Nick Turner, un flusso di coscienza tra arte e sport

Onde e cavalli, insicurezze ed evoluzioni, l’artista americano che ritrae universi individuali e universali

“C’è qualcosa che unisce onde e cavalli, surf ed equitazione. È la sensazione di non essere in pieno controllo. Sei un piccolo individuo sopra un qualcosa di molto più grande di te… In pochi istanti ti senti più umile, percepisci una forte e profonda connessione con la natura, e l’essere umano viene curato da questa condizione passeggera. Il mio rapporto con i cavalli nasce molto tempo fa, ho iniziato a cavalcarli quando ero solo un bambino, il surf è arrivato più tardi, ma è immediatamente diventato una terapia: riesce a riallineare tutto quello che c’è dentro la mia testa”

L’arte di Nick Turner è elegantemente cinetica, è un raffinato moto ondoso, è la vorticosa rotazione di zampe e criniere, è la danza di un presente naturale e umano, di un attimo definito e indefinito, dove la solitudine riesce a sublimarsi in uno stato comune, esplicitando profondi significati esistenziali, emotivi e sensoriali.

Il multiforme eclettismo di questo artista statunitense, ma cittadino del mondo, si esprime attraverso mezzi e immaginari solo all’apparenza distanti tra loro: lente e pennello, collage e aforismi diventano un corpo unico e un flusso coerente davanti alle sensibile mani, al palpitante estro e al pregiato DNA di un uomo destinato fin dall’infanzia al supremo ideale delle Muse antiche, ma anche ad un altro tipo d’immaginario, l’immaginario sportivo.

“Sono cresciuto in giro per il mondo. La mia base è sempre stata nel Maine, ma per tanto tempo ho vissuto in Europa e attualmente sono in Portogallo. La mia famiglia è estremamente creativa. Mia nonna era una pittrice di Berlino, lasciò la Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. Mia madre è una grande intellettuale, ha completato un phd ad Harvard e in quel periodo ha incontrato mio padre. Durante i lunghi periodi trascorsi in Paesi stranieri ho fatto scuola a casa insieme a lei. Lei mi ha introdotto ad una visione più romantica di ciò che mi circondava, lei mi ha permesso di entrare in comunione con la natura e mi ha messo la prima macchina fotografica in mano. Non è stato semplice crescere in questo modo, perché non ho mai avuto un reale circolo sociale attorno a me. Durante l’infanzia e l’adolescenze avevo solo l’arte e lo sport. In Francia ho partecipato a competizioni nazionali di judo e sollevamento pesi. Insieme al mio cavallo ho anche gareggiato per anni in gare d’equitazione. In generale mi sono sempre trovato meglio nel mondo esterno, immerso nella natura e nel suo dinamismo… Il contesto outdoor mi ha sempre calmato ed è il motivo per cui, ancora oggi, mi reco spesso in luoghi remoti con la mia macchina fotografica”

Sport e arte. Arte e sport. È complesso far convivere questi due universi paralleli, è complesso esplorare e manifestare questa dicotomia resa inconciliabile da percezioni e tabù passati, mai completamente infranti. Nick Turner inserisce questo tema all’interno di un concetto più corposo e delicato, il concetto d’insicurezza personale.

Perché la fisicità di questo artista polivalente, scolpita da anni di sforzi atletici, è spesso risultata un difetto, più che una virtù, inserendosi nella galassia d’incertezze che inevitabilmente accompagnano ogni essere umano. Una condizione universale, che solo illuminate sensibilità riescono a trasporre in parole, composizioni e ritratti.

Ho sempre ritenuto importante avere piena consapevolezza del mio corpo. L’esercizio fisico è stato un fondamento della mia vita, lo sport mi ha insegnato il valore della fatica e della disciplina, mi ha spinto a competere con me stesso, a perfezionare ogni dettaglio del mio lavoro. Per molti amici artisti lo sport non ha rilevanza, io invece devo essere coinvolto in qualche tipo di attività, altrimenti non sto bene con me stesso… A livello artistico ho mostrato il mio corpo solo per una serie di ritratti dedicati ai cavalli. All’epoca volevo concentrarmi sulla ritrattistica fashion, ispirandomi alla statuaria greca, ed era difficile trovare persone che fossero a loro agio con questi animali. Ma la comunione tra sport, corpo e arte ha anche lati negativi. Ricordo per esempio le mie prime mostre a New York, dove ho ricevuto commenti ironici sulla mia stazza. Quei momenti mi hanno provocato insicurezze per molto tempo. Ho vissuto molte situazioni in cui non mi sono sentito a mio agio con me stesso o parte di un gruppo. Dopo tutti gli anni spesi all’estero, al college avevo la sensazione di non essere completamente americano, inoltre ero un artista, ma non bevevo e non fumavo. Per molto tempo poi ho pensato di non poter essere contemporaneamente fotografo fashion e artista, mi sono imposto di tenere separati questi due campi, e solo ultimamente ho iniziato a comprendere che, in realtà, questi due mondi possono convivere…”

Nonostante le insicurezze, nonostante i dubbi interiori, l’arte di Nick Turner è riuscita a raggiungere una maturità popolata da analogie visuali e volti incisivi, movimenti filmici e cattedrali naturali, unendo arte, sport e fashion in un magmatico e coerente moodboard in costante espansione.

Il delicato piano sequenza delle sue opere trae ispirazione da figure e discipline multiformi, diventando riflesso delle fotografie senza tempo di Bruce Weber e Peter Lindbergh, delle geometrie tracciate dai padri dell’architettura contemporanea, dalle nozioni assorbite attraverso studi socio-politici e filosofici, come testimonia il titolo della pubblicazione ‘State of Nature’, realizzata in collaborazione con Yves Saint Laurent.

Non c’è interruzione nella produzione di questo artista quarantenne, c’è continuità. La continuità del gusto e del senso, dell’origine e dell’evoluzione, della natura e dell’uomo. La continuità della realtà, narrata senza artifici o vie di fuga. La continuità di un’arte che nella sua multidimensionalità riesce ad essere coerente ed efficace, trascinando ogni spettatore in scenari privati e universali, dove ogni dettaglio diventa un messaggio interpretabile.

“Amo fotografare, ma voglio essere artista allo stesso tempo e voglio continuare ad avere la mia libertà creativa. Devo restare fedele al mio gusto, a ciò che mi piace. Il mio lavoro non ha una precisa struttura, dipende dai miei spostamenti, dai luoghi che incontro. Non spendo troppo tempo nella creazione di un set o nella tecnica, cerco di trovare l’immagine che mi piace. Quando viaggio porto con i miei sketchbook e passo ore a disegnare cavalli. Faccio tantissime cose che non uso e tengo per me. Annualmente mi reco nel Wyoming, dove scatto panorami stupendi e riesco a disconnettermi dal vortice tecnologico contemporaneo, come sulla tavola da surf. Dopo un lungo allontanamento dal fashion, ultimamente questo universo è tornato da me in maniera organica, non ho dovuto cercarlo e i brand con cui ho iniziato a collaborare mi stanno concedendo piena libertà artistica. Voglio proseguire su questa strada”

Nick TURNER is represented by THEWAVES Agency
https://thewavesagency.com/photographer/nick-turner
For any request emilie.dacosta@thewavesagency.com

Photo Credits:

ZARA: @Zaramen – Photography: Ben Beagent
SAINT LAURENT: @saintlaurent by Anthony Vaccarello


Hansle Parchment, gli ostacoli sono la vita

Dalla Giamaica a Tokyo, dal corpo alla mente, l’arte scientifica di un campione olimpico

"Gli ostacoli sono parte della vita, sono la vita. Li uso spesso come metafora, perché la filosofia e i concetti alla base di questo sport sono estremamente potenti. Ogni ostacolo è una nuova gara, ogni ostacolo è una nuova barriera da attaccare e superare… E per riuscirci bisogna unire e perfezionare una lunga serie di fattori. In fondo noi ostacolisti dobbiamo essere come dei computer, ogni dettaglio deve essere coordinato per ottenere il massimo risultato”

Non è facile percepire il fulminante tocco dei passi di un atleta raro, di un ostacolista raro, capace di sollevare un oro olimpico sul podio di Tokyo 2020 e di segnare un’intera era sportiva. È invece facile ascoltare le sue parole, lineari e profonde: come la sua corsa sui 110 metri, come le sue planate sulle 10 trappole verticali che lo attendono dopo ogni sparo. Gli ostacoli sono una forma d’arte scientifica, rivela questo monumento contemporaneo alla biomeccanica. Gli ostacoli sono esperienza ed evoluzione, fa intendere questa 32enne stella dell’atletica giamaicana, riavvolgendo la macchina del tempo e tornando alla genesi di un rapporto totalizzante.

“Quando ero un bambino, non sapevo cosa fosse l’atletica. Nella mia vita c’erano soltanto il cricket e il calcio. Ma in Giamaica tutto è involontariamente legato alla corsa. Correvo sempre, per sfidare altri bambini o per andare a comprare qualcosa a mia madre. Le mie giornate erano scandite dalla velocità. Il colpo di fulmine con l’atletica è arrivato a inizio high school, quando ho assistito ad una gara sui 100 metri tra i migliori ragazzi della mia scuola. Centinaia di persone erano assiepate per osservare quel momento, io l’ho fatto dal terzo piano dell’edificio: caos, adrenalina ed eccitazione hanno invaso tutta la comunità. Ho deciso immediatamente che mi sarei unito alla squadra di atletica della mia scuola. Per i primi mesi mi sono cimentato in tante discipline diverse, come il lancio del disco e del giavellotto. Passavo di fianco agli ostacoli ogni sera, poi un allenatore mi ha chiesto di provare a saltarli: da quell’istante la mia vita ha iniziato a gravitare attorno a questi oggetti”

Prima le vittorie a livello scolastico, poi la scalata internazionale. Hansle racconta quasi nostalgicamente del suo meeting d’esordio, corso con delle scarpe usurate e una divisa fuori taglia, del nervosismo e dell’orgoglio vissuti vestendo per le prime volte i colori del proprio Paese, delle responsabilità cresciute di pari passo con i risultati e di alti e bassi: montagne russe fisiche e psicologiche, che risultano inevitabili in una delle discipline più complesse dell’intero panorama atletico, montagne russe che questo argento Mondiale è riuscito a stabilizzare grazie all’esperienza, allo studio e all’esplorazione di sé stesso.

“Ora posso dire di essere in controllo, sento di aver raggiunto la piena maturità sportiva. Lungo la carriera sono cambiato molto: quando sei giovane pensi a divertirti e a viaggiare, non lavori realmente sulla tua testa, sulle tue paure, sui tuoi obiettivi, e in questo sport finisci inevitabilmente per avere dei periodi bui, spesso legati agli infortuni e alle insicurezze. Dopo tutti questi anni sulla pista, ho deciso di approcciare gli ostacoli come la vita: so che posso controllare ciò che è possibile controllare, e so che le incognite non dipendono da me, non devono influenzarmi. Stress e preoccupazioni non hanno senso. Devo solo concentrarmi sul prossimo risultato, devo avere dei paraocchi mentali e pensare solo a ciò che voglio conquistare, devo ragionare sulle tappe che dovrò percorrere per raggiungere la destinazione. Alcuni audiolibri hanno plasmato questa nuova filosofia, mi hanno permesso di comprendere quanto la negatività emotiva influenzi l’intero corpo, quanto il subconscio sia estremamente potente e possa incidere sulle performance. Libri come ‘How to own your own mind’ mi hanno cambiato e ho cominciato a condividere queste nozioni con chi mi circondava. Perché la condivisione aiuta a rafforzare le conoscenze e le consapevolezze”

Oggi le consapevolezze di Hansle sono le certezze di un atleta all’apice della propria traiettoria sportiva, sono le sicurezze di un uomo che ha affrontato gioie impareggiabili e infortuni dolorosi, sono le volontà di un ostacolista destinato a restare nella storia, insieme ai propri tempi. Parliamo di legacy, come la definirebbero dall’altra parte dell’oceano, parliamo di una carriera che ha incasellato una serie di podi di altissimo livello e che desidera vestirsi ancora d’oro, colmando un’unica lacuna: la vittoria di un Mondiale.

“Voglio essere considerato tra i più grandi di questa disciplina. Fino ad ora ho ottenuto ottimi risultati, ma voglio fare di più, voglio tornare sul podio olimpico e voglio conquistare il mio primo oro mondiale. Sento che posso ancora abbassare i miei tempi. Se riuscirò a centrare questi obiettivi, riuscirò a vedere il mio nome nel Gotha degli ostacolisti. Ora sono più vecchio, ma correre gli stessi tempi di quando avevo 20 anni, o migliorarli, sprigionerà emozioni ancora più forti. All’esterno della pista voglio proseguire i miei studi universitari, sono iscritto a Psicologia, ma vengo sempre più attratto dalle discipline ingegneristiche… Comincerò dei piccoli corsi e progetti dopo aver finito di correre. Ma prima ho ancora molte soddisfazioni da togliermi”


Il Sunshine Criterium secondo Magnus Bang

Il rider danese ci spiega la genesi e l’evoluzione dell’annuale gara fixie di Copenaghen

“Il Sunshine Criterium è strettamente connesso alla città di Copenaghen, durante ogni edizione c’è questa vibrazione urbana che circonda l’intero evento… L’anno scorso abbiamo corso l’undicesimo capitolo della gara e il percorso non è mai stato lo stesso. Ogni uscita con la mia scatto fisso equivale ad un’esplorazione della mia città e dei suoi angoli nascosti. Copenaghen è in continua evoluzione, il suo volto continua a cambiare, e io voglio stare attento ai nuovi luoghi che si creano, voglio cercare zone che trasmettano le giuste sensazioni ai rider, per poi delineare il tracciato anno dopo anno”

Minimalismo architettonico e cosmopolitismo umano. Copenaghen è una terra fertile per qualsiasi appassionato di bici a scatto fisso. La sua morfologia sembra plasmata su misura per fungere da sfondo, o meglio, da patria per rider che nella bicicletta vedono uno strumento sportivo, ma anche un elemento di design e un mezzo per costruire community apolidi. In questa capitale scandinava prende forma ogni anno il Sunshine Criterium, la gara che raccoglie tutti questi fattori, elevandoli grazie all’arte delle due ruote e all’impegno del suo organizzatore, Magnus Bang.

“La scatto fisso mi ha reso quello che sono oggi. Mi ha avvicinato alla fotografia, ad una nuova sfera estetica e, soprattutto, a gente di tutto il mondo. Ogni volta che viaggio in una città so che posso fare affidamento su vecchi o nuovi amici conosciuti grazie alla fixie. Tanto tempo fa, durante uno di questi viaggi, ho partecipato ad una gara berlinese. Avevo 18 anni e ho sentito la responsabilità di creare qualcosa di simile nella mia Copenaghen. All’epoca lavoravo come courier e insieme ad un amico abbiamo deciso di organizzare il primo Sunshine Criterium. Eravamo inesperti, non avevamo idea di come muoverci, ma tante persone ci hanno dato una mano. Sono passati più di dieci anni da quel momento e oggi il Sunshine ospita centinaia di rider provenienti anche da altri Paesi. Questa cosa m’inorgoglisce e mi fa comprendere, ancora una volta, il potere aggregante della fixie”

Perché scatto fisso è sinonimo di community. Magnus sottolinea questo concetto parlandoci della pulsante atmosfera che circonda ogni Sunshine Crit, ma anche elencando i suoi viaggi in giro per il mondo, i letti offerti da sconosciuti rider e le cene condivise con amanti della fixie di ogni dove. La bici, per questi atleti senza freni, diventa un ‘entry point’ nelle vite e nelle culture altrui, uno strumento per ricercare sia il risultato sportivo, che la connessione umana. Caratteristiche che si riuniscono annualmente sull’asfalto di Copenaghen.

“È una questione di mindset. Per noi i confini nazionali non esistono, la fixie unisce chiunque. E questa è una caratteristica insita anche alla città di Copenaghen. Qui le persone si muovono costantemente e giungono da tutto il mondo, tanti internazionali lavorano come corrieri. Ho sempre pensato che queso cosmopolitismo potesse essere rappresentato anche all’interno del Sunshine Crit. I partecipanti sono eterogenei, ci sono ex ciclisti professionisti, atleti che hanno vinto tappe del Giro d’Italia e che si sono innamorati della fixie, ma anche minorenni, come capitato con un ragazzo che ha attraversato tutta la Danimarca con i suoi genitori per competere su queste strade… Personalmente non ho resistito al desiderio di gareggiare solo due volte, mi sono piazzato secondo e terzo: meglio così, sarebbe stato strano vincere!”

Sorride Magnus. E il suo sorriso lascia trapelare la soddisfazione per un divertissement giovanile che si è esponenzialmente evoluto in un evento di portata internazionale. Ma nella vision del rider danese non c’è spazio per ingordigia, corruzione o compromessi. Il Sunshine Criterium deve rimanere fedele a sé stesso e al suo spirito, ribadisce più volte questo nordico creativo delle due ruote. Una fedeltà interamente fixie.

“Non voglio correre e affrettare l’evoluzione del Sunshine Crit. Dev’essere lenta e naturale. Se dovesse aumentare vertiginosamente il numero dei partecipanti ovviamente non me ne dispiacerei, ma il mio desiderio è restare connesso e fedele alle radici di questo evento. Non necessitiamo di enormi spazi pubblicitari o di sponsor commerciali: rischiano di essere lontani anni luce dalla nostra filosofia… Conosco e conosciamo il vero valore e la purezza di questo momento d’incontro. È fondamentale evitare di snaturarlo. I fondi governativi ci hanno sempre aiutato, ora il nostro obiettivo è quello di connetterci ad aziende e brand che possano realmente comprendere il Sunshine Criterium, la sua community e i suoi molteplici significati”

Testo a cura di: Gianmarco Pacione