Sulla Strada del Giro
Benvenuti nei mistici luoghi dove tutto si tinge di Rosa
Alle pendici delle Tre cime di Lavaredo l’aria è rarefatta. Le nubi vanno e vengono: sprazzi di sole, poi qualche goccia, poi ancora sole. Dal rifugio Auronzo si sentono urla riecheggiare in valle, ogni tanto arrivano anche dei boati e viene da chiedersi cosa stia succedendo dato che al passaggio dei ciclisti mancano ancora parecchie ore.
Scendendo lungo il percorso della tappa si può notare chi è già organizzato con tende montate, griglie fumanti e birre ghiacciate; in tanti scrivono il nome del proprio idolo sulla strada; qualcuno riposa sull’asfalto, stremato dopo aver conquistato la salita che tra poche ore vedrà protagonisti gli eroi del Giro; altri cantano e brindano in compagnia. Tutti si sentono a casa, come vivessero da sempre ai bordi di quella salita. Provando a chiedere cosa porta una persona a seguire un evento itinerante che dura tre settimane come il Giro d’Italia, prendendo pioggia, sole e vento, le risposte che ricevo sono perentorie e riassumibili in una singola frase: “è così che mi sento vivo”.








Alle pendici delle Tre cime di Lavaredo l’aria è rarefatta. Le nubi vanno e vengono: sprazzi di sole, poi qualche goccia, poi ancora sole. Dal rifugio Auronzo si sentono urla riecheggiare in valle, ogni tanto arrivano anche dei boati e viene da chiedersi cosa stia succedendo dato che al passaggio dei ciclisti mancano ancora parecchie ore.
Scendendo lungo il percorso della tappa si può notare chi è già organizzato con tende montate, griglie fumanti e birre ghiacciate; in tanti scrivono il nome del proprio idolo sulla strada; qualcuno riposa sull’asfalto, stremato dopo aver conquistato la salita che tra poche ore vedrà protagonisti gli eroi del Giro; altri cantano e brindano in compagnia. Tutti si sentono a casa, come vivessero da sempre ai bordi di quella salita. Provando a chiedere cosa porta una persona a seguire un evento itinerante che dura tre settimane come il Giro d’Italia, prendendo pioggia, sole e vento, le risposte che ricevo sono perentorie e riassumibili in una singola frase: “è così che mi sento vivo”.







Al passaggio dei corridori professionisti tutto è enfatizzato. È sin dalle prime luci dell’alba che si incita a voce chi sta salendo, ma quando quelli che salgono sono gli eroi del Giro, oltre alle urla si aggiungono anche trombette, clacson artigianali, fischietti, campanacci delle mucche e qualsiasi oggetto possa fare un casino infernale. Ognuno dei presenti vuole dare man forte a chi sta lasciando tutto ciò che ha su quei pedali.
A questo punto della Tappa – pochi km all’arrivo – l’obiettivo della vittoria è un lusso che possono permettersi in pochi, quindi per gli altri l’aspirazione è arrivare in cima. Esattamente come i tifosi saliti in bici qualche ora prima. E qui il cerchio si chiude: tutti hanno visto la gara, tutti hanno fatto la stessa salita dei Pro, tutti hanno partecipato nelle ore antecedenti e tutti hanno urlato al passaggio di tutti i ciclisti. Migliaia di persone assiepate sullo stesso versante della montagna estasiate dallo spettacolo che offrono i ciclisti e la natura che li circonda.




Spesso, quando si assiste ad un evento sportivo, viene talmente tanta voglia di partecipare che una volta finito l’evento ci si chiude in palestra per buttar fuori quel desiderio. Quando si assiste ad una gara ciclistica, invece, anche solo per aggiudicarsi un buon posto per vedere la salita, si sta già partecipando. E se, come diceva qualcuno, “libertà è partecipazione”, allora una tappa di montagna del Giro d’Italia è un entusiasmante momento di Libertà.





Photo Credits: Rise Up Duo
Testi di Giorgio Remuzzi
Il caos calmo di Bernardo Henning
Esplosioni di colori, icone sportive e DNA argentino: benvenuti nel magico mondo di questo artista sudamericano
L’Argentina è un Paese enorme, viaggi tra luoghi sovrappopolati e confusionari come la mia città, Buenos Aires, e scenari naturali incontaminati. Caos e quiete si alternano. Bellezza e cambiamento si fondono. Devi adattarti per sopravvivere e trovare un giusto equilibrio. Questi dualismi si traducono nel mio lavoro, dove le immagini sono statiche, ma sembrano muoversi. Ecco perché mi piace lavorare su temi e soggetti sportivi, perché mi permettono di sublimare questi pensieri”


La creatività di Bernardo Henning supera le leggi della fisica, viaggiando tra colori sudamericani e icone sportive. Nelle opere grafiche di questo artista argentino la staticità si trasforma magicamente in dinamismo, sprigionando la forza cinetica di ogni ritratto fotografico. WNBA, Selección argentina, Nike e Giannis Antetokounmpo sono solo alcune delle tele visuali che la mente di Bernardo ha deciso di animare: processi che questo nativo di La Plata, ma abitante di Buenos Aires, ha coltivato tra loghi calcistici, street art e passioni sportive.

“Ho sempre amato disegnare. Ricordo che con alcuni compagni di classe passavamo ore a tratteggiare macchine e a ricreare loghi di brand connessi alla skate culture. Poi ho scoperto la storia dell’arte e la mia mente si è aperta: durante quegli anni ho capito che il graphic design sarebbe stata la mia strada. Sono sempre andato in skate, ma anche il calcio è una mia eterna passione. Da piccolo ero ovviamente affascinato dai loghi delle squadre. Nonostante fossi tifoso del Boca, ero innamorato del logo del Lanús e delle sue caratteristiche tipografiche. Queste influenze si sono poi traformate in street art e nella produzione di stickers che ho iniziato ad esporre in giro per la città. A Buenos Aires tutto è comunicazione e io ho iniziato a comunicare con personaggi stilizzati, non con i graffiti. Il lavoro nelle strade mi ha permesso di entrare in contatto con lo studio di graphic design Dogma, dove ho iniziato la mia carriera, e con alcuni street artist incredibili: penso per esempio ai London Police, a Pes e a Julian, conosciuto come Chu. Questi artisti per me erano vere e proprie stelle, avevo costantemente la sensazione di trovarmi nel posto giusto al momento giusto… Quello è stato un perfetto punto di partenza”


Se la produzione grafica è un divertissement divenuto professione, lo sport nella quotidianità di Bernardo è una pietra angolare divenuta terapia. Partite di basket, tennis, rugby e futsal scandiscono le giornate di questo argentino, regalandogli, tra un’ispirazione e l’altra, influenze estetiche e sollievo mentale. L’elemento sportivo è un qualcosa di cui puoi godere in ogni step della tua vita, confida Bernardo parlandoci anche del legame innato tra l’universo atletico e il design, e introducendoci una filosofia artistica dipinta di colori sgargianti e immagini iconiche.

“Tutto per me ruota intorno allo sport, anche la mia filosofia artistica. Il design è lì, in ogni maglia, in ogni cappellino connesso ai major sports americani. Il movimento è lì, in ogni azione, in atleti come Facundo Campazzo, il mio giocatore di basket preferito. Provo a creare illustrazioni che le persone possano amare, uso colori vividi e potenti per aumentare l’impatto di ogni immagine. Negli anni ho imparato cosa vuol dire produrre un qualcosa d’iconico. Faccio quello che mi piace, perché so che anche il pubblico, i brand e le aziende possono apprezzarlo. Quando ho tempo e non sono impegnato in incarichi commissionati, faccio cose che amo, perché so che possono essere funzionali per il mio lavoro, possono attirare l’attenzione altrui. Lavorare sulle fotografie non è difficile, le immagini mi chiamano e so che devo fare qualcosa. Vedo un ritratto e istantaneamente l’opera compare nella mia mente e dopo poco tempo ho già finito di realizzare il collage digitale. È un processo naturale, che mi sta dando la possibilità di lavorare con varie realtà e istituzioni sportive, come la WNBA e ESPN, o la Nazionale femminile argentina, che mi ha contattato per produrre dei contenuti relativi all’away kit del prossimo Mondiale. Sono orgoglioso di aver lavorato per la Selección e sono felice di aver animato una maglia ispirata alle nostre montagne e alla nostra natura. Ora sono impegnato in un altro grande progetto calcistico, che scoprirete tra poche settimane…”
E tra qualche anno, invece, scopriremo il destino di Bernardo. È una sua recente opera a introdurre questo tema, la scritta “La cosa peggiore che mi sia capitata come artista è essere un graphic designer”. Parole che uniscono l’ironia e la frustrazione di una condizione ibrida, di un equilibrio precario, eppure consolidato da logiche di mercato, fama ascendente e collaborazioni con grandi brand internazionali. Perché il graphic design ha plasmato i pilastri estetici di questo creativo argentino e la sua carriera lavorativa, ma oggi la dimensione artistica sta prepotentemente rubando la scena, delineando un futuro dedito alla più pura delle muse.


“This sentence started as a simple note on IG and immediately elicited so many reactions among my colleagues. A few months ago I had my first solo exhibition in Madrid and decided to display it. That catchphrase starts a conversation every time because it’s shocking, ironic and realistic. I’d like to make 100 percent artistic works, but I feel like I can’t do that because of all the theoretical notions I learned with graphic design. I’m not really free. At the same time graphic design forces you to communicate something, it’s a professional necessity. Art doesn’t impose that. I find myself in the middle, and it’s a complex condition. I’ve learned that I’ve to compromise and, at the same time, stay true to my artistic vision, even in commissioned work. It’s not easy. That’s why I see my future directed toward the artistic universe. I know that there will come a point when I’ll get tired of working for brands and, above all, I will not want to repeat myself: that will be the moment when I’ll have accomplished all the collaborations I’ve always dreamed of. I’m young and I still have a lot of energy, but as an old man I imagine myself painting huge canvas in a vast, brightly lit room…. I just hope to do what will make me feel good.”
Photo Credits: Bernardo Henning
Testi di Gianmarco Pacione
The Mirage
Il viaggio fisico, mentale e visuale di Runaway e della sua crew, un film girato e diretto da Achille Mauri nel cuore della Death Valley
Il deserto della Death Valley è un crocevia di forze mistiche e materiali. Tra Santa Monica e Las Vegas ogni sensazione si esalta, ogni percezione muta, ogni visione diventa un miraggio. È il miraggio della corsa in uno dei luoghi più ostili del globo, è il miraggio di 548 chilometri popolati da fatica e coraggio, è il miraggio del The Speed Project, una gara fisica e sensoriale aperta a 70 running crew internazionali.







‘The Mirage’ è il raffinato short movie che Achille Mauri (protagonista della cover di Athleta Magazine Issue 8) ha dedicato a questa bollente odissea, seguendo le gesta tanto contemporanee, quanto epiche, della crew milanese Runaway. Questo progetto visuale, supportato da Diadora e supervisionato dalla direzione creativa di Mental Athletic, traduce in immagini una dolorosa meraviglia di 48 ore, una danza della realtà ritmata da cactus, staffette e irrazionale resistenza che ha coinvolto anche il nostro recente intervistato Floriano Macchione.









Vi presentiamo l’intero film. Buona visione. Buon miraggio.
Credits: diadora, albaoptics, garmin
Photo Credits: Achille Mauri e Runaway
Testi di Gianmarco Pacione
Imilla Skate, la tavola è empowerment femminile e identità ‘Chola’
Il gruppo di pioniere boliviane capaci di unire skate e rivalorizzazione culturale, trick e rivoluzione sociale
Lo skate può essere uno strumento di emancipazione, di identificazione culturale, di connessione con la storia di un’intero Paese, di rivoluzione ed empowerment femminile. A Cochabamba, Bolivia, esiste un gruppo di ragazze che attraverso la tavola sta raggiungendo tutti questi risultati. Sono il collettivo ImillaSkate, sono giovani donne capaci di fondere vibrazioni contemporanee, radici andine, ribellione e progresso sociale. Hanno trecce lunghe e nere e indossano le ‘polleras’, le tipiche gonne che hanno colorato tantissime boliviane, specie delle zone rurali, negli ultimi secoli. In equilibrio sulle loro tavole professano messaggi chiari e universali, che ci comunicano ad un oceano di distanza.

“Lo skate è per tutti, non contano il tuo status sociale, il tuo Paese d’origine, il colore della tua pelle o il tuo genere. L’importante è sentirsi parte di una grande famiglia, è parlare un linguaggio universale. Lo skate è un’arte che ci permette di diffondere messaggi essenziali. La cultura andina e l’inclusione sociale sono una parte dei temi che tocchiamo con il nostro impegno collettivo. La nostra identità, l’identità ‘Chola’, l’identità di ogni donna boliviana, è il fulcro di tutto. Lottiamo per l’empowerment femminile, per abbattere lo stigma del machismo. Questo stigma è presente non solo in Bolivia, ma in tutto il Sudamerica. Nel nostro continente l’abuso e il femminicidio sono all’ordine del giorno, per le donne non c’è equità sociale e non c’è una vera e propria libertà. Richiamiamo l’estetica delle ‘mujeres de polleras’ perché a loro è vietato studiare all’università e lavorare in contesti evoluti. Queste donne sono emarginate e discriminate. Oggi sempre più ragazze stanno abbandonando o camuffando le proprie radici per adattarsi al mondo contemporaneo, perché non possono mostrarsi per quello che sono. Noi facciamo l’opposto, evidenziando il fatto che sono solo le qualità e le capacità individuali a contare… È importante la sostanza, non la forma”.


Dalle parole di queste giovani skater traspare una potente necessità: la necessità di cambiare il futuro partendo dal passato. Tradizioni e riforme nella loro quotidianità seguono lo stesso ritmo di trick e run, diventando un’unica, folklorica forma d’attivismo. La Bolivia è l’inatteso epicentro per le multiformi attività di questo collettivo: attività che stanno ispirando tantissime ragazze boliviane, ma anche community sparse in tutto il continente. Perché il progetto Imilla Skate riesce ad essere contemporaneamente locale e internazionale, ad unire la dimensione territoriale con l’esempio trasversale.


“La skate culture è arrivata in Bolivia nei primi anni ’90, come uno sport clandestino legato alla ‘calle’. Per molto tempo le donne non hanno usato la tavola. Poi sono spuntate alcune pioniere e, grazie al loro esempio, abbiamo deciso di creare il nostro collettivo. Vogliamo essere un esempio per le ‘ninas’ del nostro Paese e mostrare loro che possono praticare questa forma d’arte urbana. La reazione della nostra città è stata da subito molto positiva, stiamo riuscendo a cambiare la mentalità della gente e stiamo diffondendo i veri valori dello skate. Lo skate insegna che non importa quante volte cadi, puoi sempre rialzarti, e che volontà e perseveranza possono permetterti di abbattere qualsiasi barriera fisica e mentale. Sono delle metafore che possiamo applicare alle nostre vite e alle nostre battaglie sociali. Tante donne si sentono più libere grazie a Imilla, sono più sicure, negli ultimi anni abbiamo migliorato la nostra organizzazione e siamo riuscite a far partecipare 5 ragazze in eventi internazionali. Tutto è cambiato da quando lo skate è diventato uno sport olimpico, ma in generale sempre più bambine si stanno avvicinando a questo sport. È un effetto domino. Stiamo cercando di creare una rete latinoamericana di skater: Argentina, Paraguay e Brasile sono alcuni dei Paesi dove sono presenti collettivi analoghi al nostro. Non siamo ancora riuscite a viaggiare in questi luoghi, perché tutte noi lavoriamo o studiamo, magari un giorno ci riusciremo… Per il momento è fondamentale concentrare i nostri sforzi qui, in Bolivia. Vogliamo essere un appoggio non solo per chi vuole fare skate, ma per intere comunità. Stiamo sviluppando progetti come un centro culturale, stiamo coinvolgendo artisti urbani e musicisti, stiamo aiutando bambini che hanno avuto problemi durante le loro infanzie. Perché lo skate è un’arte, un’arte che deve aiutare“
Floriano Macchione, il running è multidimensionale
La corsa è il punto d’incontro tra passione, lavoro e progresso individuale, spiega il Global Running Brand Manager Diadora
“La corsa non sta tanto nelle gambe, quanto nel cuore e nella mente”, parole del più maestoso runner contemporaneo, Eliud Kipchoge. E nella corsa di Floriano Macchione cuore e mente rimano con ritmi e tempi, scelte ed evoluzioni, sfide sportive e orizzonti professionali. Dai Navigli al deserto di Las Vegas, dalle colline bolognesi ai laboratori di ricerca e sviluppo performance: il running nella quotidianità di questo atleta-manager veneziano ha molteplici dimensioni, la dimensione dell’allenamento e della gara, della libera e ragionata espressione stilistica, soprattutto la dimensione del leggendario brand italiano Diadora, in cui Floriano sta vestendo i panni di Global Running Brand Manager.
“Corro un centinaio di chilometri a settimana. Se non vado a correre entro pranzo, il pomeriggio diventa un incubo. È come se mi mancasse qualcosa, mi sembra d’impazzire, non so come spiegarlo… È una necessità fisica e mentale. Vorrei correre tutti i giorni nel deserto, ma non posso farlo. A Milano ho fatto sue e giù per i Navigli per un paio d’anni, su Strava avevo guadagnato il badge di ‘local legend’. Ora mi sposto molto e riesco a correre in altri luoghi, come sulle Colline del Prosecco, nei pressi della sede Diadora, o a Philadelphia, dove il brand ha la propria base americana. Il running è fondamentale per me stesso e per il mio lavoro: è un punto d’incontro di tanti differenti fattori, una passione che aiuta a rafforzare connessioni interne ed esterne all’azienda, a sviluppare rapporti umani e a migliorare le conoscenze professionali. In Diadora ho la fortuna di lavorare fianco a fianco con Gelindo Bordin, unico campione olimpico in grado di vincere anche la Maratona di Boston: è stimolante, lavoriamo insieme sui prodotti, testiamo le scarpe e comunichiamo costantemente. Abbiamo anche la possibilità di scherzare sulla mia attività di runner, lui mi prende spesso in giro. Qualche settimana fa, per esempio, ho corso il mio PB sui 10 chilometri: 36 minuti. Mi ha detto che quel tempo andava bene per fare la spesa…”



Nonostante la giovane età, Floriano Macchione può già vantare un percorso ricco e stratificato, una maratona personale cominciata nell’infinita solitudine di una porta calcistica, proseguita con un pioneristico Master in Strategia e Business dello Sport e culminata in un scenario podistico ibrido, diviso tra asfalto, terre inesplorate e scrivanie. Perché in un brand moderno si può essere atleti e dirigenti moderni, e Floriano è riuscito a fari trovare nel posto giusto al momento giusto, prima allevando il proprio immaginario e la propria filosofia sportiva nel colosso Nike, poi divenendo elemento cruciale per un’azienda, Diadora, che mai ha smesso di scrivere la storia della più democratica tra le arti sportive.
“Ho iniziato con il nuoto, nella mia stessa piscina veneziana si allenava una giovanissima Federica Pellegrini. Poi sono passato al calcio, dove ho fatto il portiere per molti anni. Lì ho scoperto il concetto e il valore della solitudine, che ho traslato nel running. La corsa è arrivata più tardi, quando avevo 21 anni. Era il 2010 e all’epoca si parlava quasi unicamente di jogging, dovevo camuffarmi quando uscivo a correre la sera. Il running era considerato un non-sport, una perdita di tempo utile solo a stare in forma o perdere peso. Quando sono entrato in Nike la percezione di questo universo sportivo era pronta a mutare, il mio stesso rapporto con la corsa era pronto a mutare. Nella sede di Bologna ho conosciuto l’ex mezzofondista Vénuste Niyongabo (primo campione olimpico della storia del Burundi ndr) e ho cominciato a correre sui colli con lui in ogni pausa pranzo. A Bologna ho partecipato alla mia prima mezza maratona e da quel momento il running per me è diventato qualcosa di molto diverso. In quel periodo storico la scena si stava evolvendo e quando mi sono spostato a Milano è letteralmente esplosa, sia per quanto riguarda la produzione del materiale tecnico, sia per l’attenzione ad altri elementi necessari per l’intera transizione, come l’estetica e la tecnologia, ma anche come i run club interni ai brand e le community sul territorio. Io ho semplicemente seguito quel flusso enorme di energie materiali e digitali, e ancora oggi lo seguo con passione e consistenza”





Dopo l’esperienza in Nike e il triste vuoto pandemico, Floriano Macchione ha deciso di ripartire dalla performance e dalla sfida personale, concentrando le sue forze su gare estremamente provanti. Il Circolo Polare Artico, il deserto di Petra e le lande sudafricane sono solo alcuni dei necessari test a cui il corpo e la mente di questo runner hanno deciso di sottoporsi per raggiungere una maturità complessiva, da riversare nella futura e attuale posizione in Diadora. Medaglie al valore capaci di attestare un expertise raro. Lauree sportive che, oggi, rendono questo polivalente professionista una risorsa estremamente rara.
All’inizio non avevo sponsor, ma sentivo di dover e voler fare quelle tre gare estreme. Erano un investimento per me stesso e per il mio curriculum. Per affrontare certe sfide bisogna essere degli atleti, o meglio, degli esseri umani estremamente meticolosi e preparati: credo che quelle esperienze siano state formative e fondamentali per arrivare a ricoprire il mio ruolo in Diadora. Nella mia nuova avventura lavorativa ho scoperto un’eccellenza del Made in Italy, un brand che riesce ad unire innovazione e artigianalità, conoscenza e identità. Tutto in Diadora si sviluppa in una precisa area geografica del Veneto: credo sia un grande punto di forza, è qualcosa che contraddistingue il brand e che mi ha affascinato fin dal primo momento. So che posso essere visto come un profilo fuori dagli schemi, ma in realtà sono molto legato alla mia azienda: credo moltissimo nella strada che ha intrapreso, e partecipare a questo processo mi diverte e mi appaga molto. Chiaro, ci saranno sempre momenti di frustrazione, ma gli stimoli continueranno sempre a prevalere. Come nel running”
Leo Colacicco, il calcio come origine di tutto
Non esiste calcio senza fashion e fashion senza calcio, insegna il fondatore di LC23
‘Stipe, ca trueve’, ‘Conserva, che trovi’, sentenzia un antico proverbio barese. E Leo Colacicco ha conservato ogni ricordo, ogni istante vissuto dentro e fuori il prato verde. Calciatore e tifoso, fanatico ed esteta. L’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, come la definiva Pasolini, nel background del fondatore di LC23 non ha rappresentato e non rappresenta un semplice passatempo. È qualcosa di più significativo, è un rapporto viscerale che oggi permette a questo brillante designer barese di vestire la propria squadra del cuore, così come di riversare un infinito carnevale di gol ed emozioni nella genialità delle proprie creazioni stilistiche.
“Il calcio è il mio sport preferito in assoluto. Da bambino giocavo per strada a Gioia del Colle, uscivo la mattina e rientravo la sera. Poi ho continuato a giocare e sono arrivato a calcare i campi di Promozione, l’ho fatto fino ai 32 anni, quando ho deciso di smettere per problemi alle ginocchia. Solo due anni prima avevo fondato il mio brand, LC23. Nonostante i ritmi lavorativi, il calcio ha continuato e continua ad essere molto più di una passione. Seguo qualsiasi campionato e coppa, sono tifoso del Milan, ma il Bari ha un posto speciale nel mio cuore. Nella nostra provincia il legame con la squadra è totalizzante, la tifoseria regge il confronto con le migliori piazze europee… Insieme ai miei amici ho sempre frequentato lo stadio San Nicola e ho partecipato a tantissime trasferte, assistendo a scene uniche e indelebili. Ho avuto la fortuna di crescere osservando il calcio con la sensibilità di un appassionato di moda. Sono entrato in contatto con la cultura ultras e le sue caratteristiche stilistiche e, allo stesso tempo, ho maturato una fascinazione incredibile per i kit delle squadre, soprattutto quelli d’allenamento. È una ‘malattia’ che si è tradotta nel collezionismo: il mio pezzo più pregiato è la maglia originale Umbro dell’Inghilterra d’Italia 90, che Palace ha riproposto l’anno scorso. È semplice e fantastica, non stanca mai. Negli anni ’90 Umbro ha inventato una nuova estetica calcistica, ha cambiato il Gioco. Non è un caso se molte di quelle maglie vengono indossate ancora oggi dentro e fuori gli stadi”




E non è un caso che la mente di Colacicco sia stata interpellata da due dei brand più celebri e leggendari del panorama calcistico per proseguire nella celebrazione della comunione tra pallone e fashion. Il già citato Umbro e Kappa sono le due vetrine in cui questo creativo pugliese ha potuto esporre reminiscenze dal sapore di Nineties e David Beckham, ma sono anche le due appendici sportive di un manuale stilistico molto più complesso, quello di LC23, capace di attecchire globalmente, collezione dopo collezione, grazie alla propria unicità. Se la collaborazione con il brand dei due rombi è stato un viaggio onirico, confida Colacicco, quella con il brand di origini torinesi è stato invece un percorso fatto di molte gioie e infinite pressioni. Perché vestire la propria squadra del cuore è un’opportunità magica, certo, ma è anche la missione più ardua che un tifoso possa affrontare.
“Quando ho collaborato con Umbro, mi sono trovato dentro un parco giochi. È stato un sogno vedere il logo di LC23 affiancato a quello del brand inglese, ed è stato fantastico poter reinterpretare o riutilizzare le loro patchwork più iconiche. Il progetto Bari è iniziato quasi per scherzo, girando nei corridoi dell’azienda ho iniziato a parlare delle maglie del Napoli create da Marcelo Burlon. Ironicamente ho detto: “Se non lo faccio io per il Bari, chi altro lo può fare?”. Loro mi hanno subito chiesto delle prove grafiche. Non ci credevo, non pensavo avrebbero accettato. La pressione psicologica è stata fin dall’inizio enorme, la paura di deludere le persone che condividono la tua stessa fede è pesante, ma quando ho visto le prove del pattern dei polipi ho capito che il nostro progetto sarebbe stato vincente. Questa sinergia con Kappa e con il Bari mi ha dato delle soddisfazioni enormi: il giorno del drop alle 5 del mattino moltissime persone erano in coda davanti al negozio LC23 di Gioia del Colle. Il mio paese, sperduto nel nulla, era diventato la meta per tanti tifosi del Bari che apprezzavano la mia maglia… Era impossibile aspettarsi un successo simile, che è stato confermato dal sold out online raggiunto in pochi minuti. La cosa più difficile è stata ripetersi. Quest’anno ho provato ad alzare il livello di complessità, studio e interpretazione della maglia. Sono estremamente soddisfatto, perché molti addetti ai lavori hanno compreso quest’evoluzione e abbiamo ricevuto ordini di tanti, tantissimi collezionisti da ogni dove. Credo che queste maglie siano figlie del destino. La prima jersey l’abbiamo lanciata in concomitanza con la promozione dalla Serie C alla Serie B, e non era pianificato. Il kit di quest’anno è stato indossato per la prima volta in un pallido Bari-Venezia, il classico 0-0 ruvido, sbloccato dal gol di Bellomo, l’unico barese della rosa. Dopo il gol, Bellomo è corso sotto la curva e ha replicato il noto trenino barese, lo stesso trenino che ho riproposto graficamente sulla maglia. Sono stati due momenti da brividi”


Dopo aver vestito il Bari in Serie C e in serie B, oggi Leo Colacicco sogna di proseguire questo intimo rapporto nella massima serie, nell’olimpo calcistico che i biancorossi stanno finalmente accarezzando dopo un lungo, lunghissimo periodo di purgatorio, provando a completare una vertiginosa scalata estetica e sportiva. Questo 43enne laureato in Ingegneria, ma allevato dai saperi artigianali di una madre-sarta e da un intenso percorso nell’universo dell’e-commerce fashion, ci insegna che non c’è calcio senza stile e non c’è stile senza calcio. Il padre fondatore di LC23 conclude l’ibrida analisi parlandoci di ispirazioni orientali e senso d’appartenenza, di clamorosi fallimenti e identità pugliese, sopratutto di un’ascesa cominciata da zero, pianificata nel feudo di Gioia del Colle e destinata a proseguire sull’onda di una fertile creatività inesorabilmente devota all’immaginario sportivo.



“Il progetto LC23 è iniziato con 8 camicie fatte da mia madre. Il primo ordine online è arrivato dopo un anno e mezzo, lo ricordo ancora. Nel tempo non ho cambiato il mio processo creativo. In ogni collezione metto dentro quello che ho in testa, senza seguire trend. Sono varie cose che m’ispirano e che cerco di conciliare coerentemente, a modo mio. Sicuramente sono molto legato al mondo giapponese e coreano, ma anche a mitici brand italiani come Stone Island. L’elemento sportivo è sempre fondamentale. Per esempio nello shop LC23 di Gioia del Colle ho appeso le foto di alcuni numeri 23: Materazzi, Ambrosini, LeBron, Michael Jordan e, soprattutto, David Beckham. Beckham è un mio idolo: è riuscito a combinare moda e calcio in una maniera unica, e continua a farlo ancora oggi. Ma anche giocatori come ‘Alino’ Diamanti stuzzicano la mia fantasia, parlo di personaggi eclettici che riescono ad uscire dall’Italia e a lasciare il proprio segno su campionati esteri, a raggiungere traguardi realmente fighi. Al contrario di Diamanti, la base operativa di LC23 non ha abbandonato l’Italia e la Puglia, continuando ad essere a Gioia del Colle. Abbiamo deciso di restare fedeli alle nostre radici. Ovviamente non è stata e non è una scelta facile, ma ho vissuto per anni a Milano e so che la mia terra regala meno frenesia e più tranquillità. C’è una fusione con tutto quello che viviamo e che ci circonda. Tutto è spontaneo e positivo, e spero che continui a rimanere tale”
The Ninth Issue
Athleta Magazine Issue 9 è una nuova celebrazione della musa sportiva, del suo valore sociale, della sua infinita forza narrativa e del suo rapporto con la fotografia contemporanea. Per la prima volta il nostro viaggio cartaceo comincia con due differenti copertine. La prima è firmata da Nils Ericson, mentre la seconda è affrescata dalla lente di Rich Wade. ‘Game on’, le tradizioni e i rituali di passaggio del football americano liceale da una parte, e ‘It’s all fake, right?’, la brutale meraviglia del deathmatch wrestling dall’altra, sono le porte d’ingresso per questo nuovo capitolo della nostra pubblicazione indipendente. Sacrificio, redenzione e resilienza ci guidano all’interno dell’Eastern New York Correctional Facility, dove la leggendaria macchina fotografica di Joseph Rodriguez ha immortalato un tanto atipico, quanto rilevante contest di bodybuilding tra detenuti. I corpi statuari del reportage ‘Forced Reps’ echeggiano ad un oceano di distanza nel secolare e mistico rituale del wrestling iraniano, descritto in ‘Zurkhaneh, la casa della forza’ da Konstantin Novakovic.
La passione e gli obiettivi atletici non hanno età in ‘Mastering Time’, la nostra ode ai protagonisti dei World Masters Athletics, e non hanno prezzo in ‘Fairway Tertulia’, la galleria visuale di Joseph Fox focalizzata sui green popolari e democratici del quartiere madrileño di Fuencarral-El Pardo. La ‘Giovane, nobile arte’ di Lucia Elen Ayari ci porta nella complessa periferia di Catania, dove la boxe può diventare strumento di emancipazione e speranza. Dalla bollente Sicilia al gelido Wisconsin: la terra di laghi ha permesso a MT Kosobucki di scoprire e analizzare l’affascinante sport capace di unire vento, vele e regate sottozero in ‘Ice Sailors’. Infine, l’editoriale ‘Back in the days’ a base di breaking, cultura underground milanese e flow fotografico di Tommy Biagetti è l’ultimo tassello della nostra nona issue, la prima dal doppio volto.




















Behind the Lights – Teo Giovanni Poggi
Il fotografo romano che vive il mondo outdoor come propria casa e filosofia personale
Dal passato di Teo Giovanni Poggi affiorano originali discrepanze. Se è ironico pensare che un uomo allevato dalla ‘Città Eterna’ non abbia interesse per il calcio, è altrettanto unico il fatto che una delle lenti più ispirate del panorama outdoor contemporaneo abbia assaporato concretamente la montagna solo dopo lo scoccare della maggiore età. È credibile e coerente, invece, il percorso umano e professionale di un arrampicatore creativo, o di un creativo arrampicatore, capace di sviluppare il proprio immaginario attingendo dalle scene, dagli input e dalle muse più disparate.
“Il mio rapporto con la montagna è atipico. Sono nato e cresciuto a Roma, non mi piacevano gli sport con la palla e mi sono avvicinato all’arrampicata, incontrando quella che sarebbe diventata non solo una passione, ma anche un modo di vivere. Quando mi sono trasferito a Londra, ho ripreso ad arrampicare e ho fatto un viaggio in Thailandia insieme a due amici, dove ho affrontato la mia prima esperienza in falesia per un mese consecutivo. Una volta rientrato a Londra ho deciso di prendere il patentino per lavorare sulle funi e ho iniziato ad alternare 3 mesi di lavoro con 3 mesi di arrampicata in giro per il mondo. Prima di Londra non avevo mai sciato, non avevo mai visto e vissuto la montagna realmente, l’avevo solo immaginata in palestra…”
Scatto fisso e cinema d’autore, leggendari fotoreporter e fanzine underground: la vorticosa evoluzione artistica di Poggi, iniziata con una macchina analogica trovata in casa, nel tempo ha preso la forma di nozioni e sensibilità, imboccando la direzione della narrazione visuale, dell’ispirata necessità di documentare luoghi attraverso sensazioni ed esseri umani attraverso gesti e percezioni. La produzione di questo giovane maestro della composizione oggi risulta una corrente filosofica a sé stante, votata all’esplorazione del dettaglio, all’analisi di una rara antropologia naturale, utilizzata come vettore per definire l’universale condizione del presente.




I miei punti di riferimento visuali sono sempre stati fotografi che mi piace definire ‘veri’. Parlo per esempio di Gianni Berengo Gardin e della sua capacità di osservare la vita e la realtà, o di Franco Fontana, che questa realtà spesso plasma. A livello internazionale amo il lavoro di fotografi come Alec Soth, così come Daniel Shea e la sua capacità di evocare piccole storie attraverso singole immagini. Entrambi hanno una chiara e definita identità che ammiro. A Londra sono stato un corriere e ho amato una sottocultura ciclistica che per me continua a voler dire famiglia. I corrieri sono degli ‘artisti urbani’ con un preciso processo creativo fatto di linee e flow, dove il corpo e l’istinto diventano fondamentali. Quella scena mi ha introdotto alla produzione di fanzine, che si sono trasformate nella mia porta d’ingresso per la fotografia commissionata. Quando sono rientrato a Milano, invece, ho avuto la fortuna di essere assistente di Leonardo Scotti, che oltre ad insegnarmi molto è diventato un caro amico. Prima ancora della fotografia, però, l’idea di trasmissione delle emozioni mi è arrivata dal cinema, dalla potenza delle immagini in movimento e dalla letteratura. Registi come Gus Van Sant e scrittori come Jorge Luis Borges insegnano l’attenzione al dettaglio umano e naturale, al simbolismo, ai concetti d’ineffabilità e destino. In fondo ogni cosa può essere un vettore d’emozioni, anche una linea su un muro…”
È proprio qui, in quella che Poggi definisce come l’intima interconnessione tra ogni elemento, che si annida una visione tanto stratificata da un punto di vista letterario, quanto spontaneamente brillante. Tra chiare metafore ed echi lontani, il flusso visuale di questa lente itinerante riesce a plasmare tempi e significati indefiniti, destinati ad un’interpretazione individuale, ma riconducibili ad ideali collettivi e junghiani. Sostenibilità ambientale, progresso sociale e diversità umana sono solo alcuni dei temi che la pratica di Poggi riesce a convogliare ed esprimere.





Mi piace pensare che la mia fotografia possa avere una valenza sociale. Dal mio punto di vista non esiste natura separata dalla società e dal mondo. Siamo tutti natura. Lo possiamo capire osservando i suoi pattern e le sue modalità di sopravvivenza e coesistenza: le dinamiche del nostro ecosistema esistono dal principio di ogni cosa, all’interno di questa catena tutto può influenzare tutto. Credo sia utile riflettere su questo tema e credo che la natura possa fornire un’infinita serie di simboli e metafore. Ogni volta che posso scappo da Milano e mi ritiro sulle Alpi Centrali, dove dopo qualche ora percepisco il mutamento del mio stato d’animo. Boschi e montagne mi ispirano, ma allo stesso tempo la città mi regala una meravigliosa densità di esseri umani, un melting pot fertile. Ogni persona ha la propria storia, e tutte queste storie e personalità riescono incredibilmente a coesistere. Per questo la città è una creatura enorme che non smette di attirarmi: la manifestazione e l’osservazione della diversità umana, così come di quella naturale, fanno scaturire domande esistenziali e riescono anche a fornire delle risposte”
Un altro tipo di risposta all’ascesa artistica di Teo Giovanni Poggi è quella del mercato: Gramicci, The North Face, Satisfy e ROA sono alcuni dei brand che ultimamente hanno fatto ricorso alla prospettiva concettuale di questo talento romano. Il suo equilibrio tra consapevolezza tecnica e pura bellezza è ormai sinonimo di campagne inconfondibili, ma anche di rivincita: quella di un adolescente capitolino che veniva preso in giro per le proprie scarpe da trekking e che oggi, grazie alla sua vena artistica e alle sue skill sportive, sta riuscendo nell’impresa di affrescare un nuovo cosmo estetico e di strutturare una vita votata alla libertà






Ero l’unico che indossava le Salomon al liceo, per questo adesso mi fa sorridere che tanti brand outdoor siano diventati ‘cool’… Ai tempi venivo preso in giro per le mie scarpe e ricordo che lo stesso avveniva per i boy-scout e per il loro legame con la natura. Questa transizione mi fa piacere, la nuova percezione outdoor è una rivincita, ma contemporaneamente mi fa riflettere sul processo di mercificazione ed espropriazione che è in atto. Lo stesso processo che ha coinvolto in passato la cultura skate. È fondamentale capire e far capire cos’è vero e cosa no. Ora vorrei continuare a organizzare viaggi che siano sia ricerche personali, che progetti commissionati, condividendo questo tempo e queste avventure con le persone che mi sono più vicine. Insieme al mio caro amico Alex Webb (altro volto celebre della fotografia outdoor contemporanea ndr) sogniamo le grandi pareti e le avventure dell’alpinismo mitico”