casa di Milano, città che permette all’essenzialismo di questo creative strategist d’inglobare vibe e ispirazioni magmatiche, destinate allo sviluppo di nuove, stratificate prospettive.

“Amo i luoghi di montagna, mi permettono di incontrare persone e community locali, capaci di trasmettere sia nozioni culturali, che preziose indicazioni tecniche su scarpe ed equipment. Non riuscirei però a vivere solamente ad alta quota, perché la città mi regala impulsi estremamente importanti. Arte, musica, fashion… Per me tutto è connesso, tutto sto accadendo ed è fondamentale vedere una certa mostra o un certo film, mangiare in un determinato posto e incontrare persone con un mindset radicato nella contemporaneità. In montagna il rischio è di essere isolati e di perdersi una vasta serie d’informazioni. Sono sicuro di una cosa, però, sarei molto felice se le persone cominciassero ad avere più comfort nelle loro vite urbane grazie ad esperienze ‘uncomfort’ vissute in montagna. La mia prossima esperienza sarà una gara in Svizzera a settembre, non mi sto preparando per vincere, mi sto allenando per fare bene e sentirmi bene. Questo, in fondo, è ciò che amo fare”
Text by: Gianmarco Pacione
Barberà Rookies – Empowering Women’s Football
Yard, trionfi e spirito inscalfibile nel reportage di Yuriy Ogarkov
Le Barberà Rookies, squadra femminile di football americano di Barberà del Vallès, località nei pressi di Barcellona, stanno provando a ridefinire il proprio sport. Fondata nel 2002, questa realtà ha recentemente ottenuto un notevole secondo posto nella finale della Serie B LNFA. L’incrollabile ricerca dell’eccellenza è valsa loro numerosi riconoscimenti nel corso degli anni, tra cui l’incoronazione a campionesse della Catalogna nel 2009-10 e 2010-11, la vittoria del titolo spagnolo per cinque stagioni consecutive, dal 2009-10 al 2013-14, e quattro Coppe di Spagna.


Prima dei successi e delle vittorie sul campo, le Barberà Rookies vogliono infrangere gli stereotipi e ispirare ogni atleta ad abbracciare le proprie qualità. Con grazia e potenza, dimostrano che femminilità e atletismo possono e devono andare di pari passo. Il loro viaggio continua, guidato da uno spirito inscalfibile e dalla profondo determinazione nell’affrontare nuove, significative sfide. Il reportage di Yuriy Ogarkov ci permette di osservare ed esplorare le protagoniste di questa cavalcata sociale e sportiva, popolata da field goal e touchdown.










Photo Credits: Yuriy Ogarkov
Barberà Rookies
WATERCROSS
Dalla neve all’acqua: lo shortdocu di Adam Amengual ci fa scoprire un’atipica disciplina sportiva
Se non sapete cos’è il Watercross, non preoccupatevi, non siete i soli. Immaginate veloci motoslitte, create ovviamente per la neve, che fendono l’acqua a quasi 100 km/h. Suona strano, vero? Eppure da tempo questo incrocio di scenari e motori ha creato un microcosmo sospinto dalla pura passione. ‘Watercross’ è anche il titolo dell’intimo cortometraggio diretto da Adam Amengual, un poetico e dinamico viaggio documentaristico tra le parole, i rumori e le emozioni dei giovani rider che stanno evolvendo questa atipica forma di competizione. Dalla neve all’acqua. Dalle montagne ai laghi. Il regista statunitense ci aiuta a scoprire un tanto irrazionale, quanto accattivante cortocircuito visivo e cognitivo, introducendoci una pellicola che parla di fluidità, amore, potenza e, soprattutto, comunità.



“Ho incontrato questo sport quasi per caso una decina d’anni fa. Stavo facendo delle ricerche su internet e ho visto che c’era un evento nel New Hampshire, nella cittadina di mio padre. È stata una pura coincidenza. All’epoca ho scattato solo una serie fotografica, d’altronde non ero ancora focalizzato sulla produzione video. Ora le cose sono cambiate, e ho pensato di tornare a ritrarre questa atipica community sportiva, creando uno documentario. Questa disciplina nasce come hobby offseason per coloro che vanno sulle motoslitte e, nel tempo, si è trasformata in molto più. Quando entri in contatto con questi atleti, percepisci la passione totalizzante che nutrono verso questo sport. Non lo fanno per soldi, social e fama. L’essenza del Watercross risiede semplicemente nell’amore per questi mezzi e nella condivisione di questo legame. È un piccolo mondo, dove i giovani rider sono circondati da genitori, fratelli, sorelle e parenti. Tutti sembrano parte di una grande famiglia, dove la competizione è forte, ma non è tutto. Credo che questo sport sia estremamente estetico per la sua fluidità e intensità, le motoslitte raggiungo velocità molto elevate e i rider devono gestirle tra curve e manovre acquatiche. Non c’è differenza tra ragazzi e ragazze, la partecipazione è eterogenea, così come il desiderio di sporcarsi le mani lavorando su motori e dettagli meccanici. In questo cortometraggio ho provato a ritrarre le caratteristiche e i volti di un microcosmo sconosciuto a molti, sottolineando la tangibilità dell’evento, delle storie che lo popolano e dei rapporti umani che lo circondano”



Credits: Cedric Dasesson
Text by: Gianmarco Pacione
Rob Cairns, una piattaforma per il mondo fixie
Community, produzione visuale ed evoluzione, il creativo inglese che vive in simbiosi con le due ruote
“La fixie è una forma di libertà, permette di esprimere ciò che sono e il mio amore per le due ruote. É così semplice ed estetica, è una forma di movimento unica. Quando avevo 11-12 anni ho iniziato ad andare in BMX, poi, dopo un periodo di pausa ciclistica, ho scoperto questo mezzo grazie ad un amico meccanico. Subito mi sono chiesto cosa fosse e perché non avesse i freni. Appena ho capito qualcosa in più, il mio cervello è esploso. La sua semplicità, la possibilità di controllarla nelle strade di città, la presenza di una sola catena… Mi sono immediatamente innamorato di quest’oggetto, della sua funzionalità, del suo design e della community che ruota attorno ad esso. Da quando ho ricominciato a pedalare, non ho più smesso. La fixie ora è il soggetto principale della mia produzione artistica ed è il motivo per cui so di avere amici in ogni città del mondo”


Da Barcellona a San Pietroburgo, da Copenaghen a Berlino, le bici a scatto fisso per Rob Cairns ha ruoli molteplici. Questo rider e content producer londinese ha deciso di dedicare tutto sé stesso e la propria creatività ad un oggetto che rappresenta molto più di un mezzo di spostamento. Community dopo community, Rob sta intessendo una tela fatta di contatti umani, trick virali e sviluppo di un movimento consistente ad ogni latitudine del globo, riuscendo a intrecciare lo spirito underground di una scena di nicchia e la volontà di esplicitare le sue peculiari caratteristiche sociali, sportive e terapeutiche.

“Ho lavorato a lungo per una production company, poi ho avuto un periodo difficile e ho deciso di concentrarmi sulla mia salute mentale e fisica. Per questo mi sono nuovamente interessato al ciclismo, dedicandomi alla scatto fisso. Mi sono sentito un uomo nuovo. Ho avuto la fortuna di entrare a contatto con questo universo durante un periodo di grandi evoluzioni dettate dai social e, durante il lockdown, ho capito che per la mia salute non aveva più senso creare contenuti per altri, volevo creare contenuti per me stesso, legati alle mie passioni, e allo stesso tempo costituire una piattaforma che mi permettesse da un lato di elevare e raccontare la vasta community fixie, dall’altro di entrare in contatto con brand che abbiano visioni brillanti e credibili. All’inizio facevo tutto da solo, ora sto coinvolgendo sempre più rider e alcuni tra loro stanno imparando a fare foto e video… Mi sto divertendo e tutti i tasselli stanno andando al loro posto. La regola è semplice, più tempo dedichi a una cosa, più riesci a migliorarla. E questo mantra vale sia per skid e spin, che per la produzione visuale”


Dopo aver plasmato una chiara identità visuale, oggi il nativo di Newcastle sta trasformando la fixie in uno strumento di narrazione, spargendo i propri contenuti nelle piattaforme social e intercettando i pionieri, così come i novizi di quest’arte urbana. È un processo di propagazione di un’intera sottocultura, dei suoi valori, del suo stile e delle sue prospettive future. È una crescita organica, concentrata sulla celebrazione ed esaltazione delle due ruote nella loro forma più semplice e pura.
“Ci è voluto del tempo per trovare il giusto flow e ho avuto la fortuna di coltivare il mio occhio insieme ai ragazzi di FxD.BLN, con cui ho trascorso delle preziose settimane nella capitale tedesca, assistendo alla formazione di un fenomeno internazionale. Ora sto producendo contenuti giornalieri e documentari, sto aiutando nella conduzione di un podcast specializzato, ‘Slow Spin Society’, e a breve pubblicherò un libro. Non voglio semplicemente comunicare il valore estetico delle fixie, voglio raccontare l’atmosfera e le vibrazioni che circondano i rider, voglio creare contenuti che sviluppino precisi concetti e significati, voglio creare uno spazio positivo, narrativo e funzionale per la nostra community… Ed è sinceramente fantastico”
Photo Credits: Rob Cairns
Text by: Gianmarco Pacione
Mind your Soul, Mind the Gap
L’evento di Runaway spiegato dai suoi protagonisti
Sudano le voci nella notte milanese. Alcuni corpi sfrecciano in ritardo sui marciapiedi di via Ugo Bassi, cercando ancora il traguardo di un frenetico e tangibile videogioco metropolitano. Mind the Gap mette alla prova l’essenza di ogni runner. Corpo e mente. Razionalità e irrazionalità. Egoismo e altruismo. Tra un checkpoint e l’altro ogni dettaglio brucia energie, ogni fattore è determinante per risolvere l’ennesimo enigma teorizzato da Runaway. Usano queste parole gli sfiancati protagonisti MTG, condividendo emozioni e visioni, mentre gelide birre passano di mano in mano. Fatica e frustrazione paiono già un ricordo lontano, cancellato dal senso di community che pervade l’afosa pace milanese. È in questo momento, subito dopo l’estasi o il dolore del cronometro bloccato, che prende forma il vero significato di questo evento. Ascoltiamolo.


Vinicio Villa
"È andata inaspettatamente bene, non pensavo di vincere, anche perché arrivavo da una gara provante sullo Stelvio. Mind the Gap è totalmente diverso da quello che faccio di solito. È devastante, perché non sai mai a che ritmo andare, ma allo stesso tempo è eccitante, perché ad ogni checkpoint provi l’ebrezza di doverti orientare. Ti leghi ad altre persone, anche a sconosciuti. Per esempio ho corso per qualche chilometro con un ragazzo che conosceva meglio di me i checkpoint. Mi ha aiutato e gli ho detto che, se fossimo arrivati insieme, l’avrei fatto vincere. Purtroppo ha avuto più cuore che gambe. Sono milanese ed è bellissimo vivere la città così. D’estate le notti sono deserte, riesci a sentirti realmente parte di Milano, nella parte di tracciato che seguiva i grandi viali mi sono realmente goduto ogni secondo”


Beatrice Bianco
"Normalmente non giro per Milano di notte, è bello esplorare strade che non ho mai fatto e vedere la città così vuota. Quando corro nel traffico mi sembra tutto enorme e confuso. In momenti come questo, invece, Milano sembra piccolissima. L’energia è pazzesca nonostante sia un lunedì sera di luglio. È fantastico che ci sia questo interscambio tra crew e persone differenti. Molti di loro non si sarebbero conosciuti senza Mind the Gap. Ho iniziato la gara spingendo per vincere, ma ho finito godendomi il percorso insieme ad un’altra ragazza. Siamo state fianco a fianco quasi sempre, quando ci rivedremo ci ricorderemo sicuramente di quest’esperienza”


Artem Danko
"Sono fortunato, perché conosco i ragazzi di Runaway da tempo e ho partecipato a tutte le edizioni di Mind the Gap. All’inizio era adrenalina pura e i checkpoint erano decisamente più facili da trovare. Poi hanno evoluto il format e adesso ho come la sensazione di lanciarmi verso l’ignoto. È necessaria molta strategia, ho imparato a creare connessioni con gli altri, perché altrimenti rischio di bruciarmi o di trovare sorprese inattese. Durante MTG la testa vale quanto le gambe. Sono un milanese adottivo, abito qui da 7 anni e amo il fatto che questo evento abbia una vibe newyorchese o londinese, ma che allo stesso tempo abbia una giusta dimensione familiare. Format come questo mettono Milano allo stesso livello delle grandi metropoli internazionali, dei loro movimenti e delle loro crew. Mind the Gap mi ha soprattutto permesso d’incontrare tantissimi amici, e credo sia il risultato più importante”


Maria Vittoria Nanut
"Sono arrivata qui con la voglia di vincere, ma avevo un po’ di timore, perché in una gara del genere è quasi impossibile sapere se stai calcolando il percorso giusto e se stai seguendo la giusta direzione. Per quasi tutto il tempo mi è sembrato di essere dentro un videogioco. Sono di Gorizia e per metà slovena, ho iniziato a correre solo un anno fa, quando mi sono trasferita a Milano, per me è fantastico entrare in contatto con un contesto del genere. Per questo ringrazio Floriano Macchione, che mi ha introdotto a Runaway e al MTG. È strano condividere una gara di questo tipo con così tanta gente e sono stupita delle tantissime ragazze presenti. Lungo il percorso ho capito che è importante fare di testa propria, anche quando ci si connette con altri runner… Credo sia il modo migliore per provare a vincere. Questa volta mi è andata bene, vedremo come andrà la prossima edizione”


Ippolito Pestellini
"MTG è un format bellissimo, perché fa tantissima comunità. Mancano questi aggregatori in Italia ed è significativo che qui si riuniscano crew differenti, che normalmente corrono in luoghi diversi. Qui ti affidi agli altri e gli altri si affidano a te, c’è una fusione unica tra solidarietà e competizione. MTG non è solo performance, è anche lucidità e pianificazione. È un modo unico di correre di notte attraverso la città, di vederla con prospettive spaziali atipiche e veramente uniche. Sono un architetto e, ogni volta che partecipo agli eventi organizzati da Runaway, penso che sarebbe bellissimo fare una mappatura di tutte le cose che hanno inventato negli anni: vedremmo una città parallela, la città dei runner, un’altra Milano. In fondo credo che in ogni città convivano tante città, questa è solo una”
Photo Credits: Riccardo Romani
Text by: Gianmarco Pacione
Run, and Mind the Gap
Ritratto dell’evento segreto notturno organizzato da Runaway
Mind the Gap esiste senza esistere. È un appuntamento segreto con l’estasi della notte metropolitana, è la fusione del running urbano con il bollente asfalto milanese. Mind the Gap è l’intreccio tra le regole esclusive del Fight Club palahniukiano e l’itinerario vorticoso di un alleycat ciclistica. Siamo nell’afoso e vuoto luglio milanese, eppure una sessantina di runner sono richiamati dalle vibe underground e dalla sadica fantasia di Runaway, che ciclicamente sfida le gambe e la mente di atleti coinvolti in un format senza eguali, almeno sul suolo italiano. Un fiume di corpi invade il cavalcavia Bussa, iconico punto di partenza di una sfida che mette in rima ritmo e orienteering. Poche indicazioni e ognuno si lancia nel proprio, incerto, itinerario. Il traguardo è un’incognita distante indizi e checkpoint. Vinicio Villa e Maria Vittoria Nanut sono i primi a decifrare la criptica trama di quest’edizione, dando il via ad una celebrazione collettiva. Perché Mind the Gap esiste senza esistere ma, come spiegano Luca Podetti e Carlo Pioltelli, menti dietro questo evento, ad esistere è la forza aggregativa di un anonimo lunedì estivo, trasformato in frenetica velocità e competitiva condivisione.







“Il concept di Mind the Gap nasce da un suggerimento di un nostro cliente belga, abitante di New York. Dopo essere entrato in contatto con il nostro negozio e la nostra community, ci ha segnalato la Midnight Half, una gara notturna con check point organizzata dagli Orchard Street Runners nella Grande Mela. Abbiamo deciso di prendere ispirazione da questo format e dalle alleycat, le gare ciclistiche urbane tra courier. Mind the Gap non ha regole, come nel Fight Club l’unica regola è ricevere l’invito ed evitare di parlarne con qualsiasi altra persona: se parli con qualcuno, non verrai più invitato. È un evento per runner moderni, che vogliono sentirsi parte di un movimento, condividendo questa esperienza notturna ed entrando in contatto con altre crew e persone. L’idea di community è alla base di tutto, Runaway vuol essere prima di tutto uno spazio aggregativo e MTG è pura aggregazione. Organizziamo due o tre MTG all’anno, i partecipanti sono circa 60 e devono completare circuiti variabili di circa 12 chilometri. Anche i checkpoint mutano di edizione in edizione e, normalmente, seguono un fil rouge tematico. Nelle passate edizioni, per esempio, i checkpoint sono coincisi con dei sexy shop o delle pescherie, quest’anno, visto il caldo estremo, abbiamo scelto delle fontanelle. I trofei ricalcano questi temi e sono sempre accompagnati da un sanpietrino e un piccione, elementi-simbolo di Milano. Nel tempo siamo riusciti a coinvolgere crew e runner di tutta Italia, e non solo. Ora stiamo pensando di aggiungere un’annuale edizione itinerante, ambientandola in altre città italiane. I runner sentono il desiderio di creare un movimento sportivo e culturale attorno alla nostra realtà, questo ci rende orgogliosi e ci spinge costantemente ad evolvere il format MTG, così come accade con tante altre attività parallele. A spingere il nostro impegno è anche la voglia di continuare a sentirci dare dei ‘bastardi’, perché vuol dire che i runner hanno faticato mentalmente e fisicamente, e si sono divertiti”















Photo Credits: Riccardo Romani
Text by: Gianmarco Pacione
Matildas – Il mondo ai nostri piedi
La serie Disney+ dedicata alla Nazionale australiana femminile
Il nickname della Nazionale femminile di calcio australiana è ‘Matildas’, termine che si riferisce alla bush ballad ‘Waltzing Matilda’, composta dal poeta Banjo Paterson nel 1895. Questo inno non ufficiale è anche il titolo della produzione Disney+ dedicata al cammino delle calciatrici australiane verso il Campionato del Mondo casalingo del 2023 (co-ospitato dai vicini neozelandesi).
Superstar globali come Sam Kerr, Ellie Carpenter e Mary Fowler vengono seguite giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, partita dopo partita. Tra gol e delusioni, istanti privati e folle urlanti, le loro intime dichiarazioni ci comunicano la volontà di rivoluzionare un intero sport e un’intera nazione, di cambiare la vita di milioni di giovani calciatrici e di gestire le pressioni di un momento storico senza precedenti.

Perché le ‘Matildas’ rappresentano un’eccellenza non solo da un punto di vista sportiva, ma anche per quanto riguarda la gestione dei diritti umani e femminili. L’iper positività del coach svedese Tony Gustavsson e le immagini di campo sono difatti intervalli tra profonde riflessioni e analisi sulla società contemporanea, sul rapporto tra donne e sport, e sul desiderio di progredire, attraverso l’esempio dentro e fuori dal campo, verso un futuro migliore per ogni atleta.
Per questo motivo “Matildas – Il mondo ai nostri piedi” entra nella nostra Watchlist come produzione essenziale per essere introdotti all’imminente Mondiale.
Photo Credits: Watchlist
Text by: Gianmarco Pacione
Behind the Lights – Alessandro Simonetti
La fotografia come catalogazione del genere umano, come viaggio tra culture e controculture
La galleria fotografica di Alessandro Simonetti è un’opera magna di ricerca sociale, è una catalogazione del genere umano, come citava una sua tesi accademica, che nell’elemento sportivo ha trovato una musa e una tela ideale. Dai playground newyorchesi al surf giamaicano, dal calcio migrante di Fuerteventura al leggendario wrestling senegalese, il raffinato occhio di ‘Zuek’ riesce a conciliare estetica e contenuto grazie ad un senso dell’istante e del contesto. Tutto parte dal desiderio e dall’urgenza di raccontare l’essenza dell’essere umano e le diversità di un mondo che resiste all’omologazione, fa subito comprendere Simonetti, parlandoci di una ricerca iniziata nel nordest italiano e proseguita nel vortice della Grande Mela.



“Ho cominciato a fotografare a circa 16 anni. È stato un processo naturale e osmotico. Bassano del Grappa, la città dove sono cresciuto, non era esposta ad enormi input, ma era insolitamente ricca a livello culturale. Skate, graffiti e musica formavano uno scenario trasversale, che ha funto da preludio per la mia ricerca artistica. Sono stato allevato da concerti hardcore, hip hop, punk e reggae, frequentavo centri sociali e in questo tipo di ambienti ho capito quanto fosse importante stare tra la gente. La mia fotografia si fonda su questo ideale sociale, sulla necessità di osservare e parlare di chi mi circonda. ‘Fuck you all’ di Glen Friedman è stata la mia bibbia, perché incarnava l’eclettismo di quegli anni ’90 ed evidenziava le infinite connessioni tra le diverse scene underground. Ma anche il cinema mi ha dato tanto. ‘L’Odio’ e ‘Do the Right Thing’ hanno fatto scattare un meccanismo estetico nella mia mente, così come ‘Wild Style’ e ‘Style Wars’, due produzioni dedicate all’universo del writing. Lo sport mi ha dato meno, in casa avevo due donne e non ho mai visto una Gazzetta o un GP di Formula 1 in televisione. Gli unici contatti con questo mondo erano le schedine che mio padre, ex pugile e figlio di un pugile, compilava al bar, oltre alle attese di mio nonno per eventi come il Giro d’Italia o il Palio di Siena… Ho giocato con reale passione e continuità solo a baseball, probabilmente sono stato attratto dall’esotismo di questo sport e sono stato interbase dei Crows, la squadra del mio paese, per anni. In generale sono cresciuto in un ambiente decisamente più artistico, ho anche frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, dove ho avuto modo di spaziare dall’approccio classico a quello più sperimentale. Quando ho incontrato la fotografia, però, ho immediatamente capito che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita”






E la fotografia ha determinato scelte enormi nella vita di ‘Zuek’, come il trasferimento oltreoceano, dove, poco più che ventenne, ha ricevuto una chiamata umana e artistica impossibile da ignorare. Nel turbinio della New York a cavallo tra due millenni, Simonetti ha trovato la propria Eldorado, superando un monumentale clash culturale e entrando a far parte di un ispirato circolo popolato da pionieri delle sottoculture urbane e artisti destinati alla leggenda. Nella città dove tutto parla di movimento e contaminazione, la ricerca estetica e culturale del fotoreporter italiano si è affinata, costituendo un riconoscibile e strutturato paradigma stilistico.
“Per me è stato un viaggio alla mecca. Non parlavo un buon inglese, ma sentivo il bisogno di chiudere un cerchio culturale e di esplorare la città che mi più mi aveva ispirato. Quella città poi è diventata la mia casa per quasi vent’anni. New York è un pozzo infinito di risorse, soggetti e storie. Per quattro anni ho fotografato ‘The Cage’, il celebre playground di West 4th, uno dei luoghi cestistici e sportivi più iconici al mondo. Credo che quel contesto sia il manifesto del potenziale narrativo di New York e delle sue logiche sociali. Le prime settimane è capitato che i giocatori mi chiamassero ‘fakeass cameraman’ e mi urlassero di andare via. Ero l’unico fotografo bianco, ed ero europeo. A distanza di qualche tempo, però, sono riuscito a farmi accettare, uno dei personaggi di spicco della community è perfino arrivato a definirmi ‘official photographer’. Ha usato un tono scherzoso, ma ha fatto comprendere a tutti che il mio status era cambiato. Ecco, possiamo dire che la serie sul West 4th riassuma a pieno il mio modo di fotografare oggi”




Ma lo streetball è solo una nota del flow sportivo che intreccia ripetutamente la galleria fotografica di Simonetti. Viaggi, culture e, soprattutto, controculture hanno permesso a ‘Zuek’ di entrare in contatto con microcosmi atipici, dove lo sforzo atletico si trasforma in un fondamentale strumento per la conoscenza complessiva di ogni soggetto e della rispettiva dimensione esistenziale. Tecnicità e curiosità sono i capisaldi che definiscono una produzione magmatica, eppure lineare, divisa tra ritratti iconici e realtà senza filtri: un’indagine documentaristica che mai smette di mettere in relazione superficie e profondità.
“Le culture di strada hanno segnato il distacco completo dalla mia breve esperienza negli sport organizzati. Negli anni ’90 le Counter Cultures erano agli antipodi rispetto al tifo organizzato dello stadio o la passione per i motori. Lo skate e lo snowboard, invece, mi attraevano per l’assenza di regole e uniformi seriali. Le origini di questi due sport non erano lontane, potevo facilmente arrivare alla fonte dei pionieri ed entrare in contatto con loro. In un certo senso durante e dopo l’adolescenza sentivo di essere parte di qualcosa di nuovo, che era legato fortemente alla musica, a culture trasversali e ad un differente concetto di ‘uniforme’. Per questo mi ha sempre attirato l’aspetto culturale di una determinata situazione sportiva, non m’interessa l’aspetto numerico o statistico. Al Mondiale di calcio preferisco un ragazzino che gioca per strada, per intenderci. Lo sport, poi, è ovunque. In Giamaica, per esempio, è impossibile non imbattersi nell’elemento atletico e nelle sue più disparate sfaccettature. In quel Paese ho fotografato Usain Bolt, ma anche fantini, surfisti, skater e pugili sconosciuti. Ad Haiti, poco dopo il terremoto, mi è capitato di soffermarmi su una piccola squadra di calcio. A Fuerteventura ho trovato dei migranti che giocavano tra le dune del deserto, mentre in Senegal ho documentato il wrestling tradizionale. Nella mia visione la cornice storico-antropologica è più importante dell’aspetto estetico, dà allo scatto un valore e un peso differente, gli regala concretezza. In passato mi hanno ispirato tanti ritratti fatti a celebrities come Tyson o Ali. Le loro fotografie sul ring sono sicuramente evocative, ma se devo pensare ad uno scatto iconico, che sopravviverà nel tempo, non penso ad un jab di Tyson, penso alla sua foto in ciabatte e vestaglia, accompagnato dalla tigre personale… È un discorso di energia e di forza narrativa”


Energia e forza narrativa hanno plasmato anche la produzione ‘commerciale’ di Simonetti, che nella terra promessa americana ha avuto modo di osservare e cristallizzare con la propria lente anche il panorama fashion. Anche in questo caso un’evoluzione figlia di un lungo processo di assimilazione, cominciato nelle serate adolescenziali, tra streetwear e workwear, e proseguito oltreoceano contaminandosi con le necessità di comunicazione di brands commerciali e fashion. Oggi il viaggio di ‘Zuek’ prosegue però dove tutto è iniziato, nel Bel Paese, dove la sua lente ha deciso di fare ritorno alla ricerca di nuovi, vecchi stimoli.
“Quando ho preso la Reflex in mano per la prima volta, l’abbigliamento coincideva con il concetto di divisa, era un’epoca ‘militante’. C’era il tema di appartenenza ad una determinata scena, e quest’appartenenza veniva definita da quello che indossavi. Se vedevo qualcuno con le Puma Clyde o Suede, per esempio, sapevo era connesso all’universo hip hop. Agli inizi degli anni ’90 ho collaborato con uno dei primi brand streetwear italiani, Broke, ricordo ancora uno shooting con un SUV gigante insieme al gruppo rap Colle der Fomento, per l’epoca era stato qualcosa di inusuale. Sono passati tanti anni da quel tipo di estetica e mi rendo conto di quanto recentemente abbia invaso anche l’high fashion… Sono passati tanti anni anche dal mio trasferimento a New York e ho deciso da poco di fare ritorno in Italia. Il mio occhio si era ormai abituato, non sentivo più la stessa spinta interiore, avevo bisogno di una sfida eccitante e di un nuovo capitolo della mia vita. E, dopo tutto quello che ho assimilato oltreoceano, sarà interessante tornare ad indagare soggetti italiani. Ho voglia di questa interessante e paradossale sfida visiva. Il nostro Paese è anche una base eccellente per viaggiare in Africa o in Asia, dove sicuramente produrrò reportage in futuro, ritagliando sempre dello spazio all’elemento sportivo”
Fighter, allenatore, globetrotter: Alessio Ciurli
Dai tatami italiani alla UFC e agli ottagoni di tutto il mondo, visioni e prospettive di un maestro del fighting
Nessun campione nasce dalle linee guida. Tutti i campioni nascono uscendo dal seminato, ognuno a modo proprio. Lo studio, in uno sport complesso come le MMA, è solo una base che segna la via. Poi è tutta una questione di adattamento, e per l’adattamento è necessaria l’esperienza sul campo. Quando alleno fighter di altissimo livello, come Leon Edwards, attuale campione del mondo pesi welter UFC, mi rendo conto che non sto aiutando un ragazzo che potrebbe perdere una banale gara, ma un atleta che compete per borse di milioni di dollari. Devo essere sicuro al 100% sul piano tecnico, fisico e mentale. E devo dargli nuove soluzioni, nuove opzioni che ruotino attorno ai suoi punti di forza. Un giorno, durante una sessione di boxe, Leon mi ha confidato di non aver mai visto una tecnica che gli avevo mostrato. Ecco, quella per me è la più grande soddisfazione”



Alessio Ciurli è un fighter, un allenatore e un globetrotter delle arti marziali miste. Il suo viaggio tra ring e ottagoni, partito dalla bella Toscana, ha incrociato alcuni dei personaggi e dei luoghi più sacri di un intero universo sportivo, quello della lotta codificata. Allevato dal judo, Alessio nel tempo è stato prima un pioniere per il movimento italiano overseas. Poi, quasi per caso, si è trovato a mettere a disposizione le proprie profonde competenze per forgiare i successi di alcuni dei migliori fighter al mondo. Una scalata faticosa e visionaria, cominciata guardando Rocky in televisione.

“Il mio primo amore è stata la boxe, tutta colpa di Rocky. Da piccolo però ho iniziato con il judo e ho continuato a stare sul tatami per 30 anni, arrivando a calcare importanti palcoscenici internazionali. Poi, durante un ritiro con la Nazionale, ho subito un grave infortunio al ginocchio. Nel periodo di riabilitazione ho deciso di contattare Hector Lombard, ex judoka e leggenda per organizzazioni come UFC e Bellator. Da tempo mi ero appassionato alle MMA e, grazie alla mediazione di Hector e di Alessio Sakara, figura cruciale per il movimento italiano, ho deciso di lasciare l’Italia per andare negli States e unirmi all’American Top Team. Mi sono formato là, in una palestra di altissimo livello, dove ho trovato una vera e propria famiglia. Per otto anni ho speso almeno sei mesi in Florida, facendo fronte a problemi economici e di visto, ma cogliendo l’opportunità di connettermi a celebri coach come Everton Oliveira, che mi hanno dato degli strumenti senza eguali. Il passo successivo è stato il trasferimento a Dubai durante la pandemia. Ad Abu Dhabi la UFC continuava ad organizzare eventi nonostante la difficile situazione globale, sono volato lì e ho preso parte a un camp con fighter di altissimo livello, come Tai Tuivasa. Molti tra loro hanno iniziato da subito a trattarmi come un coach per le mie conoscenze tecniche, chiedendomi consigli e lezioni private. In questo modo sono riuscito ad allenare per alcune settimane il campione mondiale Leon Edwards e l’altrettanto celebre Darren Till”

Fighter e allenatore. La condizione ibrida e complementare del 41enne Alessio Ciurli è fondata sullo studio scientifico e istintivo del gesto, sull’esplorazione della persona prima, dell’atleta poi, sull’analisi di abitudini e potenziale inespresso. Recentemente tornato in patria, al termine di un lungo pellegrinaggio marziale, ora Ciurli è intenzionato a proseguire entrambe le carriere, provando, da un lato, a tornare a combattere nelle maggiori promotion europee e, dall’altro, a plasmare una nuova generazione di talenti del fighting.
“Il mio focus ora è sull’interrompere due anni d’inattività forzata. Voglio tornare a Miami, iniziare un camp e vedere come reagisce il mio corpo. Durante la pandemia avevo ricevuto un’offerta importante da una promotion russa, per un titolo mondiale. So che nella mia categoria, quella dei 70 chili, posso essere estremamente competitivo e togliermi ancora delle grandi soddisfazioni. Allo stesso tempo mi piacerebbe aiutare qualche giovane ad arrivare nel gota delle arti marziali miste. Tra i fighter già famosi e attestati mi stimola l’idea di aiutare un connazionale, Marvin Vettori, specialmente a livello di judo. Ammiro la sua dedizione. Per diventare campioni bisogna dedicare tutto alle MMA, non esistono aperitivi o feste, e Marvin è un italiano atipico sotto questo punto di vista. L’esempio di Leon Edwards insegna molto: durante le settimane trascorse a Dubai, dove tutto è divertimento, non gli ho visto toccare un goccio d’alcol… Questo differenzia chi può farcela da chi ce la fa. Tra i fighter c’è anche un’ulteriore differenza, che ho imparato a scoprire negli anni: è la differenza tra i buoni atleti, i campioni e le altre bestie. Hector Lombard, per esempio, rientra in quest’ultima categoria di superdotati. Un altro atleta che mi piacerebbe allenare, proprio per questo motivo, è Khamzat Chimaev, attualmente imbattuto tra i pesi welter UFC. Indipendentemente dai nomi, il mio obiettivo resterà sempre quello di fare al meglio il mio lavoro e di comunicare al meglio la mia passione, il fighting”
Alessio Ciurli
Text by: Gianmarco Pacione