Le fibre di Napoli
Anatomia visuale dello storico Scudetto napoletano, un reportage di Fabien Scotti
Tutti amano le storie degli underdog. Fino alla cocente sconfitta e al rimpianto. Le squadre di calcio sono uno spazio freddo, dove il pragmatismo e la forza finanziaria prevalgono, spesso testando e portando al limite la lealtà dei romantici. Per la maggior parte della nostra decade l’SSC Napoli ha giocato un calcio stravagante nella, almeno secondo stereotipi, austera Serie A, ma l’inevitabilità della sconfitta contro l’egemonia del Nord ha mutato la sua gloria passata in un sempre più distante ricordo. Più gli Azzurri si avvicinavano al paradiso, più dolorosamente crollavano. Rappresentavano lo sfidante archetipico, incarnavano un ruolo secondario nel vasto film della Serie A: una pellicola plasmata da maglie a righe e ineguaglianza socioeconomica tra Nord e Sud.








Pochi potevano prevedere un copione diverso all’inizio dell’estate 2022, soprattutto considerando la partenza di diverse leggende del club. Nel corso della stagione, però, l’estro caratteristico del Napoli ha continuato a tradursi in vittorie, lasciando spazio all’ottimismo e alla speranza che questa volta le cose sarebbero potute andare meglio. Questa domenica la stagione 2022-23 volge al termine, con la squadra che gioca l’ultima partita del campionato di Serie A contro la Sampdoria, ultima in classifica. La partita è solo un’occasione: il Napoli è già stato incoronato campione. Tuttavia, questo pomeriggio assume connotati molto più rilevanti dell’incoronazione stessa. Per il club e per i suoi tifosi è una giornata di pura estasi, priva di aspettative o timori, delle cose che un tempo erano e che ora non sono più. Le strade, vestite di blu, sono una galleria a cielo aperto per questo senso di euforia condivisa.










Il Napoli non vinceva lo Scudetto dal 1990, da quando ‘El Pibe de Oro‘ aveva trascinato la città verso l’immortalità calcistica. Fotografie e formazioni di quella squadra offrono uno scorcio dell’era pre-Bosman, di un’epoca completamente diversa. Il Napoli 2022-23 aveva invece un volto diverso. A livello culturale fungeva da cassa di risonanza per l’intera città e per le fibre delle sue diverse comunità. Riunite in un insieme coerente, le idiosincrasie dei giocatori e la pluralità delle loro storie hanno dato alla squadra caratteristiche a cui molti potevano connettersi. Di nuovo, finalmente, come vincitori. Ma la maschera di affermazione collettiva rimane la stessa. Trascende il tempo, la vittoria o la sconfitta. Per i fedeli del Napoli, vecchi e giovani, locali e stranieri, gli anni di frustrazione, che ora si dissolvono tra i fumi nel cielo azzurro della città, hanno reso l’attesa ancora più gustosa.




Photo Credits: Fabien Scotti
Testo a cura di: Witold Mucha
Game Changers – Christopher Raeburn
Circolarità e sostenibilità rimano con heritage personale e passione sportiva nella mente dietro il virtuoso brand RÆBURN
“Quando studiavo al college, le persone mi chiedevano a quale designer o brand volessi ispirarmi. Non riuscivo a dare una risposta precisa, pensavo fosse un problema. In realtà ero semplicemente ossessionato dalle cose del passato, in particolare da pezzi militari originali. Molti miei colleghi erano già allineati a realtà o figure preesistenti, mentre il mio punto di vista era differente. Non sapevo definire che tipo di designer fossi, ma ho iniziato inseguendo le mie idee e sono stato fortunato”
L’evoluzione nasce dal passato. O meglio, l’evoluzione nasce da un nuovo rapporto con il passato, dal suo studio e dalla sua reinterpretazione sostenibile. Christopher Raeburn per il fashion è divenuto ben più di un innovatore. Grazie al suo legame adolescenziale con memorabilia militare e uniformi usate ha cambiato le prospettive di un’intera industria, divenendo attore protagonista di un necessario processo globale: la reinvenzione di un rapporto estremamente negativo, quello tra moda e sostenibilità.
Passione e istinto hanno portato questa mente raffinata, allevata dai placidi panorami dell’Inghilterra meridionale, a fondare l’omonimo brand RÆBURN e a tracciare la strada verso un design responsabile ed intelligente, dedicato tanto alla funzionalità e all’estetica, quanto alla preservazione ambientale. La sua filosofia e il suo team stanno creando adepti in tutto il mondo da oltre un decennio, e stanno permettendo d’infrangere il tabù più oscuro della storia di un’intera industria. Ma partiamo dall’origine.



“Sono cresciuto nelle campagne del Kent insieme a due fratelli. I nostri genitori ci hanno insegnato ad apprezzare la natura. Vivere in una zona isolata ha sprigionato la mia creatività: quando sei un bambino e il negozio più vicino è a miglia di distanza, devi continuamente trovare modi diversi per divertirti. Tra i 12 e i 18 anni ho fatto parte degli Air Cadets, un’organizzazione che avvicina i giovani alla Royal Force. Amavo il calcio, la MTB e il downhill, ma una volta al mese gli Air Cadets ci permettevano di fare cose meravigliose, come imparare a pilotare aerei ed elicotteri. Tutti usavamo delle divise vecchie e terribili, perché costavano poco, così ho iniziato a studiare e a comprare altre uniformi e materiali. Stavo già creando il mio archivio senza saperlo. Curiosamente nel Kent c’è anche una delle più grandi fiere d’Europa dedicata ai materiali militari, mi ha sempre affascinato. Andavo lì il primo giorno, per osservare le cose più rare, e l’ultimo, perché i venditori abbandonavano pile di materiali che ritenevano inutili. Quando ho cominciato il College mi sono reso conto che quei materiali tecnici e waterproof erano gli stessi utilizzati dalle grandi aziende fashion, e spesso risultavano introvabili. La decisione di fondare un brand sostenibile è il prodotto di questo naturale processo cognitivo”
Dalle fiere militari alle passerelle. Da quell’ormai lontana genesi creativa, circolarità e remade mai hanno smesso di rimare con consapevolezza e heritage personale all’interno degli avveniristici laboratori RÆBURN, che sono riusciti a divenire benchmark per una miriade di attori primari, e non solo, del panorama fashion. Oggi il quarantenne Christopher Raeburn dirige dalla propria base londinese l’ascesa di un brand divenuto manifesto dell’insperata sinergia tra ecosistema naturale e produzione fashion. Lo fa ispirando e facendosi ispirare, procedendo in una direzione essenziale non solo per il destino della propria industria, ma per la salvaguardia dell’intera umanità.
La fashion industry ha dimostrato di avere il potenziale per rinnovarsi velocemente. Negli ultimi decenni ho visto anche cambiare la narrativa legata alla sostenibilità. Vent’anni fa ho ideato la mia prima remade jacket ed è stata recepita come una proposta estremamente radicale. Poche stagioni dopo quel primo progetto, tutti potevano già riscontrare esempi tangibili di quanto la filosofia green avesse iniziato a penetrare concretamente le vision di moltissimi brand. Ripeto, non molte industrie hanno la possibilità di evolversi agli stessi ritmi dell’industria fashion. Sono dinamiche spinte specialmente dai grandi brand sportivi, che sono continuamente focalizzati sulla ricerca di nuovi materiali. Quando ho fondato il mio brand alcuni materiali riciclati costavano in media il 30-50% in più rispetto a materiali non riciclati, oggi hanno un costo equivalente. Allo stesso tempo la digitalizzazione e i social ci stanno aiutando a comunicare determinati valori e azioni, e la tecnologia in generale sta aprendo vie infinite per la sostenibilità fashion. In quest’industria così caotica ci sono molti margini per ridurre i rischi d’inquinamento e gli sprechi, basta essere intelligenti. Tutto può essere utile: agli esordi del mio brand ho scoperto per esempio la preziosità dei paracaduti. Pensate che ogni paracadute, anche se mai utilizzato, viene dismesso dieci anni dopo la sua creazione e i suoi materiali possono essere riutilizzati per l’abbigliamento”






I razionali, quanto avveniristici dogmi di Christopher Raeburn paiono delle verità assolute così potenti, eppure così complesse da tradurre in azioni. Sono punti cardine da cui ogni maison e ogni catena di produzione dovrebbero attingere, plasmando una nuova direzione collettiva. Sono il progresso che smette di essere stile fine a sé stesso, sublimando il design nell’attivismo. Ecco perché giganti come Timberland e Moncler si sono affidati al pensiero di questo innovatore inglese, ecco perché brand iconici come Vans hanno voluto collaborare con l’universo mosso dalla filosofia ‘RÆMADE, RÆDUCED, RÆCYLED’, ecco perché la mente di Christopher ha deciso di cominciare ad incidere sul tanto amato panorama sportivo.
“There’s only one real question: how can we effect change and make a difference on a global scale? I get to collaborate with various brands to pursue this goal. I am talking about universally recognized brands; for example, I’ve been developing a shared path for a while now with Timberland. My team and I assess every collaboration because we want it to be credible and fair. It’s true; we are sometimes cynical, but we have to protect our values. Sports is also part of this thinking. Our collection with Vans, for example, the iconic brand linked to skate culture and the concept of sports functionality. Or the recent development of the KIT:BAG project, entirely dedicated to football. Football has been a common thread in my life since 1991 when I fell in love with Tottenham, who won the FA Cup that year. I was nine years old and couldn’t imagine my favorite team ever losing again…. I always follow cups and leagues, and not long ago I began to wonder where the kits of the various Premier League teams ended up at the end of a single season. Every year, the Premier teams alone produce about 19 million jerseys for their fans, so many go unsold. This is a huge waste, and we thought we could reuse those jerseys to create special bags, which can then be recycled. The momentum is building now as more and more teams are taking an interest in this issue. And these numbers are just about the Premier League, can you imagine?. KIT:BAG and other similar projects can be replicated for other football leagues and huge associations like the NFL and NBA. We need help to fix this trend, so I’m trying to get other brands involved, as well as the athletes and sports clubs themselves.”





Nella testimonianza di Christopher Raeburn ritorna spesso la parola ‘responsabilità’. La responsabilità del presente. La responsabilità del futuro. La responsabilità di un’industria che troppo a lungo ha sacrificato questo termine sull’altare del fatturato. Oggi il senso d’urgenza è chiaro e potente, confida il designer inglese alla fine di questa fertile chiacchierata, alternando drammatici scenari futuri a orizzonti che possono e devono divenire positivi grazie alla sensibilità e all’operato di tutti noi.
Abbiamo un’enorme quantità di lavoro, perché sarebbe folle pensare che tutto sia già ok. Tutti possiamo fare di meglio, tutti possiamo essere educati ed educare alla circolarità. Il mondo è pieno di cimiteri di vestiti, sarà difficilissimo smaltire gli esiti di pratiche negative come l’overproduzione di capi e materiali. Ma sono fiducioso, la mia speranza è che si concretizzi un futuro al momento utopico, dove il fashion smetterà di pesare sulla Terra e addirittura arriverà ad aiutarla. Certo, non sarà un viaggio semplice”
Watchlist – Tour de France: Unchained
Un’intima e romantica opera documentaristica dedicata alla meraviglia senza tempo della Grand Boucle
Pochi eventi al mondo vantano l’epica e la mistica che circondano il Tour de France. La corsa gialla è dal lontano 1903 un romanzo costruito su lacrime e fatica, è una folle maratona ciclistica ideata dal geniale ‘tiranno’ Henri Desgrange e abbracciata da atleti leggendari. Aneddoti, imprese e fallimenti hanno reso il Tour una celebrazione senza tempo di un intero movimento sportivo e di un intero Paese, dipingendo, generazione dopo generazione, un’opera d’arte tanto tragica, quanto romantica.


Tour de France: Unchained‘ è la produzione Netflix dedicata alla Grand Boucle e ai suoi eroi contemporanei. A poche settimane dalla 110ª edizione della corsa a tappe più dura del mondo, questa serie ci permette di scoprire i lati più intimi della scalata verso gli Champs-Élysées. Tappe, emozioni individuali e dinamiche di ogni team s’intrecciano, raccontandoci sia le caratteristiche dei singoli protagonisti, sia le difficoltà gestionali di quest’enorme e complessa macchina sportiva.
Le ali di folla dell’Alpe d’Huez, il rapporto tra Van Aert e Jonas Vingegaard, l’imperitura grandezza di Geraint Thomas, la vita bucolica di Pinot e l’incredibile risurrezione sportiva di Fabio Jakobsen sono solo alcuni topic messi in rima da questa emozionante serie, che entra di diritto nella nostra Watchlist.
Photo Credits: Netflix
Testi di Gianmarco Pacione
Tra sottoculture e ciclismo, l’arte di Cento Canesio
Dal writing alla scatto fisso, dalle metropolitane ai telai, l’universo illustrato del creativo italiano
Nel 1989, a 14 anni, mi sono appassionato allo skate e la tavola è stata la principale porta d’accesso ad una serie di nuove influenze musicali, estetiche e stilistiche. All’epoca sfogliavo i pochi magazine specializzati che venivano distribuiti in Italia, in uno di questi ho trovato una foto che ha cambiato tutto: c’era una Renault 4 affrescata dalla scritta ‘funky’. Sono tornato a casa, ho cercato una bomboletta spray e sono andato a riprodurre la stessa scritta su una casa cantoniera, disposta lungo la linea ferroviaria. Senza realmente saperlo, avevo appena scoperto i graffiti. Di lì a poco sarebbero diventati la mia attività principale”




Prima dei telai illustrati e del bikepacking. Prima delle mostre personali e della scatto fisso. Prima del fenomeno artistico e ciclistico di Cento Canesio, c’è l’origine provinciale, eppure estremamente variegata, di una mente creativa allevata dalle sottoculture urbane: le sottoculture di Treviso, piccola città del nordest italiano, che a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 ha assistito ad un’inattesa proliferazione di scene ribelli, identità creative e brand streetwear.



"Non so perché, ma Treviso è sempre stata un polo d’attrazione per varie sottoculture. Sono cresciuto frequentando un locale mitico, dove si riuniva uno strano mix di scene. Skin, punk, hardcore, hip-hop… Tutti convivevano e si contaminavano a vicenda, sembrava una versione pacifica di ‘This is England’. C’era un’energia fantastica, che pervadeva anche il mio liceo artistico. Queste vibe si ramificavano in progetti come Broke Clothing, uno dei primi brand streetwear italiani, fondato da tre amici. Grazie a uno dei soci, Stefano, mi sono appassionato alla grafica e sono diventato quello che sono ora. Davo una mano nei loro magazzini e con i risparmi da pony express ho comprato il mio primo Mac, diventando un grafico autodidatta. Quando il loro grafico, un noto pioniere del writing trevigiano, ha lasciato il suo posto, ho colto l’opportunità. Contemporaneamente ho proseguito con il writing, girando il mondo alla ricerca di treni e jam. Mi dava una libertà senza paragoni. Dipingere la metro di New York è stata la mia più grande emozione, è stato come per un ciclista partecipare a un’edizione del Giro d’Italia… Era la rivalsa del provinciale, era un’investitura, era la ‘conquista’ della Mecca”



Spadino, Speed, Sale, Lizer, Tigre, Cento e, infine, la magica formula Cento Canesio. Stefano Bressan ha smesso da tempo di avere un nome e un cognome. L’evoluzione dei suoi tag combacia con l’evoluzione della sua identità, ma anche con il mutare delle sue passioni sportive e della sua professione. Dallo skate al bike polo, dalla moda all’arte pura, passando per le vorticose traiettorie dei go-kart e l’inesauribile desiderio di lasciare la propria firma in ogni metropoli: la parabola di questo creativo è alternativa e affascinante, come la traccia di un alleycat, come i lineamenti del suo omonimo cane-illustrato.


“Per molto tempo ho guidato i go-kart, come mio padre, concludendo la mia carriera con un terzo posto ai Campionati Europei Under 18. Senna era un mito a casa e mio fratello è ancora oggi un pilota professionista in America. Ma i motori non erano il mio focus, preferivo fare i graffiti, e la passione per il volante nel tempo è andata scemando. Mi sono innamorato della bici recentemente, nel 2007, quando c’è stato il boom delle scatto fisso. Tanti miei amici che provenivano dal mondo dei graffiti e dello skate hanno improvvisamente iniziato a cercare e rielaborare i telai: mi sono unito a loro. Nella prima ride ho vissuto lo stesse sensazioni che avevo provato grazie allo skate. L’odore, l’energia, la possibilità di essere wild e senza freni nelle strade… Le analogie erano e continuano ad essere moltissime. Poco dopo ho deciso che non avrei più guidato la macchina e che mi sarei spostato unicamente in bicicletta. La fixie mi ha introdotto anche a tutte le altre dimensioni ciclistiche (gravel, bikepacking, ciclismo tradizionale) e al bike polo, uno sport punk, praticato dalla nicchia della nicchia, autogestito e capace di esaltare il concetto di community. Il bike polo è passione pura, come il writing, e mi ha permesso di fondare i Tigers BPC insieme a due amici. Con loro ho partecipato a tantissimi tornei, tra cui i Campionati del Mondo di Seattle nel 2011. La nostra squadra è una delle più longeve a livello mondiale e si è trasformata in una community unita dallo spirito goliardico e dalla volontà di condividere l’amore per ogni forma di ciclismo. Capsule collection, eventi e feste ci permettono ancora oggi di tenere unita e continuare ad allargare la nostra community”


Arte e bici hanno tanto rapidamente, quanto inconsciamente cominciato ad intrecciarsi nella vita di Cento Canesio, definendo una nuova dimensione lavorativa e personale. Le sue celebri illustrazioni a tema animale ora affrescano telai e oggetti ciclistici, tracciando una singolare sinergia tra le due ruote e il writing, e definendo una maturità sia artistica, che umana, popolata da ironia, forza visuale e, ovviamente, ispirate pedalate.

“Nel 2016 ho deciso di abbandonare il lavoro da grafico per vivere con i miei disegni. La mia prima collaborazione con un brand ciclistico è avvenuta con Open Cycle. Ho disegnato 10 biciclette in limited edition, con una di quelle bici ho poi partecipato ad eventi come la Transcontinental Race, la North Cape 4000 e l’Italy Divide. Disegnare sulle bici mi permette di riprendere e rimodulare gli ideali alla base del writing: i graffiti viaggiano insieme a treni e metro, e i miei disegni ora viaggiano insieme alle biciclette. Al di fuori del lavoro, la bici è diventata il mio sfogo. Prima era il disegno a giocare questo ruolo, ma ha smesso di farlo quando la produzione artistica si è evoluta nel mio lavoro primario. Le due ruote sono diventate parte di esso, ma rappresentano anche molto, molto di più nella mia vita. E continueranno a farlo”